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Appunti per la conricerca. Per un’inchiesta sul lavoro agricolo in Sicilia

 

di MELINA TOMASI e GIORGIO MARTINICO

Fare conricerca, oggi come ieri, inchiestare il mondo che ci sta intorno equivale ad una scommessa politica, la cui posta in palio è rappresentata dalla possibilità di tracciare traiettorie del possibile, immaginare la direzione attraverso cui certe dinamiche sociali possano, d’improvviso, trasformarsi in “fatto” e “movimento”. Per dirla con parole non nostre: una scommessa sulla possibilità di scovare “luoghi duri” di nuova e antagonista soggettivazione in quanto è nel loro riflesso che ci appaiono debolezze, contraddizioni e punti di rottura del capitalismo avanzato. Sono questi i fini ultimi di un lavoro di inchiesta che, sempre orientato, si pone in netta antitesi con ogni mero esercizio di sociologia “tecnica” (che poi è sociologia del capitale).

Fare conricerca oggi significa confrontarsi con e muoversi entro la generale cornice del capitalismo cognitivo, delle nuove forme dell’accumulazione e del comando capitalista, assumere rendita e finanziarizzazione come dati costitutivi dell’attuale dis-ordine globale.

Nasce da qui la nostra necessità di costruire nuovi ragionamenti e di ricollocare sostanzialmente gerarchie e dispositivi di controllo e comando dentro e sul lavoro muovendo l’analisi proprio da uno degli assi portanti nella cangiante architrave del capitale: parliamo dell’impresa, di forma-impresa, razionalità d’impresa, ruolo dell’impresa; impresa come luogo “mutante” di soggettivazione e, come nostra prima ipotesi, di potenziale -e potente- contro-soggettivazione. Riteniamo il confrontarci su questi temi un’occasione (oltreché un’urgenza) di riflessione e azione politica in quanto, assumendo come dati la necessità del capitale di montare un sempre più articolato controllo a valle della cooperazione produttiva e la diffusione onnicomprensiva della razionalità d’impresa ad ogni ambito dell’esistente (imprenditorializzazione della vita), si aprono le porte alla possibilità di ridefinire i “livelli” del comando sul lavoro e di conseguenza le nuove geografie dell’accumulazione. Geografie, bisogna sottolinearlo già adesso, in cui porosi ed in parte aleatori si sono fatti i confini dentro/fuori, tra i diversi livelli di tempi e luoghi del lavoro e della sua cattura nei processi di estrazione di profitto. Confine dentro/fuori che riguarda non solo la le nuove geografie, ma anche le nuove e costruite percezioni dei bisogni, dei desideri e della reale percezione della valenza del denaro nelle vite.

E’ in quest’ottica che ci è consentito individuare, anche in tempi recenti, vari conflitti sul lavoro sviluppatisi ben oltre le mura dell’impresa, ben aldilà dei classici luoghi della produzione.
Detto ciò val la pena sottolineare una questione di metodo che è anche pilastro della nostra analisi: se nel capitalismo cognitivo avanzato la finanziarizzazione dell’economia rappresenta il luogo di nuovi e violenti processi di accumulazione, essa va comunque sempre considerata in relazione “promiscua”, in rapporto osmotico con l’altra faccia della medaglia: la produzione reale. Sottolineiamo ciò per affermare la volontà di sfuggire ad un duplice, consueto, rischio: pensare ad un capitalismo senza “capitalisti” in cui la forma-impresa non necessiterebbe più della figura dei “catturatori” di valore; oppure immaginare l’impresa reale ormai vittima assoluta della finanza e delle sue regole.

Fatte le dovute premesse di stampo generale possiamo passare alla specificità del piano d’analisi della nostra proposta d’inchiesta: vogliamo parlare del lavoro agricolo in Sicilia, di come funziona e si riproduce ma anche, e soprattutto, delle contraddizioni insite in un mondo la cui possibilità di arrivare a punti di rottura si è recentemente palesata pubblicamente.

Siamo stati abituati ultimamente a naturalizzare i caratteri dell’impresa sullo stampo del variegato e complesso mondo dell’impresa della conoscenza in cui la figura (o soggettività) centrale è quella del Knowledge worker; abbiamo assunto come attorno a questo si sperimentino ed agiscono forme sempre più pervasive di estrazione tanto sul piano della cooperazione dei lavoratori quanto sul piano del bios del singolo. Quello che vogliamo qui azzardare è il salto, attraverso parabole che manifestino linee di continuità, da questa nuova figura a quella più “arcaica” del contadino siciliano.
Questo è possibile in quanto, aldilà delle differenze tra questi soggetti in tema di spazi e tempi di lavoro esistono inequivocabili punti di convergenza, ovviamente con le premesse di cui sopra a proposito di confini non più rappresentabili, neanche simbolicamente, dai recinti degli appezzamenti dei terreni e ovviamente relazionati ad un tipo di produzione in questo caso più che mai “materiale” . Innanzitutto medesimi sono i dispositivi di comando e controllo: il ruolo fondamentale svolto dai media nella legittimazione delle forme di sfruttamento e ricatto ma soprattutto la violentissima capacità subordinante di “minaccia d’espulsione” dal mondo del lavoro, la precarietà (da non sottovalutare i numeri di lavoratori stagionali e giornalieri in questo contesto) , il sistema del debito. Il resto ci è offerto della stessa forma-impresa in qualità di prescrittiva norma di comando su lavoro e cooperazione (e questo è un punto cruciale in risposta a chi ipotizza suggestive sparizioni del comando d’impresa) ma anche dalla natura profonda di un’impresa che è oggi espropriazione incessante di comune di cui nutrirsi continuativamente.

Abbiamo quindi iniziato la nostra inchiesta sul lavoro agricolo in Sicilia con queste coordinate di riferimento (a costituire l’intelaiatura del nostro lavoro) ma a partire dal manifestarsi fenomenologico di nuovi e dirompenti processi di soggettivazione politica nel mondo rurale siciliano. E’ infatti dalla lotta dei cosiddetti “forconi” , dalle cinque consecutive giornate di blocchi e manifestazioni, che si origina la nostra proposta d’inchiesta: irriducibilmente legata a queste lotte soggettive.

Soggettività che si presentano immediatamente – nel gennaio 2012 – invischiate in processi di contro-formazione nel momento in cui si approcciano alla lotta lontane dalle classiche forme di mediazione – a causa dell’irreversibile esplosione di queste – a differenza, per esempio, del caso di Termini Imerese e delle sua dismissione senza colpo ferire; soggettività in nuova-formazione quando si affacciano a piani generalizzanti della lotta e iniziano un lento ma significativo avvicinamento ad altre lotte, pastori sardi in primis, ma anche NoTav successivamente; così come di nuova e irruente forza è l’aver iniziato embrionalmente a mettere a critica il sistema globale di produzione e circolazione delle merci, la grande distribuzione e le logiche del libero mercato (dovremmo qui aprire una parentesi su quanto può essere effettivamente essere definito libero un mercato, ma posticipiamo ad altra sede tale controversa disamina).

Si danno così le celebri giornate in cui, attraverso chiusura forzata degli esercizi commerciali e sabotaggio del consumo, quella lotta si prende il palcoscenico del dibattito politico, economico e sociale non soltanto isolano bensì nazionale. Dirompente nelle pratiche, questo movimento ha saputo catturare l’attenzione con modalità di azione in piazza che sembravano essere riprese dal passato, sembravano civettare i blocchiamo tutto day studenteschi che animano le giornate di lotta da due anni a questa parte, ma hanno avuto il grande pregio di creare un disagio duraturo, non solo di congestione del traffico o di blocco dei trasporti, ma hanno saputo creare il panico da scaffale (impossibile trovare pasta e farina, latte e altri beni di prima necessità), le ore interminabili di coda alle pompe della benzina (con ulteriore innalzamento dei prezzi del carburante), la chiusura dei centri di distribuzione, hanno colpito il capitalismo al cuore, hanno bloccato il consumo. In quelle cinque giornate di sabotaggio le città siciliane (e tutti i centri della penisola che beneficiano di prodotti proveniente dalla Sicilia) hanno temuto di non poter più sopravvivere senza la possibilità di portare avanti, per l’intera giornata, l’attività preferita dagli uomini di buona volontà: la corsa agli acquisti. Eppure non mancava accettazione e solidarietà nel tessuto sociale, soprattutto extraurbano.

Sono queste le pratiche che hanno indotto media, Confindustria, politici, politicanti, pensatori e analisti, a dare avvio ad una corsa irrefrenabile all’etichettamento di quel movimento, criminalizzando pesantemente e lasciandosi andare a veri e propri toni di stampo razzista costruiti sulle più stereotipate, prescrittive e pregiudiziali “visioni antropologiche” del Mezzogiorno d’Italia.
Ma questi tentativi non potevano che accrescere il nostro interesse militante sulla questione e sulla composizione di un movimento che, attorno la figura del contadino, ha saputo produrre conflitto, discorso politico, immaginario, partecipazione, eccedenze, in maniera probabilmente ambigua, certamente originale.

Perché la composizione è certamente il nodo dirimente delle analisi sul tema; perché è attorno ad esso che diviene possibile riconsiderare schemi valutativi su nuove forme della natura proprietaria, della divisione del lavoro, dello sfruttamento e dell’alienazione, ma soprattutto dei punti di rottura su cui provare a costruire la liberazione delle energie cooperative, la riappropriazione del comune. Che poi è il fine ultimo anche di questo lavoro di inchiesta militante.

Andremo quindi a guardare, nello svolgimento di questa, quanto riduttivo e fuorviante sia stato, per certe forze politiche, parlare di “composizione prettamente padronale” delle suddette proteste, formulando ipotesi e interpretando numeri e dati “ufficiali”.

I primi elementi che vogliamo qui offrire sono quelli relativi a distribuzione e diffusione dell’impresa agricola siciliana. Il territorio isolano ha visto un’evoluzione nella distribuzione delle terre, negli ultimi vent’anni, molto lenta: le grandi proprietà si sono polverizzate, essendo state frammentate, di generazione in generazione, tra gli eredi (ovviamente non solo fenomeno siciliano) senza che nessuno mantenesse, nei fatti, un territorio così vasto da realizzarvici grandi -per estensione- aziende. Il sistema si è così sviluppato attorno a medie ma soprattutto a piccole aziende a coltivazione “estensiva” (termine utilizzato qui non nel suo senso “biologico” ma per indicare coltivazioni a bassa rendita di profitto a cui ha costretto la mancanza di massicci investimenti nella produzione, se non in specifiche zone e particolari settori quali la produzione orticola in serra nella parte sud-orientale dell’isola). Le aziende sono per lo più a proprietà individuale (215.000 su 219.000 totali secondo l’ultimo censimento 2011) molte delle quali a gestione familiare o con numero molto ridotto di dipendenti – spesso stagionali e provenienti da sfere di contiguità sociale (parentale, di vicinato, ecc…) – e per immettere i propri prodotti sul mercato e, in particolare, arrivare alla grande distribuzione devono necessariamente far riferimento alle cosiddette OP, Organizzazioni di Produttori, che si occupano della selezione della merce, del confezionamento e della commercializzazione. Nella teoria queste, che a detta dei documenti “ufficiali” dovrebbe essere il punto di forza delle economia locali, dovrebbe essere cooperative che mettono assieme i produttori e li agevolano nel trattare la vendita dei prodotti; nella pratica queste cooperative vengono gestite individualmente da chi mette a disposizione semplicemente i locali per la raccolta, la pulitura e la sistemazione della merce che compra dal singolo produttore-proprietario per l’immissione sul mercato della distribuzione attraverso formule che facciano intendere un pretestuoso e falso salto di passaggio nelle filiere commerciali – formule quali “dal produttore al consumatore” per intenderci.

La nostra sensazione è quindi quella di una tendenziale verticalizzazioni delle filiere in questioni la cui leva fondamentale è costituita proprio dalla figura di questo operatore generalmente definito come “grossista”. Oggi, senza il grossista gestore di cooperative, al piccolo produttore è negata ogni reale possibilità remunerativa di inserimento nella distribuzione.

A tale ipotesi possiamo infatti ricondurre dati e dinamiche percentuali a nostro avviso importanti alla comprensione di questa: basti considerare come, a fronte di un decennale (2001-2011) calo del numero complessivo delle imprese (130%) , il numero di queste società cooperative si è invece quintuplicato andando così a rafforzare le fasi di vendita e commercializzazione (anelli terminali) ma indebolendo gli anelli primi della catena commerciale. Così, un prodotto (le arance, per esempio), acquisite dall’OP a un prezzo x (15 cent/Kg) viene rivenduto dal grossista – una volta etichettato col marchio di riferimento della cooperativa – anche a 10 volte il prezzo x (1-1,50 euro/Kg) alla grande distribuzione che arriverà a vendere fino a 20-25 volte il prezzo x (3-3,50 euro/Kg).

Di fronte queste proporzioni crediamo vadano quindi distinti ruoli e luoghi dei processi valorizzanti, a partire da quello di un produttore-proprietario che subisce (altro che beneficiario principale…!) il rapporto con la (grande) distribuzione; che non agisce sul prezzo di mercato del prodotto; che, come già prima accennato, e vista anche la tipologia proprietaria e di colture più comuni (agrumi, olivi, floricoltura, mangimi) tendenzialmente stagionali, vanta solitamente pochi dipendenti accuratamente scelti (ben altri approfondimenti meriterebbero e meriteranno fenomeni sicuramente importanti quali il caporalato e lo sfruttamento localizzato di manodopera migrante); è solitamente tenuto in regime di “scarsa informazione e conoscenza” di meccanismi e regole del mercato nazionale e internazionale; si affida all’OP anche per quanto riguarda il trasporto. Questo avviene nonostante, ancora e ovviamente, continui ad avere interamente sulle proprie spalle i rischi d’impresa.

E’ forse quindi possibile avanzare parallelismi incentrati sulla somiglianza della figura del grossista gestore delle cooperative di produttori a quella del tanto da noi ricercato “catturatore capitalista”
Con questa prima disamina, e il punto merita attenzione, non vorremmo certo si fraintendesse su una duplice questione: I) siamo qui assolutamente ben lontani da una qualsiasi rilettura in chiave moderna di un qualche mito romantico del “buon contadino” tutto sudore, fatica e spiritualità senza che anche in questo campo non ci siano sfruttatori e sfruttati: stiamo proprio cercando di realizzare il contrario; II) non stiamo, ne lo faremo in futuro, tessendo le lodi della media-piccola impresa, giustificandola e opponendola concettualmente alla grande azienda, unica colpevole delle ingiustizie sistemiche: abbiamo sin dall’inizio ribadito l’immutabile ratio dell’impresa come forma ancora privilegiata di comando sul lavoro!

Prima di giungere alle nostre prime e provvisorie conclusioni, due rapidissime valutazioni vorremmo introdurre al dibattito. La prima riguarda il peso della finanziarizzazione dell’economia nei processi finora trattati: in un settore apparentemente poco coinvolto, la finanza sembra agire attraverso processi che potremmo definire di stretching della filiera, agendo cioè da strumento per gli anelli “alti” della catena con il risultato di irrigidire ancora di più la verticale su cui si sviluppano i passaggi della catena. In questa crescente verticalizzazione, nell’accentuarsi della subalternità del produttore sembra che oltre al proprio e all’altrui lavoro, alle conoscenze tecniche, al proprio bagaglio anche relazionale ed emotivo, costui ceda agli “anelli superiori” della catena anche la stessa terra di proprietà; un ripensamento della natura proprietaria come funzione di accumulazioni esterne all’impresa ,in certi campi produttivi, diventerebbe così d’obbligo per ogni tentativo di analisi.

In conclusione di questo lavoro preliminare alcune affermazioni ci sembrano avere una certa validità. La prima crediamo possa essere un dato incontestabile: la politica “feudale” siciliana è in forte crisi e attraversata da sommovimenti e trasformazioni; la politica di organizzazione e gestione dei territori non riesce più a offrire le compensazioni che aveva sempre saputo garantire: l’esplosione di movimenti come quello dei “forconi” – ma il discorso si potrebbe allargare fino ad arrivare a considerare casi più “metropolitani” come quello, più attuale che mai, delle prossime amministrative di Palermo – sono la più efficace dimostrazione di come questa “qualifica” sia venuta meno. La seconda affermazione riguarda il ruolo di certi gangli produttivi che, seppur si mostrano a scarsa “cooperazione interna” , in realtà condensano attorno ai propri nuclei attività variegate e forme di cooperazione sociale dal basso, sviluppata in orizzontale, ben aldilà dei confini della singola impresa/attività produttiva; non stiamo qui parlando del concetto classico di “indotto” bensì di una connotazione dell’impresa come “rete sociale” allargata e trasversale all’interno della quale è importante cogliere la centralità o meno di segmenti specifici attorno cui provare a individuare interdipendenze e criticità. Ovviamente il discorso muta da territorio a territorio: nel caso siciliano ci pare che l’agricoltura vada osservata anche secondo questa prospettiva. Infine, immediatamente collegato col punto precedente, è l’analisi del ruolo delle comunità nello svilupparsi di lotte su questi terreni. E’ stato, forse, il dato più interessante delle mobilitazioni di gennaio: interi paesi scendevano compatti in piazza a manifestare contro crisi, politica regionale e nazionale, ricatto del debito. La trasversalità sociale di cortei e blocchi ci indica allora, in questo caso, un primo possibile e affascinante terreno ri-compositivo di lotte e istanze: dai pensionati ai giovani braccianti stagionali il fronte si mostrava compatto, determinato, plurale. Le “comunità in lotta” hanno allora aperto una prima strada a forme di generalizzazione dello scontro e di ricomposizione della classe.

Se quindi la conricerca è la pratica peculiare di un impegno ri-compositivo, queste forme embrionali di contro-soggettivazione ci offrono tanti buoni motivi per intraprendere questa inchiesta militante. Se avremo ragione o meno, saranno il tempo e le nostre capacità di intervento politico a dircelo.

 

 

 

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