A Riot Of My Own : recensione
di GIANFRANCO PANCINO
“La mia rivolta”, io lo direi così. Ma gli autori hanno preferito “A Riot Of My Own”, la canzone-appello alla sommossa dei Clash: una strizzata d’occhio alla rivolta collettiva della fine degli anni ’70 in Italia. È il titolo di un romanzo. È la storia di Sergio, membro di un collettivo di quartiere milanese e militante del movimento dell’autonomia operaia negli anni ’70. È il racconto della sua fuga dall’Italia al crepuscolo di quell’epoca, dopo che la crociata istituzionale contro il terrorismo, guidata dall’alleanza tra il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana, aveva spazzato via ogni forma di contestazione politica e sociale, e del suo ritorno dopo 23 anni di esilio. Narra la vita quotidiana dei giovani del movimento di allora, le loro aspirazioni alla libertà, le loro sperimentazioni di nuove forme di lotta, ma anche di modi diversi di vivere insieme, nella ricca differenza delle loro individualità. Il romanzo ripercorre le vie dell’esilio che Sergio ha condiviso con centinaia di altri militanti italiani, particolarmente a Parigi, la difficile conquista di uno spazio di vita, la forte solidarietà tra di loro ma anche le baruffe politiche, zavorra ereditata dalle divisioni dei movimenti rivoluzionari in Italia. Rammenta i momenti di sconforto di ogni esiliato (tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui…) ma fa anche brillare i frammenti di gioia, di amicizia, di amore che si spargono intorno a quei giorni spezzati per ricomporre un nuovo orizzonte. E su questo orizzonte si profilano ancora e ancora delle nuove lotte: quelle degli studenti a Parigi e infine, in un movimento circolare, il romanzo si chiude sugli scontri tra manifestanti e polizia il 14 dicembre 2010 nella Roma di Alemanno e Berlusconi.
Il libro l’ho letto dapprima da dentro, come uno dei protagonisti, del movimento e dell’esilio: c’ero alle riunioni dove il fumo delle sigarette contendeva l’aria alle nostre parole, c’ero alla notte della Scala, c’ero ai picchetti all’alba davanti all’Alfa di Arese, c’ero al Parco Lambro, c’ero….. Questa lettura, da dentro, mi ha fatto risorgere ricordi, gioiosi o rabbiosi, ha rischiarito il volto di qualche compagno perduto di vista, o scomparso per sempre, mi ha a volte irritato per qualche tirata troppo pedagogica (rivolta evidentemente a quelli “di fuori”). Poi l’ho riletto come un qualsiasi lettore: ho apprezzato la costruzione intelligente che offre un filo d’Arianna per seguire la narrazione attraverso i distinti episodi, i flashback, i dialoghi più diversi legati alle situazioni più diverse. Alcune pagine resteranno comunque forse oscure per un lettore non iniziato, a causa d’ellissi escludenti riferimenti circostanziali o storici.
Il romanzo si apre con un abile artifizio stilistico che dà al lettore un vivido scorcio della nuova (e desolante) realtà italiana che Sergio ritroverà al suo ritorno in Italia dopo 23 anni di assenza, attraverso la lettura, da parte di due passeggeri del treno che lo riconduce a Milano, di un articolo dell’insospettabile Corriere della Sera che fa una critica feroce alla situazione e al sistema politico italiani. I ritratti dei compagni che Sergio ritrova al suo arrivo a Milano fanno subito trasparire il loro passato, la loro tenace ribellione che si manifesta in semplici gesti di aiuto ai diseredati del sistema o ai più giovani colleghi malmenati da capetti di sempre. È facile poi riallacciare con gli anni del movimento e raccontarne alcuni episodi significativi. Forse non sufficientemente introdotta per un lettore ignaro (il rapimento Moro, le BR e il compromesso storico, per esempio, sono appena sfiorati), l’irruzione sulla scena dell’attacco istituzionale contro i movimenti di massa del 7 aprile 1979 con le centinaia di arresti che ne sono seguiti, serve per un’intelligente rievocazione della fuga in avanti di molti giovani verso le armi e della tentazione della clandestinità di fronte alla repressione. La seconda parte del romanzo ricostruisce la latitanza e le peregrinazioni di Sergio tra Vienna e Parigi, su fondo di dissoluzione del movimento italiano tra prigione, scoramento e invasione dell’eroina, vissuta in diretta attraverso i microfoni delle radio libere. Sono descritti i nuovi incontri di Sergio, la vita degli esiliati parigini tra “petits boulots” e difesa della loro permanenza in Francia, difficile ma rallegrata dalla incomprimibile propensione alla socialità e alla festa degli esuli italiani. Il racconto è guidato poi a mostrare che, malgrado l’esilio e il silenzio politico imposto dall’ospitalità francese, Sergio e compagni riescono comunque ad operare, nelle situazioni che vivono, per porre ostacoli agli abusi di potere sui posti di lavoro, fino alla vittoria di una causa di lavoro da parte dei dipendenti di un’azienda in ristrutturazione. Il filo narrativo si sfilaccia un poco negli ultimi capitoli, comunque l’uscita a cui porta logicamente è il rinascere di nuovi movimenti di rivolta giovanile in Francia e in Itala. Si può guardare con scetticismo questa visione circolare (con rischio di corto circuito) delle lotte, pensare che il 14 dicembre 2010 a Roma non ha molto a che fare con Villa Giulia del ’68 né con le manifestazioni di Bologna e Roma del ’77, e pensare che esistono delle differenze profonde di circostanze storiche e di motivazioni tra questi avvenimenti. Tuttavia, non si può non ammirare l’ottimismo e le pervicacia (nel buon senso) che sostengono la chiusura dell’anello alla fine del romanzo e che sono forse legate alla natura degli autori. Quest’opera nasce infatti dal felice incontro di un “vecchio” militante degli anni ’70, Pantaleo Elicio, detto Leo, e di un giovane studente di 25 anni, Stefano Dorigo, curioso della nostra storia. La congiunzione dei due porta alla sinergia tra due generazioni, entrambi desiderose che i semi delle lotte passate germoglino ancora.
“A Riot Of My Own” non è La Storia di quello che è stato probabilmente il più importante movimento eversivo politico e sociale dell’Europa del dopoguerra. È una storia interna a questo movimento, non è un’analisi dall’alto ma una testimonianza di vissuto reale, e uno dei suoi meriti maggiori è di dare corpo e voce a un gruppo di giovani autonomi, come se n’erano formati a centinaia o a migliaia in tutta Italia nella seconda metà degli anni ‘70. Si iscrive quindi nel quadro delle poche opere letterarie (per citarne alcune: “Gli Invisibili” di Nanni Balestrini, “Rosso di Marìa” di Maria Teresa Zoni e “Insurrezione” di Paolo Pozzi) che cercano di sfondare il muro del silenzio istituzionale e mediatico che ha reso invisibile, per dirla con Nanni Balestrini, la nostra generazione le sue lotte e le sue speranze.
Il libro si presta ad una adattamento cinematografico, lo stile conciso, rapido, a scatti ne fa già quasi uno scenario. Belli tra l’altro la cronaca concitata della manifestazione alla Scala, la narrazione a ritmo di rap del festival di Parco Lambro, le cronache dal vivo da Radio Popolare, il volo sulla penisola alternativa attraverso gli occhi di Maurizio uccello migratore senza nido. La trasformazione in immagini toglierà al romanzo uno dei suoi difetti mignons, qualche passaggio pedante, stile volantino. Per il resto il romanzo si legge facilmente e con piacere.
Al di là delle vicende narrate, delle esperienze euforizzanti o drammatiche, dei messaggi politici contenuti in “A Riot Of My Own”, sono grato a Stefano e a Leo di aver fatto recitare a Ginogiro la poesia “Itaca” di Costantinos Kavafis, che riassume magnificamente il senso del nostro viaggio: è il viaggio stesso, con le esperienze e le conoscenze che ci apporta e che arricchiscono la nostra vita, che è importante, più ancora che la meta del viaggio.
N.B. Vorrei suggerire agli autori di includere un’appendice con una breve cronologia, qualche nota esplicativa e il significato delle abbreviazioni.