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L’addio del camaleonte

Posted By Gigi On March 15, 2013 @ 4:19 pm In Articoli,Italiano | Comments Disabled

di CLAUDIO MARDONES

A seguire la traduzione di un articolo, pubblicato nel n. 13 della “Revista Crisis” e uscito una settimana prima del conclave, in cui si traccia un profilo dell’attuale papa Francesco I. Il titolo appare oggi alquanto ironico…

Lo si accusa di complicità con la dittatura e lo si ringrazia per la protezione alle vittime della schiavitù contemporanea. Papabile per la seconda volta, arriva alla sua fine con un potere terreno invidiabile. Profilo di un equilibrista che ha plasmato il suo capitale politico combinando l’astuzia e il lavoro di base.

Nel suo entourage si dice che sarà l’ultima estate australe di lavoro attivo, la prossima lo vedrà in pensione. Prima che ciò succeda, continuerà ad aprire la cancellata del 415 dell’Avenida Rivadavia alle 5.30 del mattino. Poi passerà di fronte alla Casa Rosada per comprare i giornali che leggerà, tra un mate e l’altro, prima che la Cattedrale Metropolitana e l’Arcivescovato di Buenos Aires diano inizio alla giornata. Se deve uscire, non userà l’auto ufficiale né la sottana da protocollo con la cintura larga di seta purpurea. Si perderà tra le scale della metropolitana o tra i passeggeri degli autobus che portano alle parrocchie dei suoi amici in Almagro, Flores o Barracas. Porterà la sacca se dovrà spostarsi per lavoro, se è per puro gusto andrà con camicia, pantaloni a qualche libro tra le mani. Tutto l’occorrente perché nessuno si accorga che si tratta dello stesso tipo che è stato a un passo dall’essere Papa nel 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II. Non lo è diventato, ma è stato molto prossimo a occupare il posto del tedesco Joseph Ratzinger. Dicono che lo stesso Benedetto XVI abbia pensato di designarlo segretario dello Stato del Vaticano non appena vinto l’ultimo conclave nella Cappella Sistina. Otto anni dopo, ormai abituato all’anonimato del suo volto, Ratzinger e la crisi della Chiesa Cattolica gli danno una nuova opportunità. Dopo sei anni di Episcopato politico, in cui si è trasformato in uno degli avversari intermittenti del governo nazionale, dispone ora della sufficiente esposizione pubblica e del vigore di un politico che dimostra come il suo potere trascenda la congiuntura. Jorge Mario Bergoglio, primo cardinale dell’Argentina e vescovo di Buenos Aires ha 76 anni. Come se sfogliasse una margherita, attende il momento in cui il nuovo Papa – puntiamo sulla sua sconfitta nel conclave 2013 – accetti la rinuncia che ha presentato il 17 dicembre 2011, giorno in cui ha compiuto 75 anni e, come ordina il diritto canonico, ha iniziato la procedura per il pensionamento. Il boomerang non ha ancora fatto ritorno dagli uffici romani. Nel frattempo, il cardinale approfitta dell’estate per visitare amici e incontrare l’ampia truppa che lascerà ai suoi successori.

Il 28 febbraio 1998, uno strano giorno bisestile, un infarto al cuore dell’ultraconservatore Antonio Quarracino apre il cammino a questo sacerdote gesuita che aveva preso gli ordini nel 1969. Agli anni Settanta, Bergoglio ci è arrivato come un giovane di 32 anni influenzato dai sacerdoti terzomondisti. Sul finire del decennio era diventato un moderato, con influenze provenienti dalle sue simpatie per il peronismo e per un nazionalismo cattolico che lo hanno portato fin dentro alla Guardia de Hierro, un’organizzazione nata dalla resistenza peronista e finita nel settore più reazionario e cattolico della gioventù peronista.

Nel 1997, Quarracino è in procinto di terminare un decennio di benedizione al menemismo e più di uno combattendo l’omosessualità. Prima dell’inverno di quell’anno, dopo una serie di avvertimenti medici, il cardinale porteño si reca a Roma dove menziona Bergoglio tra una schiera di possibili successori. Per Giovanni Paolo II il gesuita argentino non era uno sconosciuto e nel giugno del 1997 lo designa vescovo coadiutore, l’anticamera amministrativa per succedere a Quarracino. Oggi gli uffici che hanno visto invecchiare il suo predecessore, vedono trasformarsi anche lui in un uomo di terza età, anche se dal momento in cui vi è arrivato, Jorge Mario – come lo chiamano i suoi amici – li ha istituiti nell’epicentro politico di una rete parallela di potere che si è estesa per tutta la capitale con la fine del menemismo.

Tre anni dopo l’acquisizione dell’arcivescovato porteño, il 2001 lo investe in un duplice senso. Il 21 febbraio il Papa lo rende cardinale, aprendogli le porte per la qualifica come successore. Di ritorno da Roma a Buenos Aires, con il titolo in mano, gli mancano dieci mesi per vedere la repressione in Plaza de Mayo dalla finestra del suo appartamento. La crisi del dicembre 2001 riempie di paura lui come tutta la Chiesa, ma anche di potere nei confronti di fette di vicinato timoroso. In poche settimane deve benedire cinque presidenti. Però riserva il te deum solo a Eduardo Duhalde, il caudillo lomense, vicino al suo amico Agustín Radrizzani, all’epoca vescovo di Lomas de Zamora. “Radri” era stato il successore di Jaime de Nevares a Neuquén, dove aveva conosciuto il kirchnerismo santacruceño nella sua tappa iniziale. Quei legami gli permetteranno di diventare la principale figura religiosa alla tavola del Dialogo Argentino, un’invenzione del duhaldismo per fronteggiare i conflitti. Le sottane vi apportano tutto l’appoggio possibile e dietro di loro vi è sempre il gesuita, con un’influenza che non smette di crescere fino al 2003.

Quando il 2001 gli esplode in faccia, gli uffici di Bergoglio sono ormai un centro statistico nutrito di informazioni. Ciascuna parrocchia non chiede solo aiuto, ma apporta anche un panorama dettagliato. Con quella mappa sviluppata con precisione dalla Caritas argentina – un vero ministero sociale all’interno della curia – la lettura di questo peronista conservatore acquisisce efficacia e diventa la base di un tessuto politico che trova nei sacerdoti terzomondisti i suoi principali alleati. Non appena giunto all’arcivescovato, crea la Vicaría episcopal per le Villas de Emergencia. Un ente, unico nella Chiesa Cattolica, che riunisce tutti i preti delle villas[1] della città, riuniti da tre decenni, e risponde direttamente al suo ufficio. È da quel luogo che, per esempio, Bergoglio cerca di proteggere il padre José María di Paola, parroco della villa 21 di Barracas. Sulla porta della sua parrocchia della Virgen de Caacupé, il padre Pepe aveva ricevuto in regalo un proiettile, consegnatogli da un abitante del quartiere. La consegna proveniva dai narcos della villa che non gli perdonavano le denunce contro il consumo di pasta base e il recupero di parte dei loro clienti. L’avvertimento non era il primo, ma a Bergoglio sembra l’ultimo accettabile. I suoi collaboratori raccontano che gli ha cercato protezione in Europa, chiedendola negli stessi luoghi dove aveva studiato, come in Germania. Ma dato che nessuna diocesi ha accettato di proteggerlo, gli trova finalmente rifugio a Añatuya, Santiago del Estero. All’interno dell’arcivescovato non ci sono dubbi sulla permanente preoccupazione del cardinale per la sicurezza dei sacerdoti terzomondisti. I suoi detrattori sostengono, al contrario, che tale passione sia parte di un doppio gioco. La ricerca di rettificazione degli errori del passato o un marchio personale della forma di fare politica del primo cardinale.

Dal 2005 il giornalista Horacio Verbitsky è uno dei principali problemi d Bergoglio con quel lontano passato. Secondo il libro El Silencio, il cardinale consegnò i sacerdoti terzomondisti Francisco Jalics e Orlando Yorio. Entrambi sono stati sequestrati da un Grupo de Tareas de la Armada il 26 maggio 1976 e portati alla ESMA dove sono stati interrogati, torturati e hanno trascorso sei mesi di prigionia. Dopo la rivelazione, pubblicata prima del conclave papale, “Bergo” rompe il silenzio per mezzo di un lungo reportage autobiografico con i giornalisti Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti. A sua discolpa, il cardinale ricorda che entrambi i gesuiti stavano organizzando un’altra congregazione. “ Vivevano nel cosiddetto quartiere Rivadavia del Bajo Flores. Non ho mai creduto che fossero implicati in ‘attività sovversive’ come sostennero i loro persecutori, e realmente non lo erano. Però, data la loro relazione con alcuni preti delle villas de emergencia, erano troppo esposti alla paranoia della caccia delle streghe. Dato che rimasero nel quartiere, Yorio e Jalics furono sequestrati durante un rastrellamento. […] Fortunatamente, tempo dopo furono liberati, in primo luogo perché non poterono accusarli di niente e, in secondo luogo, perché ci siamo mossi come pazzi. La stessa notte in cui scoprii del sequestro, ho cominciato a muovermi. Quando dissi che sono stato due volte con Videla e due con Massera fu per il loro sequestro”, si difende il cardinale che in quel momento era la principale autorità della provincia gesuita di Argentina e Uruguay, un incarico molto influente, ieri come oggi.

L’autodifesa pubblica del porporato sostiene che non abbia mai voluto cacciare né privare di protezione i suoi confratelli della congregazione, però ci sono una decina di testimoni che indicano che il gesuita aveva detto alle forze armate che li avrebbe allontanati dalla congregazione, l’assenza di protezione sufficiente per il calvario che avrebbero vissuto successivamente.

Entrambi i sacerdoti sono sopravvissuti per raccontarlo e il caso costringe Bergoglio a dichiarare davanti alla Giustizia Federale e a rispondere a un lungo interrogatorio dove appare con evidenza la relazione quotidiana tra la curia e le forze armate. Una cosa che rende improbabile la mancata conoscenza ecclesiastica del rapimento dei figli dei detenuti desaparecidos. Al di là delle smentite di “Jorge Mario” non si è ancora potuto chiarire il ruolo che il cardinale ha avuto nello sbarco della Guardia de Hierro nell’Universidad del Salvador, alle dipendenze dell’ordine gesuitico, la stessa accademia che conferì il titolo honoris causa a Massera. “Credo che non fu un dottorato, ma un professorato. – chiarisce Bergoglio ai suoi biografi – Io non lo ho promosso. Ricevetti l’invito per la cerimonia ma non sono andato. E quando ho scoperto che un gruppo aveva politicizzato l’università sono stato alla riunione della Associazione Civile e gli ho chiesto di andarsene, nonostante l’Università non apparteneva più alla Compagnia di Gesù e non avevo nessuna autorità che non fosse quella di un sacerdote. Dico questo perché mi si è anche attribuito un legame con quel gruppo politico. A ogni modo, sì, rispondo a ogni imputazione, entro nel gioco”.

Le spiegazioni, per i portavoce ecclesiastici, sono già state fornite e non ci sarebbe niente da occultare. Eppure non c’è niente che possa cancellare il sospetto che rimane in un documento confidenziale della Cancelleria. Lì Bergo chiede, in segreto, di non concedere i passaporti a Jalics e Yorio. Nello stesso momento in cui sta depositando una nota ufficiale in cui sollecita la loro consegna.

Nonostante lo scherno, l’entourage del cardinale giustifica questi movimenti camaleontici. Si dice che siano parte della combinazione di suppliche cristiane e silenzi complici che ha avuto la maggioranza delle autorità della Chiesa con la dittatura. L’essere sopravvissuto alla sua ombra pare che abbia rafforzato la sua cerchia politica. Attributo che gli ha permesso di ricoprire per sei anni la guida politica della Conferenza Episcopale Argentina, eletto dalla maggioranza dei suoi 120 pari. La combinazione dell’arcivescovato con il comando della truppa che offre la presidenza della CEA gli ha dato più potere.

L’opzione per gli schiavi

“Al principio del 2008 abbiamo avuto un’udienza dove abbiamo detto al cardinale: guardi, ne La Alameda[2] c’è gente religiosa e gente che non lo è. Stiamo lottando contro la tratta di persone, ci stiamo infilando in luoghi molto pesanti e abbiamo subìto già vari attentati (16 fino a quel momento). Lei sta trattando nelle sue omelie alcune cose che coincidono con i nostri propositi. E abbiamo chiaramente necessità di un sostegno perché altrimenti finiamo a galleggiare in un fiume. Così, semplicemente”, ricorda il maestro elementare Gustavo Vera, presidente della fondazione La Alameda.

L’intervento a favore dei preti terzomondisti non è l’unico del gesuita nelle villas porteñas. Da lì, confessano al suo costato, appoggia le denunce contro la complicità della polizia con il consumo di paco e il narcotraffico. Ma anche contro le reti del traffico di persone e riduzione in schiavitù nella città, in campagna e nelle industrie tessili con le organizzazioni alleate che sono nate nel dicembre del 2001. Una cominciò come Asamblea Popular de Parque Avellaneda, creata al principio dei cacerolazos di quartiere del 20 dicembre. L’altra è nata poco dopo. È il Movimiento de Trabajadores Excluidos, un’organizzazione che ha riunito i primi lavoratori cartoneros dopo il 2001. È guidata da Juan Grabois, figlio di Roberto, uno dei principali dirigenti del Frente Estudiantil Nacional (FEN) che si fuse con la Guardia de Hierro nel 1972. Il MTE è una delle principali cooperative della città formalizzata nella gestione di Mauricio Macri, dopo una lunga serie di reclami, ma anche grazie al peso della buona relazione che il cardinale aveva con il capo del governo della città, che nel 2012 ha destinato 1660 milioni di pesos in sussidi ai collegi cattolici.

Un appello, una nota formale, una dura omelia, una benedizione, una partita a scacchi in nome della Cattedrale Metropolitana. Così si muove in superficie l’influenza ecclesiastica, mentre nel fondo piega volontà e muove denari. A volte fornisce anche protezione. Come nel caso dei vecchi membri dell’Assemblea guidata da Vera che ha cominciato a riunire i lavoratori tessili riscattati dai laboratori clandestini che funzionavano nel sud porteño. Lo sfruttamento estremo dell’industria del vestiario è uno dei fianchi più fragili del capitalismo argentino, ma la sua denuncia non è partita dalle mani dei movimenti sociali nati nel 2001 o dei sindacati ma dall’iniziativa, per lo meno negli ultimi anni, de La Alameda. Hanno denunciato anche lo sfruttamento nelle campagne, finché il cardinale non si è avvicinato a Gerónimo Venegas, leader della Unión Argentina de Trabajadores Rurales y Estibadores (UATRE), uno dei sindacati che dovrebbe combattere la schiavitù rurale.

L’arrivo del Momo al circolo del cardinale si aggiunge alla relazione con il leader della CGT Hugo Moyano e il governatore di Córdoba José Manuel de la Sota. Tutti beneficiati dell’appoggio porpora nel reclamare la apertura della causa che indaga l’assassinio di José Rucci nel 1973. L’elenco include anche il sindaco porteño e la deputata nazionale Gabriela Michetti, finché Mauricio Macri non ha deciso di autorizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso nella Città di Buenos Aires e Bergoglio è stato tradito: esautorato davanti al Vaticano e ai suoi oppositori interni, come l’ultraconservatore Héctor Aguer, arcivescovo di La Plata, che ha inviato emissari per richiedere a “Bergo” di scomunicare Macri e tutti i ministri intervenuti. La richiesta si è ripetuta quando la Città ha regolamentato l’aborto non punibile, ma questa volta l’allarme non è arrivato così lontano perché la cupola ecclesiastica sa che Cristina Fernández de Kirchner non è d’accordo con la legalizzazione dell’aborto.

“Dal mio punto di vista, ha salvato molte vite. Impiegò il peso istituzionale della sua figura per star dietro a dei denuncianti che si sono complicati la vita contro la tratta. La schiavitù è un sottoprodotto della forma di accumulazione mafiosa del capitale. Se mi domandi se è la stessa cosa che pensa Bergoglio, sì. Lo ha detto alla quarta messa contro la tratta e il traffico del 2012: ‘Oggi gli schiavisti mangiano a Puerto Madero’”, dice Vera, che riconosce anche come Bergoglio abbia riunito nella sua rete anche i parroci villeros e le Oblatas e Adoratrices, i due ordini di monache che lottano contro la tratta e la schiavitù e procurano dati e donne riscattate a La Alameda, la stessa organizzazione che ha denunciato il membro della Corte Suprema Raúl Zaffaroni per aver affittato appartamenti di sua proprietà come presunti bordelli. Raccontano nella Cattedrale che dopo lo scandalo il cardinale abbia chiamato il ministro per giurargli che non ha avuto niente a che vedere con le denunce. Parola di Dio.


[1] Il termine utilizzato in Argentina per definire le favelas.

[2] Nata sulla scorta delle mobilitazioni del dicembre 2001, La Alameda (Asamblea “20 de Diciembre” de Parque Avellaneda), conta oggi su un’ampia organizzazione che include un centro comunitario, una cooperativa finalizzata alla costruzione di una rete di economia solidale, l’Unión de Trabajadores Costureros che lotta contro lo sfruttamento nell’industria del vestiario e la Fondazione che raccoglie le denunce sulla tratta, il lavoro schiavo e infantile.

* Traduzione di Maura Brighenti. Pubblicato su  http://www.revistacrisis.com.ar/la-despedida-del-camaleon.html

 


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