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L’accademia e la riforma. Riflessioni per l’inchiesta politica nelle università meridionali

 

di FRANCESCO PEZZULLI

I. Ci sono delle pubblicità che colgono il segno dei tempi: “Sapiens fabbrica di sapere … non tutti gli studenti sono Sapiens” recitavano gli slogan del principale ateneo romano prima delle immatricolazioni del 2002, sintetizzando in modo eficace il nuovo corso di vita delle accademie italiane. Poco tempo dopo altri pubblicitari, questa volta al soldo degli istituti privati, aggiungevano un terzo ed efficace slogan a suggello dei primi due: “11 esami in 10 mesi”. Un sapiens di inizio millennio, in altri termini, deve essere in grado di accelerare i ritmi secondo le norme dei “nuovi ordinamenti”, probabilmente transitori, venuti fuori dalle recenti riforme universitarie. Queste ultime, concepite sotto il peso delle comparazioni quantitative con il resto dei paesi sviluppati, hanno moltiplicato e semplificato le attività da svolgere da un lato e intensificato i tempi di esecuzione dall’altro. In una parola: hanno industrializzato l’università!

Il confronto tra la situazione di uno studente dei primi anni ’90 con quella di un collega immatricolato ai primi del 2000, evidenzia i principali cambiamenti intervenuti. Per il primo si trattava di frequentare “corsi” e di superare esami con buoni “voti”. Per fare proprio il “pezzo di carta” necessitavano almeno cinque anni di studi durante i quali bisognava superare tra le venti e le trenta prove. I corsi erano annuali, ogni settimana si tenevano tre lezioni della durata di un’ora circa e, per prepararsi all’esame, necessitavano mediamente due-tre mesi di studio quotidiano. In Parallelo ai corsi erano presenti in quasi tutti gli insegnamenti seminari su argomenti significativi, la frequenza dei quali consentiva un discreto livello di approfondimento. A secondo delle facoltà, dopo aver superato i primi anni, era possibile concepire un piano di studio individuale, oppure scegliere tra gli indirizzi consigliati. Al termine degli esami la “tesi”, nonostante si trattasse formalmente di un colloquio, era dai più considerata come un lavoro nel quale si mettevano alla prova – su un tema specifico – le conoscenze acquisite e per il quale era richiesto uno sforzo supplementare di almeno un anno. Gli studenti “erasmus” non erano molti, ma concordavano sulla semplicità delle prove incontrate nelle università straniere, cosi come gli erasmus non italiani erano soliti complimentarsi per l’alto livello della didattica incontrato in Italia.

Uno studente che si è immatricolato agli inizi del 2000, si trova dinanzi una situazione del tutto differente, a partire dal fatto che il suo percorso studiorum è stato diviso in due corsi di laurea distinti: uno breve di tre anni ed uno lungo di cinque. Dopo la prima tappa, adeguatamente certificata, è possibile interrompere il percorso. Per quanto riguarda la frequenza degli studi non ci sono più corsi annuali ma “moduli” semestrali. In ogni semestre sono previste almeno cinque prove d’esame, per le quali possono bastare, mediamente, quindici giorni di studio. I successivi quindici giorni sono dedicati a preparare un’altra prova, un’altra materia, un’altra prova, un’altra materia e cosi via, fino al raggiungimento dei “crediti” previsti. Il piano di studi scelto in autonomia non esiste più ed il lavoro di tesi è stato sostituito da una relazione, definita con disinvoltura “tesina … di 40 pagine”.

Pare proprio che nessuna cosa sia rimasta al suo posto nel decennio in questione, che si tratti delle strutture o dei metodi d’insegnamento, delle attività svolte o dei soggetti investiti dalle riforme. Tra il primo ed il secondo periodo i cambiamenti giuridici ed organizzativi sembrano aver stravolto dalle fondamenta l’accademia italiana: si sono succeduti almeno cinque “vecchi ordinamenti”, i corsi di laurea, le materie d’insegnamento, le attività post laurea si sono annualmente moltiplicate, cosi come sono aumentate le figure precarie e intermittenti soprattutto tra i docenti e i ricercatori: tra il 2001 e il 2005 anche i dati “ufficiali” registrano il superamento degli “strutturati” da parte dei “contrattisti”. A  questi ultimi è delegato molto spesso il compito di mantenere “il ritmo” imposto dall’attuale “riordino” legislativo alle fasce strutturate ed al sistema nel suo complesso. E’ un bacino eterogeneo, fatto di soggetti con competenze generali e specialistiche, inquadrati contrattualmente come assegnisti e contrattisti a tempo variabile a secondo delle prestazioni richieste. E’ difficile smentire il frequente assunto che circola nei Dipartimenti italiani secondo cui senza queste figure l’attuale assetto andrebbe in poco tempo al collasso.

La nostra inchiesta politica dovrà coinvolgere in primis le figure che più di ogni altre vivono la crisi universitaria sulla loro pelle: gli studenti, influenzati ben prima di immatricolarsi sul percorso da seguire (lauree forti/deboli) e costretti in intensivi moduli di studio tramite i quali acquisire crediti, con la promessa futura, per i più meritevoli (ossia per chi si è conformato prima e meglio al nuovo stato di cose accademico) di diventare forza lavoro facilmente occupabile. I docenti e i ricercatori precari, ai quali le riforme hanno imposto un regime di produttività/competitività estremamente forte e che vengono giudicati (valutati), spesso non per la qualità delle “merci” da essi prodotte, ma tramite tecniche quantitative ambigue e fallaci nella loro stessa costruzione logico – metodologica.

II. La storia recente dell’attuale crisi universitaria (crisi di lunga data, che si protrae da almeno un trentennio) comincia con la riforma 3+2 di Berlinguer e Zecchino. Tredici anni dopo possiamo dire che la modernizzazione universitaria è in gran parte compiuta. Il decreto ministeriale 509 del 1999, nei fatti, si è rivelato un formidabile apripista per le ministre berlusconiane che nel trascorso decennio (complice anche la breve ed inefficace parentesi di Mussi al vertice di Viale Trastevere) hanno saputo finemente piegare, in termini strettamente aziendalisti, quello che nei proclami del centro sinistra doveva rappresentare la modernizzazione europea dell’università italiana. Fa ridere il ricordo di quei giorni lontani, nei quali l’ex rettore dell’università di Siena chiamava “talebani” gli studenti che lo contestavano apertamente, che gli dicevano a chiare lettere che la sua riforma avrebbe ridotto l’università ad un esamificio, che l’avrebbe di li a poco aziendalizzata. Ma, si sa, i talebani non hanno mai ragione e, come si affrettava a dichiarare su Repubblica il nostro magnifico: «si tratta di un piccolo gruppo di studenti che ha ideologizzato il problema della riforma universitaria (…) ma la riforma è fatta per loro, per renderli competitivi in Europa». E competitivi gli studenti sono diventati, bisogna confessarlo, forse anche ideologizzati, sicuramente più ignoranti che in passato. Gli stessi talebani che allora interruppero il famoso “Processo di Bologna” non possono far altro, oggi, che sogghignare amaramente e ribadire a Berlinguer – che ancora come un comico suonato continua a difendere la sua riforma – quanto già detto in quelle lontane giornate di contestazione: De te fabula narratur!

L’ideologia con la quale si è giustificato (e si giustifica tuttora) l’intero processo di modernizzazione aziendalista dell’università è quella della “meritocrazia”, a sua volta incentrata sui criteri di “valutazione” ai quali abbiamo accennato, considerati come necessari per fronteggiare e neutralizzare il livello di nepotismo e corruzione vigenti nell’accademia. In altri termini, ci dice per ultima la nuova aristocrazia al governo, la meritocrazia e la conseguente valutazione sono la risposta adeguata contro il neofeudalesimo cristallizzatosi a più livelli nelle prassi accademiche, a partire dal nepotismo come modalità di distribuzione delle opportunità e di trasferimento dei privilegi sociali. Per ironia della sorte un obiettivo contro il quale ha lottato il movimento studentesco negli anni ’60 e ’70 si trova oggi nelle mani di una destra che ne ridefinisce il significato in termini propriamente economici (crediti, debiti, produttività dei docenti, competizione tra atenei “virtuosi” e …. “viziosi?” e cosi via) ed allo stesso tempo imputa genericamente proprio al ’68 le cause dell’attuale condizione di quotidiana ed evidente degenerazione.

Sia chiaro: è assolutamente vero che l’università è infestata dal nepotismo e, semmai ce ne fosse stato il bisogno, abbiamo anche – a mò di prova numerica – la “misura” del fenomeno. Non è uno scherzo, l’esercizio è stato eseguito da Stefano Allesina, ricercatore emiliano in fuga oggi giovane professore all’Università di Chicago, che ha registrato (attraverso una raffinata analisi statistica applicata alla ricorrenza dei cognomi dei professori universitari italiani) l’elevato tasso di ereditarietà del “titolo” professionale. Siamo davvero ritornati al seicento, come nella celebre citazione di Marx sullo Shakespeare di Molto rumore per nulla, quando il Carruba di Messina istruisce un suo appuntato ricordandogli che «essere un uomo di bell’aspetto è un dono delle circostanze, saper leggere e scrivere è un fatto di natura». Ed allora è naturale che un professore intelligente figli un altro professore intelligente, al quale tramandare il feudo accumulato e difeso con decenni di indefesso lavoro. Quando, per In Fuga dal Sud, conobbi personalmente molti ricercatori emigrati, non erano infrequenti frasi del tipo: «sarebbe interessante sapere quanti dei professori universitari sono sposati con altri professori o sono figli o nipoti di professori». Allesina, col suo lavoro, ha soddisfatto in parte (i matrimoni non sono indagati) l’interesse dei miei interlocutori offrendo la prova numerica – tanto cara a sondaggisti e amministratori – che nell’università italiana si imbroglia, che la selezione del personale avviene sulla base di fedeltà personali a principi e baroni. Questo imbroglio per i non affiliati, per i docenti e i ricercatori che hanno sempre inteso l’insegnamento come un esercizio di libertà, può essere spesso foriero di una condizione umana, intellettuale e professionale insostenibile. Su tale aspetto abbiamo accumulato in questi ultimi anni molto materiale, potremmo stilare numerose biografie e lunghe storie di vita, più e meno note, a conferma di ciò: dal nobel Dulbecco, deluso e umiliato dal suo professore per il quale tutto quello fatto fino a quel momento non aveva alcuna importanza; a Sandra Savaglio, ricercatrice nel Maryland che, per il fatto di aver vinto in Italia un concorso “non truccato”, è finita sotto processo per truffa dato che il potente di turno era interessato a piazzare sua figlia; e cosi via lungamente. Ma quello che ci interessa soprattutto ribadire è che il nepotismo è una modalità riproduttiva di un assetto di potere accademico che non si modifica radicalmente se si concentra la lotta su singoli corrotti; e neppure, ovviamente, innalzando le barriere d’ingresso della casta. Questi, che sono i rimedi che gli ideologi del merito propongono per una nuova università, sono più che altro grida di battaglia populiste, prive di razionalità ed efficacia. Per fare un esempio, si dice che la lotta alle clientele accademiche passa attraverso il “concorso nazionale” per l’ingresso alla professione e, più in generale, si dice che i più meritevoli (sic!) verranno premiati grazie a criteri di valutazione “oggettivi”, controllati da personale al disopra di ogni sospetto. Non ci vuole molto per capire che il concorso nazionale per lo più riordina le clientele accademiche, disegna una nuova gerarchia delle stesse, ma non le scandaglia minimamente, dal momento in cui le reti accademiche di potere sono nate come reti nazionali e sono rimaste tali anche durante il periodo dei “concorsi locali”. Per quanto riguarda invece la valutazione su basi quantitative, la funzione che questa svolge – di supporto alla governance del “sistema” complessivo – è quella del monitoraggio continuo dei soggetti, al fine di prevenire fratture insanabili e integrare (o espellere) studenti e docenti precari più o meno recalcitranti alle nuove modalità di produzione (economica) del sapere e delle soggettività conformi. In altri termini attraverso la valutazione si misura la capacità di obbedire degli studenti e del corpo docente e, di converso, il loro potenziale livello di conflitto.

III. Dal nostro punto di vista, pur deprecando tutte le forme dell’odierno feudalesimo universitario (generatore di sudditanza studentesca, di gerarchizzazione delle fasce “strutturate”, di “produzione” di ricercatori replicanti – per dirla con Raffaele Simone -, eccetera), riteniamo che la lotta contro il nepotismo sia solo un momento della più generale lotta contro la “corruzione”, corruzione non semplicemente giuridica o amministrativa, ma corruzione delle singolarità praticata con la rottura dei meccanismi di trasferimento del sapere critico (unico motore del progredire scientifico e della crescita intellettuale dei singoli) tra le generazioni. Le pratiche nepotiste sono solo una delle modalità con cui tale rottura avviene. In questi termini l’università italiana, nella sua versione di università aziendale del merito, svolge oggi un ruolo propriamente politico: come produttrice di saperi e soggettività conformi al nuovo ordine della globalizzazione capitalista, ossia come corruttrice delle singolarità e neutralizzazione del sapere comune al quale le singolarità potrebbero attingere.

Come lottare, dunque, contro la corruzione nell’università del merito? Come abbattere il muro di individualismo e competizione diffuso dall’università – azienda?

Per fortuna il silenzio non è assordante in merito e, di recente, il dibattito si è arricchito di preziosi riferimenti.

Per quanto riguarda l’inchiesta politica, in linea con le pratiche del movimento studentesco, è fondamentale muoversi su un doppio binario: da un lato, la demistificazione dell’ideologia del merito e della valutazione; dall’altro lato, soprattutto, la moltiplicazione nelle università delle esperienze di autoformazione e la diffusione di pratiche d’inchiesta, tramite le quali la questione universitaria torni ad essere una questione del “comune”.

In tal senso è significativo il suggerimento di Franco Piperno di “ritornare alle origini”, che ovviamente non significa tornare indietro, in quanto riesce ad inquadrare la radicalità dell’attuale crisi: «All’origine, l’università è una comunità, di docenti e discenti, che esercita la difficile arte dell’autoformazione, l’emersione dell’individuo sociale, dalla coscienza enorme. La ragione sociale di questa impresa è conservare il sapere come “bene comune”; e questo si realizza attraverso l’attualizzazione consapevole del principio di individuazione; il che vuol dire, in breve, cercare di riconoscere e liberare la vocazione, il demone che dorme latente in ogni essere umano».  Di questo dunque si tratta, non di una grande scuola professionale che provvede alla formazione di mano d’opera qualificata. L’obiettivo dell’università consiste nel condurre i suoi membri a riconoscere la propria vocazione, di riuscire a contenere e dare spazio alle passioni conoscitive e al sapere critico dei singoli. Come istituzione sociale dovrebbe fondarsi «sulla cooperazione comunitaria tra studenti e docenti che agisce la conoscenza come il più comune dei beni». Da quest’angolazione le esperienze di autoformazione e d’inchiesta portate avanti da gruppi di studenti, singolarità e movimenti dentro l’università in questi ultimi anni sono estremamente importanti, perché si fondano su quei principi originari di cooperazione e messa in comune dei saperi che favoriscono processi di soggettivazione alternativi a quelli dell’università azienda e che, di fatto, incrementano le fughe dal ricatto del sapere adeguato al mercato del lavoro. Mirano cioè a liberare le passioni e le vocazioni delle singolarità. Fare autoformazione e inchiesta vuol dire riappropriarsi del sapere critico e ricostruire dall’interno la ragione sociale dell’università. Vuol dire altresì riconsegnarle il significato nobile proprio di un’istituzione del comune. Vuol dire lottare, ed allargare gli orizzonti di lotta, dentro e contro la corruzione dell’università del merito.

 

 

 

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