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A volte ritornano. Un anno vissuto pericolosamente

 

di ANDREA FUMAGALLI

Un anno fa, a fine luglio 2011, l’asta dei titoli di stato decennali italiani fece registrare un forte incremento dei tassi d’interesse: iniziò ad aumentare il differenziale con i titoli di stato tedeschi (il famoso “spread”), che raggiunse quasi quota 600 a metà novembre. A fine giugno 2011 il Financial Time scopriva che Deutsche Bank aveva venduto circa 7 miliardi di Btp  italiani degli 8 che deteneva nel proprio portafoglio. Tale massiccia vendita produsse a partire dal maggio 2011 una riduzione del valore dei titoli future quotati a Londra (i derivati relativi alle aspettative sul valore futuro atteso dei titoli di stato) di oltre 10 punti percentuali. Tutto ciò mise in moto, da un lato,  aspettative pessimistiche sul valore futuro dei titoli italiani (comportando di conseguenza un aumento dei tassi d’interessi che aggravano il deficit pubblico), dall’altro, fecero incrementare il valore dei derivati CDS che assicurano contro il rischio di insolvenza o di perdita di valore dei titoli stessi. Chi detiene tali derivati nel proprio portafoglio può quindi lucrare laute plusvalenze e non sorprende affatto che i CDS siano concentrati per oltre il 90% in quelle stesse multinazionali della finanza (tra le quali Deutsche Bank) che hanno l’interesse di indurre aspettative negative sulla tenuta dei conti pubblici e creare il panico da default per quei paesi europei maggiormente esposti (i Piigs). Qui sta la fonte e il potere biopolitico  della speculazione finanziaria.

A un anno di distanza nulla è cambiato, anzi la situazione è peggiorata. E la peggior meschinità e falsità ideologica si è dipanata a diversi livelli.

A livello nazionale si sono imposti governi più o meno “tecnici” o si sono condizionati processi elettorali per rendere operative in breve tempo politiche emergenziali di austerity con l’ipocrita giustificazione di andare incontro alle esigenze dei “mercati” (leggi speculazione finanziaria), ma in realtà accelerando ulteriormente la tendenza alla concentrazione dei redditi,  affinando la governance della espropriazione dell’eccedenza sociale del lavoro e incrementando il processo di finanziarizzazione della vita.

A livello europeo, si è invece affinata la gerarchia socio-economica sotto l’egida della Germania. La signora Merkel è disponibile a definire politiche di salvataggio dell’euro a patto che venga sancito il diktat tedesco sulle scelte di politica fiscale europea. Prima, il Fiscal Compact a fine gennaio, poi l’imposizione di forme di commissariamento ai conti pubblici della Grecia e della Spagna  a giugno evidenziano l’intenzione, con il benestare della Banca Centrale e del Fmi, che condizione per uscire dall’Euro è il salvataggio del sistema creditizio, senza per nulla scalfire l’oligarchia finanziaria oggi dominante. Al riguardo, di fronte alle difficoltà di alcuni paesi, in primis la Grecia, e al rischio di una crescente tensione sociale (vedi Spagna), che possono render inapplicabili i diktat della troika, notevoli sono ancora le perplessità tedesche e dei paesi suoi alleati (Finlandia e Olanda in testa). In questi giorni il fronte anti-Euro ha rialzato la testa.

I risultati di tali strategie hanno prodotto sole peggioramento delle condizioni di vita e ulteriore povertà, e non poteva essere altrimenti. Le politiche di austerity, come più volte affermato, non sono in grado di raggiungere gli obiettivi di contenimento dei deficit pubblici. Nel momento stesso in cui spianano la strada alla contrazione della domanda in più stati europei contemporaneamente, l’economia del continente si avvita in una spirale recessiva che rischia di portare ad aumenti, invece che a diminuzioni, del rapporto debito/pil. Con un effetto domino a livello mondiale che acuisce la situazione di instabilità a Occidente (Usa) come a Oriente (Cina).

La concentrazione finanziaria aumenta

Inoltre sul piano della speculazione finanziaria, registriamo alcune novità che non sembrano (o vogliono essere) percepite dagli addetti ai lavori. Proprio in seguito ai tentennamenti della strategia europea e all’oramai chiaro fallimento di una possibile governance unitaria della crisi, la speculazione finanziaria trova nuova linfa e nuove modalità di espressione. Il “giochetto” di speculare al ribasso sui titoli di stato per lucrare sui derivati CDS, dopo i lauti guadagni di Deutsche Bank  riguardo l’Italia e di Goldman Sachs riguardo la Grecia, è oggi diventati patrimonio comune con rendimenti inferiori nel momento stesso in cui la torta viene spartita tra più commensali. Ciò non significa tuttavia che tale strategia speculativa non venga ancora perseguita.  Secondo i dati dell’ultima settimana di luglio, forniti dalla società d’informazione finanziaria Markit, i Credit Default Swap (CDS) legati ai “bond” spagnoli  salgono a 597 punti, evidenziando un deciso rialzo dei costi per assicurarsi contro il rischio di bancarotta della Spagna. In rialzo anche i costi sul debito italiano, con i CDS a 519 punti. Inoltre per favorirne l’acquisto anche a prezzi molto alti, spesso e volentieri si ricorre a vere proprie forme di ricattabilità operate dalle grandi finanziarie e banche a danno di quelle più piccole. Infatti, nell’ambito degli scambi interbancari, si diffonde sempre più la pratica, a fronte della richiesta di liquidità da parte delle banche di piccole e medie dimensioni (come quelle spagnole, ad esempio), di chiedere in cambio l’acquisto forzoso di prodotti derivati a prezzo elevato per consentire la loro realizzazione monetaria. Nell’ultimo anno abbiamo così assistito ad un aumento ulteriore della concentrazione bancaria e finanziaria con un aumento della segmentazione e della selezione di potere tra istituzioni finanziarie. Goldman Sachs ha chiuso il secondo trimestre del 2012 con un utile netto di 962 milioni, in calo del 12% rispetto allo stesso periodo del 2011, pur in presenza di una contrazione delle borse di oltre il 20%.  Non è un caso, infatti, che l’utile per azione si è attestato a 1,78 dollari, ben superiore agli 1,17 dollari attesi dagli analisti. Stesso discorso vale per Citigroup, che dopo un boom dei profitti nel 2011 (+ 74%), ha registrato nei primi 6 mesi del 2012 un utile netto di $ 2,9 miliardi, ovvero 2,38 miliardi di euro, contro i 3,34 miliardi di dollari (1,09 dollari per azione) dell’anno precedente. L’utile netto per azione è superiore a quello previsto dagli analisti (89 centesimi per azione) e ammonta a 95 centesimi. Per le banche europee, si registrano invece utili ridimensionati, ma pur sempre considerevoli. I dati del primo trimestre 2012 di Barclays (al centro dello scandalo Libor), Deutsche Bank e Banco Santander, hanno infatti fotografato utili da 1 a oltre 2 milioni di euro, ciascuna. Tali risultati sono stati possibili proprio grazie al fallimento o alla nazionalizzazione di alcune società finanziarie di dimensioni minori, come le spagnole Baixa o Caixa Catalunya, ma anche di medio-grandi dimensioni come la società di assicurazioni franco-belga Axa.

Utilizzando il database, Orbis, relativo all’anno 2007, prima ancora della crisi dei mutui subprime, lo studio “La rete globale di controllo aziendale” di Stefania Vitali, James B. Glattfelder, e Stefano Battiston dell’ETH di Zurigo, Svizzera (http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/1107/1107.5728v2.pdf), ha evidenziato come poche società finanziarie controllino la maggior parte delle transazioni finanziarie e anche commerciali Con la crisi finanziaria tale numero si è ulteriormente ristretto: Lehmann Br., Bearn Stears e Axa ad esempio oggi non ci sono più o hanno un peso assai ridimensionato e il loro posto è stato preso da HSCO (Hong Kong Shanghai Banking Corporation), favorendo un aumento del grado di concentrazione.

(Si veda la figura su: http://cambiailmondo.org/2012/01/23/governano-il-mondo-e-la-nostra-vita/)

Se analizziamo queste 20 società finanziarie, esse sono quasi tutte collocate nei mercati anglo-sassoni, dagli Usa alla Germania e non può stupire come tale realtà sia in grado di condizionare le scelte della governance politica dell’Europa. Non è un caso, che nessuna delle misure intraprese dalla troika economica abbia a che fare con interventi volti a ridimensione questo strapotere finanziario, anzi il credito a bassissimo costo concesso dalla BCE per 1000 miliardi di euro, nonché l’utilizzo del Fondo Salva Stati (EFSF) per la capitalizzazione diretta delle banche in sofferenza, lungi dal diminuire il razionamento del credito, non fanno altro che aumentare la liquidità per nuovi fini speculativi.

Le nuove direttrici della speculazione finanziaria

Nel corso dell’ultimo anno, infatti, abbiamo assistito anche a nuove forme di speculazione finanziaria. Nuovi e vecchi  titoli derivati sono diventati rilevanti nei portafogli finanziari. Ne vogliamo segnalare in particolare due: gli interest rate swap (IRS) e gli exchanche rate swap (ERS). I primi assicurano contro il rischio di perdite legati alla diminuzione dei tassi d’interessi pagati sui diversi titoli finanziari. Il meccanismo è il seguente: nel momento in cui un operatore finanziario acquista, ad esempio, un titolo di stato sul quale viene pagato un certo tasso d’interesse fisso a 1, 3, 5 anni, viene stipulato un contratto derivato (che si chiama appunto interest rate swap) che consente di recuperare parte dei mancati guadagni nel momento in cui una nuova asta dei titoli di stato comporta un incremento del taso d’interesse medesimo. Tali derivati sono tanto più convenienti e aumentano di valore (generando plusvalenze), tanto più si creano aspettative rialziste sul livello dei tassi d’ interessi sui titoli in oggetto. Non solo, nel caso di un futuro calo nei tassi d’interessi, i mancati guadagni possono essere anch’essi assicurati. Si tratta di strumenti finanziari particolarmente efficaci in condizioni di estrema volatilità degli stessi tassi d’interesse ed è chiaro che essi sono oggi applicati ai titoli di debito pubblico, il cui spread – all’interno di un’elevata volatilità quotidiana – vede oggi un tendenziale aumento (come nel caso della Spagna e dell’Italia) ma che, in un domani non troppo lontano, possono ridursi, se si scommette sul fatto che tali spread non potranno aumentare a lungo, pena l’implosione dell’area dell’Euro. In altre parole, la speculazione finanziaria  è in grado oggi di far fronte e guadagnare nel caso il fondo anti-spread dovesse entrare in funzione in un prossimo futuro.

Prodotti derivati analoghi vengono comunemente utilizzati per quanto riguarda la volatilità del tasso di cambio Euro-dollaro o Euro-yen. In questo caso, si parla di exchange rate swap e in questa fase sono particolarmente utili per assicurare contro il rischio di svalutazione in corso dell’euro. Svalutazione che è anche in parte dovuta alla pressione speculativa tesa ad incrementare il loro valore. Ricordiamo che tali derivati sono stati i primi ad affermarsi sui mercati finanziari nella seconda metà degli anni Settanta, allorquando, dopo il collasso di Bretton-Woods, si passò ad un regime di cambi flessibili, proprio per assicurare il rischio di cambio nelle transazioni commerciali. A differenza di allora, oggi sono usati soprattutto nelle transazioni finanziarie, a riprova della pervasività del processo di finanziarizzazione.

In conclusione, tra CDS e IRS e ERS, nel momento stesso in cui si creano convenzioni all’aumento dei tassi d’interessi sui titoli di stato e sulla svalutazione della moneta europea, il guadagno è assicurato.

Quale contro-potere?

Siamo quindi sempre alla stessa pagina. Il potere biopolitico della finanza si è ulteriormente rafforzato, ma in un contesto di maggior incertezza e di incremento del rischio finanziario. Le previsioni di recessione nel biennio 2012-13 in buona parte dell’Europa rendono allo stesso tempo il quadro più instabile ma anche più profittevole. Instabile, perché la recessione implica distruzione di liquidità, a meno che la BCE non segua una politica espansiva sul modello Federal Reserve, profittevole per le società finanziarie con un portafoglio sufficientemente ampio, perché laddove c’è volatilità dei tassi d’interesse e dei valori azionari vi sono anche opportunità di guadagno. I tentativi di controllo della dinamica finanziaria tramite l’adozione di regole condivise a livello politico-istituzionale non hanno avuto alcun esito. Per il semplice motivo, che seppur declamate, non sono poi praticabili nel concreto. Dopo lo scoppio della crisi, comunque, i vari governi occidentali e i partecipanti all’accordo di Basilea hanno varato dei provvedimenti sul tema della riforma del sistema finanziario.

Ad esempio, negli Stati Uniti l’amministrazione Obama nel luglio 2010 ha diramato il Dodd-Frank Act, che prevedeva la creazione di nuove agenzie pubbliche (anche a difesa dei consumatori), nel tentativo di introdurre un sistema di controllo sul mondo bancario. Vengono così promulgate (sulla carta) regole apparentemente più vincolanti per quanto riguarda la capitalizzazione delle banche, la liquidità, il livello del rischio, la remunerazione dei dirigenti, il governo dei prodotti derivati. In particolare, la cosiddetta Volckler rule prevede un limite alle attività speculative delle (sole) banche ordinarie; non  più del 3% dei loro mezzi propri in transazioni di borsa, in prodotti derivati, in partecipazioni in hedge funds e fondi di private equity. A due anni di distanza, tali provvedimenti non sono ancora entrati in vigore perché richiedono un grande numero di regolamenti di attuazione, processo che ancora non è stato completato (http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20120725/manip2pg/05/manip2pz/326312/manip2r1/comito/)

Nel settembre del 2010 è stato pubblicato il piano di Basilea3, modificato in parte nel giugno del 2011. Si stabiliscono livelli maggiori di capitale proprio richiesti agli istituti bancari e si prevedono anche degli standard in tema di liquidità. Nulla viene detto riguardo le società di rating e  la data di entrata in pieno vigore della normativa sarà nel gennaio 2019, una data  troppo distante nel tempo, visto che nel frattempo potrebbe succedere di tutto. Ed infatti sta già succedendo di tutto, ad esempio, il fatto che, proprio in vista dell’attuazione di Basilea 3, si chiede una ricapitalizzazione dei parte del sistema bancario e ciò diventa il motivo (scusa) principale per indirizzare i soldi del fondo Salva Stati (EFSF) non a sostegno dei paesi in difficoltà, ma direttamente alle banche (come nel caso recente della Spagna).

In realtà dal punto della vista della regolamentazione del sistema finanziario nulla è cambiato. Una possibile alternativa per uscire dall’attuale crisi può essere un mutato ruolo della BCE, in attesa che si definisca una politica fiscale europea comune. Ed è quello che viene prospettato in questi giorni dallo stesso governatore Mario Draghi con il rafforzamento del ruolo della BCE  nel ruolo di “prestatore – indiretto – di ultima istanza”. Ruolo che non è contemplato nelle prerogative della BCE secondo l’art. 105 del Trattato di Maastricht e che perciò trova difficile attuazione anche per l’opposizione della Germania. Tuttavia, anche se la BCE non può acquistare titoli di stato di nuova emissione, ma solo quelli già emessi, tale funzione può essere strumento, seppur parziale e temporaneo, di limitazione della crescita dei tassi d’interesse e quindi dello spread. E’ quello che è avvenuto recentemente per la Spagna e a fine 2011 per l’Italia. Ma si tratta di palliativi di breve respiro, da un lato, perché comunque la liquidità immessa è troppo scarsa, dall’altro, perché tale liquidità, comunque, con un circolo vizioso, va comunque ad alimentare i mercati finanziari e quindi la stessa speculazione. Nell’ultima settimana di Luglio 2012, alcune dichiarazione di Draghi avevano creato l’illusione di un cambio di rotta nella politica monetaria della BCE. Dichiarazione che per alcuni giorni avevano fatto pensare ad un coinvolgimento diretto della BCE nell’acquisto di titoli di stato di nuova emissione, tramite il ricorso in funzione anti-spread di parte del fondo Salva-Stati (il cd. “scudo anti-spread, di cui si è discusso nel summit europeo del 28-29 giugno 2012). La reazione negativa della Bundesbank e, di fatto, il veto posto alla possibilità che soldi comuni europei potessero venire utilizzati per l’acquisto di bond al fine di calmierare i tassi d’interesse e ridurre lo spread ha portato alla decisione da parte del Consiglio Direttivo della BCE, lo scorso 2 agosto 2012, di rinunciare – per il momento – a simili strategie. Ci si è limitati ad enunciare linee guida per il futuro, senza che nulla di concreto (tempi e modalità) venisse stabilito.  Siamo così di fronte ad uno stallo, con la Germania e i suoi alleati (in prima fila Finlandia e Olanda) che chiedono in cambio il controllo e il commissariamento dei bilanci di quegli Stati che sarebbero intenzionati ad usufruire dello scudo anti-spread. In altre parole, la Germania è disponibile a dare il via libera ad una politica monetaria espansiva (“quantitative ease policy”) se e solo se gli Stati che la chiedono siano tenuti strettamente sotto controllo e perdano la sovranità fiscale: come è avvenuto per la Grecia. Il risultato è che la speculazione finanziaria non trova ostacoli e può liberamente imperversare.

Sia che si tratta di politiche monetarie accomodanti o di tentativi di regolazione e controllo dei mercati finanziari, i fattori strutturali della crisi non così vengono minimamente intoccati. Come abbiamo visto, tali fattori sono intrinsechi alle dinamiche speculative ed essi sono volutamente lasciati liberi di agire. Non è tanto il frutto di scelte ad hoc di natura oligarchica e complottista in funzione anti-Euro – come ad esempio sosteneva Federico Rampini su La Repubblica di qualche giorno fa – , ma piuttosto l’esito di un processo endemico del meccanismo di valorizzazione del biocapitalismo attuale.

Di fronte a ciò, non rimane che un’unica alternativa: il default controllato. Esso, di fatto,  non solo è già in atto per molte piccole e medio iniziative commerciali e produttive ma anche per i singoli individui, che, a differenza delle prime, in Europa e in Italia non hanno alcuna tutela da parte del diritto fallimentare. La possibilità di poter “fallire” su base legislativa è oggi uno strumento che permette di far fronte a situazioni economiche disastrose senza dover per forza cadere nella totale miseria e disperazione. Estendere quindi il diritto fallimentare agli individui e alle famiglie è dunque il primo passo da fare. Ma operare sul piano microeconomico non consente di risolvere i problemi sul piano macroeconomico. A questo livello, due sono le possibili opzioni. La prima è dichiarare il fallimento di quelle parte del sistema bancario che oggi si trova in sofferenza e impossibilitato a far fronte ai propri impegni di pagamento e quindi richiede a gran voce il soccorso pubblico. E’ questa la principale richiesta del movimento spagnolo in opposizione alla politica d’austerity di Rajoy. Non si tratta di nazionalizzare le banche in perdita per socializzare le perdite (magari per poi privatizzarle quando un domani ritorneranno in utile). Una volta garantito il risparmio privato, il fallimento degli istituti di credito devono ricadere sullo stesso mercato finanziario, con un probabile effetto domino, che porterebbe alla riduzione del mercati dei derivati e alla riduzione delle relative plusvalenze. In tal modo i costi dell’aggiustamento ricadrebbero non sui bilanci statali (il che alimenterebbe in una spirale perversa la stessa speculazione)  ma sugli stessi mercati finanziari: chi rompe paga! Gli effetti di regolazione che ne scaturirebbero sarebbero di gran lunga più efficaci di qualsiasi provvedimento legislativo in materia.

La seconda opzione riguarda invece i debiti pubblici. Un default controllato, tramite congelamento o rinegoziazione unilaterale ed imposta del rapporto di debito, con l’effetto di portare alla svalutazione dei titoli di stato, causerebbe da un lato l’abbattimento immediato delle plusvalenze sui derivati connessi (i CDS), dall’altro potrebbe favorire un aumento dei tassi d’interessi per i titoli in scadenza. Riguardo al primo punto, il valore dei titoli di stato italiani o spagnoli  si deprezzerebbe con effetti negativi sui valori patrimoniali del sistema bancario-creditizio. Ciò viene ritenuto un pericolo: è vero, ma non ci si dovrebbe preoccupare più di tanto: il Fondo Europeo Salva Stati (ESFS)  potrebbe comunque calmierare la perdita, come ha fatto La BCE per il caso greco. Ciò che conta è che in tal modo anche il sistema bancario (e non solo noi, che lo stiamo già facendo) dovrà pagare la crisi, esattamente come se dovesse fronteggiare dei fallimenti. Riguardo al secondo punto,  di fronte all’ipotesi di congelamento, potrebbero sorgere difficoltà nel collocamento dei nuovi titoli di debito, con il rischio di dover pagare un interesse maggiore e quindi scontare un aumento dello spread. E’ la probabile reazione dei potentati finanziari. A ciò si può rispondere con l’obbligo di detenere un certo quantitativo di titoli di nuova emissione come quota delle riserve bancarie, in modo da garantire, ope legis, la loro riallocazione e la Bce, in questa prospettiva, recuperando il suo ruolo istituzionale di prestatore di ultima istanza, negato dal Trattato di Maastricht, potrebbe acquistare titoli di Stato nazionali sul mercato primario (in cambio di moneta di nuova creazione) e non solo sul mercato secondario.

Secondo il rapporto Eurostat del 23 luglio 2012 (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/2-23072012-AP/EN/2-23072012-AP-EN.PDF), il rapporto debito pubblico / Pil della Grecia nel primo trimestre 2012 è calato di oltre 33 punti percentuali, assestandosi oggi al 132,4%. Tale drastica diminuzione è dovuta all’accordo PSI (Private Sector Involvement) che è stato siglato a meta febbraio 2012. Si è trattato di fatto di un “default” controllato, per il quale il valore dei titoli di Stato greci detenuti dagli investitori istituzionali (in buona parte francesi e tedeschi) hanno subito una svalutazione di oltre il 60%. Un default disordinato avrebbe non solo azzerato (in sostanza) il valore dei bond greci, ma soprattutto falcidiato quello dei titoli di stato degli altri paesi a rischio come Italia, Spagna e Portogallo. Un’ipotesi da incubo visto che solo le prime 20 banche continentali, per dare un’idea, detengono in portafoglio 381 miliardi di titoli dei cosiddetti Piigs (non è forse questa una buona arma di contro-potere contro il ricatto della speculazione oggi dominante?)

Abbiamo già discusso (https://uninomade.org/lezioni-di-default-dalla-crisi-greca/) il prezzo che è stato fatto pagare alla Grecia per questo compromesso: la politica pubblica greca è stata commissariata e tutte le risorse (ricavate dall’adozione di politiche draconiane di austerity, con pesantissimi effetti sociali) vengono in primo luogo destinate al pagamento degli interessi (circa il 30%, un valore da usura) alle banche straniere che hanno partecipato all’accordo PSI. In secondo luogo, contemporaneamente alla ristrutturazione del debito greco, le banche europee hanno ottenuto prestiti dalla Banca Centrale Europea per un valore di circa 530 miliardi di euro ad un tasso d’interesse minimo, intorno all’1%: una somma di liquidità che si aggiunge ai circa 480 miliardi già stanziati nel mese di novembre 2011. Di fatto, le banche europee e i principali investitori istituzionali hanno potuto contare su nuova liquidità superiore a 1000 miliari di euro! Tale somma di denaro solo in minima parte è stata utilizzata per finanziare attività di investimento. Le restrizioni sul credito sono rimaste del tutto invariate. Tale liquidità è sta così reinvestita nei mercati speculativi, in particolare nell’acquisto di titoli di stato italiani, spagnoli, irlandesi ecc., oggi acquistabili con rendimenti elevati, e soprattutto dei derivati CDS (Credit Default Swap) e IRS (Interest Rate Swap). Assistiamo così ad una sorta di internazionalizzazione indiretta dei debiti pubblici nazionali, anche se in parte detenuti da investitori nazionali.

Sulla base di queste considerazioni, si può facilmente comprendere come il default controllato greco sia stato in realtà un grande affare. La riduzione di 30 punti del rapporto debito/pil greco solo apparentemente è stata a carico dalle banche francesi e tedesche; in realtà viene oggi pagato dallo stesso popolo greco, che  si trova ad affrontare l’ennesimo taglio delle spese sociali e dei salari. Il default controllato della Grecia ci insegna due cose: che un debito pubblico può essere ristrutturato se è organizzato dall’alto. E che ora si deve aprire la battaglia perché il default possa essere agito dal basso. Al riguardo, lo strumento dell’audit diventa imprescindibile come strumento di agitazione del conflitto.

Se si vuole colpire la speculazione, occorre prosciugare l’acqua nella quale nuota: si tratta, di fatto, di introdurre delle restrizioni alla circolazione nel mercato dei capitali e creare una nuova agenzia europea che abbia come funzione la detenzione dei titoli “congelati” con la funzione di compensazione (market clearing)  tra i diversi debiti pubblici unitamente ad una ferrea politica di controllo e stabilità dei tassi d’interessi per limitare l’espansione dei derivati IRS.

 

 

 

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