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L’America Latina nel mondo postcoloniale. Un’intervista a Miguel Mellino

 

di VERONICA GAGO

Sembra difficile parlare di postcolonismo in America latina, perché?

Credo che dipenda molto da che cosa intendiamo per postcolonialismo. Se intendiamo il “post” in un senso letterale, chiaramente non possiamo parlare di postcolonialismo. Ma dal mio punto di vista, il prefisso “post” racchiude in sé tre prefissi insieme: post, neo e anti. Quando parliamo di postcolonialismo stiamo dicendo le tre cose simultaneamente, poiché enfatizzare la condizione postcoloniale nel mondo contemporaneo significa proprio sottolineare il fatto che il colonialismo è presente, come qualcosa che non ha smesso di imprimere la sua traccia.

Ma parlare di postcolonialismo implica una messa in discussione dell’idea di neocolonialismo, non è così?

Sì, perché la nozione di neocolonialismo è carica di passività per quanto riguarda i soggetti di cui parla. La parola neocolonialismo inizia a circolare all’interno del terzomondismo tra gli anni ’50 e ’60, dopo la pubblicazione del libro di Kwame N’Krumah, dal titolo Neocolonialismo, l’ultimo stadio dell’imperialismo. N’krumah sosteneva che dopo la liberazione del Ghana e le lotte per l’indipendenza, diversi paese africani avevano ottenuto l’indipendenza formale ma il potere continuava comunque ad essere nelle mani delle multinazionali americane. Aldilà del valore di questo libro e dell’importanza che ebbe al suo tempo, il concetto di neocolonialismo è finito per diventare un termine utile a indicare unicamente che le lotte anticoloniali non erano riuscite a cambiare nulla. Proprio per questo motivo mi sembra che quando viene usato questo concetto si finisce per abbracciare una concezione passiva del soggetto anticoloniale, del soggetto subalterno.

A che cosa si riferisce dunque il postcoloniale?

Sottolinea una sorte di transizione, di spazio aperto, tra un passato che fa fatica ad andarsene e un futuro che non arriva. E questo proprio perché vi è una resistenza dei soggetti subalterni ai poteri coloniali, neocoloniali. Inoltre, la parola postcoloniale – mi sembra – ha un senso più metaforico che letterale: non denota uno stadio storico-cronologico preciso. Nemmeno avrebbe senso che lo facesse, perché, ci potremmo chiedere, in che momento inizia il postcoloniale: con l’indipendenza di Haiti, degli Stati Uniti o con quella dell’Algeria? E ancora, quando è che finisce? Con l’indipendenza di Mozambico negli anni ’70? Se viene usato in questa accezione esclusivamente storica, resterebbe così vago e astratto che non servirebbe a niente in termini politico-epistemologici.

Quale sarebbe allora il senso più metaforico del postcoloniale?

Bisogna chiarire che parlo qui di metafora in quanto discorso con effetti materiali. Il postcoloniale, come metafora, significa dunque che non possiamo pensare il presente senza pensare il passato coloniale, perché il colonialismo continua a essere tra di noi. Questo comunque non vuol dire che si presenta con le stesse caratteristiche di cinquanta, cento o duecento anni fa’. Si ricrea costantemente, perché le logiche postcoloniali di dominio sono sempre diverse, anche se queste hanno le loro radici nel vecchio colonialismo. A sua volta, il postcolonialismo ha le sue radici nelle lotte anticoloniali, nel radicalismo afroamericano e nei movimenti di liberazione nazionale dei paesi del Terzo mondo.

Se pensiamo ancora all’America latina, quale sarebbe il ruolo dello Stato in questa realtà postcoloniale?

Dobbiamo discutere per prima cosa se l’idea egemonica di Stato-nazione è libera o meno da una concezione coloniale. Mi sembra che occorra ripensare tutti i fenomeni che sono in rapporto con lo Stato-nazione e con l’identità stessa delle nazioni da un punto di vista postcoloniale, intendendo questa operazione come una decolonizzazione delle categorie stesse.

Quali pratiche concrete possiamo definire come pratiche decolonizzatrici?

Sono sicuro che vi sono molte lotte che possono essere intese come postcoloniali o anticoloniali: lo zapatismo in Messico, i migranti in Europa, i chicanos negli Stati uniti, le insurrezioni nelle banlieue francesi. Tutte queste lotte hanno qualcosa in comune: resistono a una colonizzazione che viene direttamente dallo Stato.

Perché lo Stato-nazione è un punto centrale nel dibattito dei Subaltern Studies?

La scuola dei Subaltern Studies in India nasce con l’obiettivo di ripensare il ruolo dello Stato-nazione in riferimento al progetto di indipendenza e di emancipazione della popolazione. I Subaltern Studies sono nati tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, quando il progetto del Partito del Congresso Nazionale Indiano (CNI) non poteva più mantenere la promessa di emancipazione per tutti. Questi studi dunque hanno cercato di spiegare il rapporto stretto che vi era tra il progetto del colonialismo britannico e quello del nazionalismo indiano; vale a dire, in che modo l’influenza culturale e la politica colonizzatrice britanniche erano passate nelle mani dei nazionalisti, cambiando certamente il soggetto dell’emancipazione: dall’Impero Britannico allo Stato nazione indiano. Dipesh Chakrabarty, per esempio, ha esposto una critica molto interessante che potrebbe essere di grande utilità per ripensare le stesse questioni nell’America del sud. Chakrabarty critica il tipo di colonialismo pedagogico e politico di questo progetto che, in quanto educazione alla cittadinanza, implica un’eredità coloniale decisiva, la quale si manifestava nel fatto che una parte della popolazione indiana continuava a essere dipendente dallo Stato centrale.

E’ da qui che deriva quell’alternativa di pensare il soggetto o come popolo o come soggetto subalterno?

Certo. Il soggetto popolo si presenta come colonizzatore del soggetto subalterno. In proposito, mi sembra interessante l’uso che Ranajit Guha, uno degli animatori dei Subaltern Studies Indiani, fa della categoria di subalterno di Gramsci, poiché dal mio punto di vista si tratta di un uso non gramsciano.

In che senso?

Nel senso che Guha usa il concetto di subalterno al di fuori di qualsiasi metanarrazione socialista, in cui l’idea di subalterno tende sempre a espropriare la soggettività dei movimenti locali di resistenza. L’obiettivo che si pone Guha è capire i soggetti subalterni senza inscriverli all’interno di una  metanarrazione di emancipazione politica che in realtà essi non hanno. Guha evita questo tipo di logica estrinseca e, per questo, il suo subalterno non ha nulla a che vedere con il subalterno gramsciano, il quale finiva all’interno della visione del partito e, in questo caso, veniva a costituirsi come una categoria di transizione in senso classico.

Credi che la categoria di subalterno possa essere utile per pensare i movimenti sociali dell’ultima decade?

In senso gramsciano mi sembra molto difficile, perché Gramsci si inscrive sempre in una visione umanista e, per il mio gusto, troppo storicista, vale a dire, troppo dipendente da una filosofia della storia. I Subaltern Studies usano la stessa categoria in un senso quasi opposto: contestando lo storicismo e l’idea secondo cui vi è un qualche tipo di soggetto storico, anche aldilà dalla storia.

Esiste una differenza tra la nozione di soggetto subalterno e quella di moltitudine?

Ancora una volta: se parliamo di subalternità in senso gramsciano, certamente sì. Ma se prendiamo l’idea di subalternità che secondo me ci trasmettono i Subaltern Studies, credo vi siano molte analogie con l’idea di moltitudine; poiché quanto cerca di conservare la nozione di subalterno in questa prospettiva è proprio l’eterogeneità costitutiva del soggetto antagonista, riaffermando quella eterogeneità al punto di non lasciar prevalere nessun soggetto su di un altro. Quando Toni Negri parla di moltitudine credo lo faccia in un senso molto simile a quest’ultimo.

Vi è una polemica intorno alla famosa affermazione di Gayatri Spivak secondo cui il vero subalterno, anziché parlare attraverso i proprio mezzi, è sempre “parlato” dagli altri. Che ne pensi?

Penso che quello che Gayatri Spivak ha voluto dire formulando la sua domanda – Può il subalterno parlare? – e fornendo allo stesso tempo una risposta negativa non sia semplicemente, come spesso viene interpretato, che il subalterno non può parlare, ma proprio il contrario, che il subalterno parla ma che le categorie e i dispositivi egemonici dei saperi moderni non hanno avuto la capacità di ascoltare ciò che egli diceva. Mi sembra che ciò che lei dice è che se si va a guardare negli archivi coloniali, che sono il suo vero oggetto di riflessione, non si troverà mai traccia del subalterno perché la sua parola è stata sempre interpretata attraverso le categorie dei saperi dominanti, introducendo così una distorsione. Un esempio molto chiaro di questo ragionamento di Spivak ci viene dalle analisi di Guha sulla resistenza dei contadini indiani al colonialismo a metà del XIX secolo, un fatto che gli storici britannici hanno interpretato attraverso categorie religiose, vedendo in quelle rivolte un mero fanatismo religioso. E’ questa definizione delle rivolte ciò che è rimasto negli archivi. Ma attraverso questa procedura si è eliminato l’elemento di resistenza al progetto civilizzatore dell’imperialismo britannico che tali rivolte esprimevano. Da una prospettiva postcoloniale, invece, queste rivolte vengono interpretate come resistenza politica e non come questioni religiose. E  nemmeno come fenomeno pre-politico, come sono state considerate da una parte del marxismo indiano. Per questo motivo credo che la domanda provocatoria di Spivak meriti di essere approfondita senza semplificazioni, poiché richiama a una discussione del marxismo rimasto intrappolato in un sorprendente eurocentrismo. Sono convinto che ancora oggi esista un marxismo che ha bisogno di essere decolonizzato.

Esiste un nuovo interesse per Fanon?

Certamente. Per quanto mi riguarda, sono interessato a Fanon perché i suoi lavori possono contribuire a pensare a un marxismo davvero postcoloniale, decolonizzato. Ma Fanon non è l’unico; possiamo elencare altri autori, per esempio Mariategui, CRL James, W.E.B. Du Bois, il Cesaire del discorso sul colonialismo. Mi sembra che il postcolonialismo abbia posto un serio interrogativo al marxismo, e soprattutto al suo background eurocentrico. Mi riferisco, per esempio, a un’interpretazione come quella di Eric Hobsbawm, che nel suo lavoro ha analizzato il banditismo sociale partendo dalla nozione di pre-politica, e avendo ovviamente come modello del politico ciò che questa categoria ha significato per la tradizione europea. In sintesi, non può esistere un sistema dottrinario, codificato, capace di interpretare tutte le situazioni in ogni momento storico.

Quale sarebbe la differenza tra il postcolonialismo e il terzomondismo?

Il terzomondismo è una delle radici del postcolonialismo. Questo è qualcosa che molti in America  latina non vogliono vedere perché il prodotto postcoloniale offerto dalle università americane appare scisso dalle sue radici storiche o, se non proprio scisso, almeno edulcorato, poiché ci presenta un terzomondismo un po’ esotico. In ogni caso, il postcolonialismo non è lo stesso del terzomondismo perché il mondo, le lotte, le contingenze a cui si riferiva il terzomondismo sono oggi del tutto cambiate. Il postcolonialismo cerca di sviluppare la critica anticoloniale che era alla base del terzomondismo. Il terzomondismo restava ancora improntato alla logica dello Stato-nazione. Oggi i centri di potere e la geografia del capitalismo mondiale sono sicuramente molto più complessi. Per esempio, una delle premesse del terzomondismo classico – mi riferisco alla scuola di Gunder Frank, Samir Amin e prima Baran e Sweezy – era che i paesi sottosviluppati, percorrendo le vie del capitalismo mondiale, non si sarebbero mai sviluppati poiché, al di fuori dei paesi centrali, il capitalismo si articolava con modi di produzione molto diversi. In quel momento Corea e Ghana erano inserite all’interno di uno stesso schema; oggi non è più così. Inoltre, l’eterogeneità dei modi di produzione che i teorici classici della dipendenza vedevano soltanto nella periferia del sistema sono oggi nel suo stesso cuore. Abbiamo di fronte, dunque, qualcosa di molto diverso rispetto al loro [dei teorici classici della dipendenza] mondo.

Abbiamo parlato di una sorte d’invasione delle metropoli da parte di soggetti provenienti dalle loro ex-colonie. Questa sarebbe anche una situazione diversa rispetto a quella di alcuni decenni prima…

Certo. Fanon ci dice che le colonie sono caratterizzate da uno spazio sociale multiforme, in contrapposizione allo spazio omogeneo delle metropoli. L’aspetto multiforme dello spazio della colonia era dovuto al fatto che al suo interno convivevano diversi tempi storici, diverse categorie e gerarchie di cittadini e inoltre diversi modi di produzione. Oggi questa eterogeneità è presente all’interno degli stessi paesi centrali, come prodotto delle migrazioni di massa dalle colonie verso le metropoli dopo la Seconda Guerra Mondiale. La risposta del potere di fronte a quest’irruzione dei margini nel centro è stata quella di stabilire un sistema di tipo neocoloniale all’interno dello stesso territorio metropolitano, ma poiché non segue la stessa logica del sistema coloniale del passato, dal mio punto di vista, dovrebbe essere definita come postcoloniale

Quali sarebbero gli effetti di questa forma coloniale nelle metropoli?

Uno dei principali effetti è il moltiplicarsi degli status di cittadinanza. Vi è anche una disgregazione della sovranità e, riprendendo quanto afferma l’antropologa di Hong Kong Aihwa Ong, in un bellissimo lavoro etnografico sulle migrazioni e i centri di produzione in Asia, vi è anche la coesistenza di diverse sovranità graduali, sancite direttamente dalla legge. Perché oggi è la stessa legge a sancire il fatto che essa non è più uguale per tutti e che quindi vi possono essere statuti giuridici diversi a seconda dei soggetti.

Vista la carica politica che attraversa il campo degli studi postcoloniali, perché esso soffre in modo così determinante la mediazione dell’accademia americana?

Le accademie americane sono società di mercato, rette da criteri capitalistici, di plusvalore. Le università statali non sono così apertamente società di mercato ma sono governate dalla logica di mercato della società di cui sono parte. Oggi esiste una specie di valorizzazione e mercificazione della differenza; e questo è uno degli effetti della strategia di addomesticamento della stessa istanza della differenza. Come a dire che dopo il ’68, di fronte all’irruzione della differenza, dei supplementi – come direbbe Derrida – contro il Soggetto con la S maiuscola – come direbbe Althusser -, vi è stata una strategia di neutralizzazione della differenza attraverso la sua mercificazione, la sua estetizzazione e la sua scissione dalla propria storia.

* Intervista di Veronica Gago per “Página/12”, Lunedì 18 Ottobre 2010

Traduzione di Gabriela Garcia

 

 

 

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