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Appunti sulla fase politica

 

di COLLETTIVO UNINOMADE

Nell’attuale contingenza, la Fiom è costretta ad andare oltre la classica forma-sindacato. Costretta, certo, dal sostanziale isolamento politico in cui è stata lasciata dalla sinistra di fronte al modello Marchionne, sintesi brutale e realistica dell’interdipendenza tra le diverse forme di sfruttamento e di espropriazione nel capitalismo contemporaneo. Gli operai sono costretti ad accettare i ricatti del management Fiat e tendenzialmente di Federmeccanica, ma sono anche famiglie indebitate per l’acquisto della casa, che interpretano i cambiamenti delle università come chiusura definitiva dei canali di mobilità sociale nei quali credevano, che dovranno pagare di più per i servizi territoriali (acqua, sanità, energia, trasporti, ambiente) e che vivono, al pari di altre categorie sociali, un processo di declassamento ulteriormente aggravato dal ricollocamento al ribasso della sub-area italiana nella divisione cognitiva del lavoro. D’altro canto, il modello Marchionne non si può spiegare senza i mercati finanziari e il modello Richard Florida, cioè il modello di cattura del capitalismo cognitivo, la governance dei processi di deindustrializzazione nel segno della rendita metropolitana. In altre parole, nella nuova condizione operaia precipita tutta la violenza del capitalismo finanziario.

Ma la Fiom è forzata ad andare oltre se stessa, innanzitutto, dalla composizione di classe che ha iniziato a emergere dalla fine degli anni Settanta: cognitiva, precaria, migrante, metropolitana. Ciò non significa affatto che il lavoro di fabbrica scompaia, ma si modifica profondamente. A essere radicalmente cambiato è infatti il rapporto tra capitale fisso e capitale variabile, tra lavoro vivo e lavoro morto. E’  in questo contesto che la conoscenza acquisisce una rilevanza fondamentale nel regime di accumulazione capitalista. Il processo di cristallizzazione e oggettivazione del sapere nel sistema delle macchine si articola così in modo nuovo e peculiare: il lavoro morto ha bisogno di essere vivificato con tempi estremamente più rapidi, da cui sfugge continuamente un’eccedenza di sapere vivo e sociale.

Nella sua folle presunzione Marchionne pensa allora, poiché gestisce la proprietà del capitale fisso per il suo gruppo, di poter liberamente disporre di una forza lavoro sotto ricatto. Però quella forza lavoro non solo è decisiva, come sempre è stato, per far funzionare le macchine, ma per garantire il flusso di innovazione necessario per un’organizzazione produttiva che travalica le mura dell’impresa e tende a manifestarsi su un ordine spaziale a geometria variabile, dove la dimensione locale si apre a quella globale e viceversa. É in questa metamorfosi della forma-impresa che la conoscenza acquisisce centralità. Mezzo di produzione, certo, ma al tempo stesso elemento fondamentale in una prestazione lavorativa dove la dimensione spaziale prevede  un ampio spettro delle forme del lavoro: salariato in senso classico, ma anche servile, autonomo di seconda e terza generazione. Ma sopratutto segnato da quella precarietà del rapporto contrattuale che diventa, nel corso del tempo, precarietà en general, visto che abbiamo assistito all’individualizzazione, attraverso il credito e dunque la crescita del debito individuale, dei servizi sociali.

In ogni caso, la conoscenza, il sapere e la loro condivisione intervengono non solo nella loro cristallizzazione in lavoro morto, ma sopratutto come momento del governo del processo di lavoro che rende tendenzialmente parassitaria la figura dell’imprenditore. Il sapere, la conoscenza sono elementi costitutivi di una cooperazione sociale e produttiva che oscilla tra indisponibilità al comando capitalistico e spuria manifestazione di un “imprenditore collettivo” ostaggio dell’ospite inatteso del contemporaneo regime di accumulazione capitalistico, il capitale finanziario. É questo l’elemento più importante dei movimenti che hanno scosso le università negli ultimi anni. Non espressioni di una miseria della condizione studentesca, ma ulteriore manifestazione di una nuova composizione sociale del lavoro vivo.

Nel corso del tempo, si sono imposti due termini per qualificare tanto le modificazione della composizione sociale del lavoro che il regime di accumulazione: moltitudine e capitalismo cognitivo. Espressioni che non alludevano ovviamente a nessuna lettura progressiva dello sviluppo capitalistico. Semmai, servono a mettere all’ordine del giorno la necessità di  abbandonare del tutto la tranquillizzante polarità tra punti alti e bassi dello sviluppo e di cominciare a pensare politicamente il superamento di una governance dei rapporti sociali di produzione che vedono affastellarsi sweatshops, laboratori di ricerca, fabbriche old style e toyotiste, lavoro manuale, cosiddetto immateriale, servile, comunità locali e forme di vita metropolitane come nodi di un’impresa a rete sempre in divenire.  Inoltre, i confini degli stati nazionali sono stati violati non solo da uomini e donne che affermavano il loro diritto alla felicità, ma anche da pratiche teoriche segnate dalla messa in discussione della nozione di progresso e da punti di vista dove la condizione postcoloniale veniva presentata come un viatico per immaginare inedite pratiche della liberazione e per assumere la politicità di quelle posizioni che hanno guardato all’accumulazione originaria non come a una preistoria del capitalismo, ma come a un processo che si rinnova sempre alla luce degli elementi di crisi che caratterizzano il regime di accumulazione capitalista. Per questo, abbiamo sempre lasciato alle vestali e ai sacerdoti dell’economia della conoscenza o del capitalismo molecolare una lettura della contemporaneità come salto di civiltà. Se accusa può essere fatta verso chi ha usato termini come moltitudine e capitalismo cognitivo è perché sono il terreno dove  il conflitto e le lotte sono ancora la cartina di tornasole per un superamento di un presente e di un futuro costretti nelle camice di forza della necessità.

Capitalismo significa comunque la permanenza di un rapporto sociale fondato sullo sfruttamento, la sua determinazione cognitiva indica la qualità delle nuove forme del lavoro e di accumulazione. Cattura e finanziarizzazione delle forme di comando non costituiscono, cioè, il preludio della liberazione, ma la condizione di fragilità, crisi permanente e dunque violenza nella riproduzione del rapporto di capitale. L’idea di una progressione dello sviluppo del capitalismo secondo stadi che seguono l’uno all’altro in direzione del sole dell’avvenire vanno lasciate a chi è ancora orfano dell’esperienza socialista.  E se proprio vanno cercati di colpevoli di questa lettura lineare dello sviluppo storico occorre quindi andare a quel triste palco del pensiero democratico europeo e statunitense che vede come protagonisti figure come Walter Veltroni o anche quel Cohn-Bendit, fulminato sulla via della green economy. Infine, parlare di capitalismo cognitivo significa parlare della crisi non più come dinamica ciclica, ma come condizione permanente e insuperabile orizzonte di sviluppo del capitalismo contemporaneo.  Per questo abbiamo ritenuto irrealistica la proposta di un new deal magari globale. Ed è su questo crinale che la presidenza di Barack Obama ha subito le più brucianti sconfitte.

Insomma, non è vero che il movimento “è tutto” e il fine “nulla”, che alla conquista parlamentare dello Stato seguirà il socialismo, o alla difesa del pubblico un comune “naturale”, perciò disincarnato. Con sano realismo, va ribadito che il fine è immanente all’organizzazione del movimento. E’ in questo contesto che  il comune si produce, incarnandosi nei conflitti della nuova composizione di classe. Il comune non è un a-priori dato in natura, ma coincide con la forma stessa assunta dall’organizzazione.

Da questi elementi discende la convinzione che il problema da affrontare è quel cambiamento di clima intervenuto in una realtà dove il populismo postmoderno sembrava avere la capacità di rappresentare il governo, ma anche l’opposizione allo status quo. Il rifiuto operaio di Pomigliano ha contribuito all’autunno di rivolta degli studenti. E il no di Mirafiori è difficile da immaginare senza il 14 dicembre. Il punto è come dare continuità ai conflitti che si sono manifestati in questi mesi. Il che significa: portare le lotte operaie oltre la fabbrica. É evidente che riproporre oggi l’idea dell’alleanza studenti-operai, o un suo corrispettivo, non ha più senso. Perché gli operai non sono più quelli dell’autunno caldo, e gli studenti non sono più quelli di Valle Giulia.  Da questo punto di vista, gli operai di Melfi, Pomigliano, Mirafiori non sono diversi dal passato perché solo manifestano soggettività eclettiche rispetto a quelle tratteggiate negli anni Sessanta e Settanta dalle inchieste condotte nelle fabbriche della Fiat. Ci troviamo infatti di fronte a imprese investite totalmente da processi di automazione, che non ha fatto cancellare la catena di montaggio, ma sono comprensibili solo all’interno della loro dimensione globale. La world car non indica solo un decentramento produttivo a livello mondiale, ma anche a principi di just in time, qualità totale che rendono il lavoro operaio molto più cognitivo di quanto possa apparire a una prima e superficiale analisi della fabbrica contemporanea. Allo stesso tempo, gli studenti hanno una frequentazione del mercato del lavoro molto più stringente che non nel passato. Non solo perché molti di loro svolgono lavoro precari o volontari nella forma di stage e tirocini, ma anche perché spesso all’interno dell’Università sono messi in produzione nel ciclo della ricerca su committenza o nell’indotto dell’industria culturale. Dovrebbe far riflettere il fatto che nelle mobilitazioni dello scorso anno ci siano stati pochi e episodici accenni alla miseria della condizione studentesca. Lo spirito del tempo è quella precarietà come condizione generalizzata.

Tanto gli operai che gli studenti sono cioè figure investite da processi di precarizzazione, declassamento, nuova povertà. Non stiamo dicendo, ovviamente, che le condizioni di una migrante costretta al lavoro di cura, di un operaio di Mirafiori o di uno studente-precario siano le stesse. E tuttavia, sono differenti declinazioni di una nuova composizione del lavoro che è ridisegnata da tratti comuni e che è irriducibile alle tradizionali forme della rappresentanza politica e sindacale. E del resto, il modello Marchionne non è entrato in vigore dopo i referendum di Pomigliano e di Mirafiori, ma è la quotidiana condizione di vita di precari e migranti da molto tempo: assenza dei diritti conquistati dal movimento operaio, assenza del contratto nazionale, assenza della possibilità dello sciopero, e via di questo passo. Si tratta, tuttavia, di un processo segnato da una forte ambivalenza: quella dei padroni (la precarietà) non è altro che la risposta all’autonomia e alla flessibilità di parte affermata nelle lotte, nel rifiuto del lavoro e nella fuga dalle fabbriche a partire dagli anni Sessanta e Settanta.

Dunque, le ricette che guardano al passato – l’orizzonte del pieno impiego – sono non solo ben poco desiderabili, ma completamente velleitarie. Da questo punto di vista lo slogan “lavoro bene comune” risuona un poco anacronistico, perché  il lavoro, nel senso capitalistico del termine, non può, né potrà mai esser un bene comune e la parola d’ordine del “pieno impiego” dovrà prima o poi tramutarsi nel diritto alla “scelta dell’impiego”.

In altri termini, il rapporto tra lotte e sviluppo del capitalismo ha definitivamente chiuso gli spazi per quella matrice contrattualistica che individua nei grandi accordi neocorporativi (sulle politiche industriali e sullo stato sociale, ad esempio) lo sbocco politico del conflitto. Così come non esistono le condizioni (politiche, prima ancora che economiche) per una nuova stagione concertativa orientata allo sviluppo industriale, magari basato su un cambiamento nella gerarchia delle merci – la mobilità sostenibile al posto delle auto, la green economy come continuazione della crisi della new economy con altri mezzi. É precisamente su questo terreno che il piano Marchionne presenta la sua fragilità. Tuttavia, dobbiamo, a questo punto, chiederci: e se non fosse il piano industriale l’obiettivo principale di Marchionne? E se per i manager della crisi permanente, del capitalismo no future, il problema non fosse l’organizzazione della produzione a lungo termine, ma intascare ciò che è possibile nell’immediato? La rendita, e non il profitto? Il pubblico, come il caso Fiat dimostra, diventa l’ultima precaria stampella di un privato tanto più feroce quanto più in crisi, le due facce del Giano capitalistico.

Questo quadro non è frutto di astratta speculazione, ma è emerso nel corso dei conflitti operai e sociali di questi mesi. Partiamo dunque dai conflitti per cominciare ad affrontare la questione della dimensione politica che ci troviamo di fronte, che per noi è il problema dell’organizzazione e del programma. In primo luogo, va constatato il livello di generalizzazione sociale dei conflitti. Dalla Grecia alla Francia all’Italia, le mobilitazioni hanno tagliato le divisioni settoriali, praticando o quantomeno prefigurando piani di ricomposizione metropolitana delle lotte. Il corporativismo (come è in parte avvenuto per i ricercatori italiani) si dimostra oggi non solo politicamente criticabile, ma strategicamente perdente: per migliorare le condizioni di vita di un segmento della composizione di classe bisogna porsi su un terreno di immediata generalizzazione. Gli studenti negli ultimi due anni sono riusciti a ottenere consenso non perché corrispondono alla figura generazionale debole disegnata dai media, ma in quanto costituiscono una parzialità in cui si concentra una paradigmatica condizione di precarietà, declassamento e possibile trasformazione. Parlare di giovani oggi significa parlare di una condizione che riguarda tutti così come parlare di precarietà significa parlare dell’intero mondo del lavoro.

In secondo luogo, i conflitti ci mostrano il tendenziale intreccio tra lotte sul salario e lotte sul reddito. La forma-salario, in altre parole, si complessifica, esplode, si frantuma nella fabbrica e si ricompone sul piano sociale. Gli operai in cassa integrazione, ad esempio, individuano il primo problema nell’impossibilità di pagare i mutui per comprare la casa o mandare i figli a scuola. Secondo i recenti dati di Bankitalia il 5% delle famiglie italiane che ha fatto un mutuo non riesce a pagare le rate, è insolvente tra i disoccupati si arriva al 19%. E gli esperti, terrorizzati, prevedono una crescita del tasso di insolvenza. Di fronte all’indebitamento per andare all’università, per usare le carte di credito e costruirsi il fondo pensione, decine di migliaia di proletari e proletarie negli Stati Uniti hanno iniziato a rivendicare il diritto alla bancarotta. Oggi, dunque, non è più possibile pensare alle lotte sul salario come in passato, e questa è un’altra sfida che si pone al sindacato. Il salario, infatti, è parte del welfare sociale: il reddito non può essere inteso come un ammortizzatore sociale e una misura temporanea verso il pieno impiego, ma come un terreno decisivo di riappropriazione della ricchezza sociale prodotta in comune. Qui economia “reale” ed economia finanziaria si intrecciano e si confondono, quella dialettica non ha più ragione di esistere. La lotta sul reddito, per l’insolvenza generalizzata e per l’organizzazione in comune della vita (dall’acqua alla mobilità alla comunicazione) riconfigurano e ridisegnano la lotta salariale oggi. Occorre, al riguardo,  pensare a proposte di welfare metropolitano che sull’introduzione di una cassa sociale per la garanzia di reddito,  l’accesso ai servizi e beni comuni materiali e immateriali e l’introduzione di un salario minimo per i non contrattualizzati al fine di porre un freno al dilagare del dumping sociale, costituisca il perno costituente di una nuova soggettività precaria.

È esattamente su questo piano che il sindacato si deve confrontare. L’esplosione della forma-salario ha, evidentemente, un lato estremamente problematico: i lavoratori cosiddetti cognitivi (si pensi ancora alle recenti mobilitazioni dei ricercatori) tendono a non riconoscere più nel salario un terreno di conflitto e di costruzione dei rapporti di forza, o addirittura smarriscono completamente l’identificazione di una controparte, rifiutano cioè la propria condizione collettiva e di lavoratori. Tra i precari dell’università spesso c’è un’implicita interiorizzazione del ricatto di Marchionne senza che questo venga pubblicamente formulato: non c’è bisogno di un referendum per accettare l’identificazione tra lavoratori e impresa, per accettare tempi e condizioni insopportabili in cambio di uno status, quello del “creativo”. E tuttavia, proprio quell’esplosione della forma-salario, l’essere fuori misura delle lotte alzano la posta in palio. Oggi il piano del conflitto si pone su un livello immediatamente costituente: la riappropriazione della ricchezza sociale non può essere pensato al di fuori della produzione e dell’organizzazione del comune. E viceversa.

Per dirla in breve: la Fiom è forzata ad assumere un ruolo immediatamente politico. Per farlo, non le basta allearsi con i movimenti o essere sostenuta da essi: se non si va oltre questo terreno di generica solidarietà, la sfida è segnata per tutti. Il punto è: la Fiom e i movimenti riescono a trasformare le camere del lavoro in luoghi di organizzazione della forza lavoro metropolitana, a metterle a disposizione dei precari, degli studenti, dei migranti, per farne istituzioni del comune? La parola d’ordine dello sciopero generale è necessaria, ma non sufficiente: lo sciopero deve essere non solo generalizzato (i blocchi della produzione metropolitana degli studenti e dei precari stanno reinventando la stessa forma di sciopero), ma deve diventare sciopero politico di organizzazione del comune, cioè sciopero costituente.

Il piano di questa sfida è transnazionale. Anche in questo caso, le lotte ci hanno chiaramente indicato come oggi non può esistere nessun movimento e possibilità di vittoria al di fuori di queste coordinate spazio-temporali. Non esiste oggi politica della trasformazione che non sia politica del comune e politica transnazionale. Il “territorio” non esiste al di fuori di questa dimensione globale dei processi di lotta e della composizione di classe. Se il ricatto capitalistico è globale e l’organizzazione della forza lavoro è locale, non c’è partita: nell’autosufficienza territoriale vincono Marchionne da un lato e la Lega dall’altro. E altro non sono che due facce della stessa medaglia, al pari del pubblico e del privato. Del resto, afferrare la dimensione globale permette di evitare rischiose illusioni: ad esempio, vi è forse una contraddizione tra il capitalismo cognitivo e la dismissione dell’università in Italia, come vorrebbe l’arco trasversale che propone una strategia di uscita dalla crisi centrata sull’investimento nell’economia della conoscenza? Niente affatto. Perché il capitalismo cognitivo è continua produzione di divisioni e gerarchie: così, per dirla con una battuta, mentre in Italia l’Italia viene smantellata l’università, Cina e India investono in formazione e ricerca.

A mo’ di intermezzo. Spesso rispetto al ricatto di Marchionne si sente dire: vuole imporre l’americanizzazione dei sindacati italiani. Ma, come in molte occasioni in cui a sinistra si parla di americanizzazione, ci si rifugia in discutibili immagini caricaturali. A partire dagli anni Ottanta i sindacati americani, di fronte alla crisi strutturale della rappresentanza e della forma-sindacato, si sono trovati di fronte alla scelta: o morire, o aprire alla base le proprie strutture. Pur tra mille contraddizioni, incertezze, controspinte ed evidente opportunismo, hanno scelto la seconda opzione. Opzione che è certamente interna all’ambigua tradizione sindacale americana, sicuramente corporativa ma al contempo permeabile all’utilizzo operaio delle local union. Come sarebbero state possibile altrimenti straordinarie esperienze di organizzazione e protagonismo della forza lavoro migrante come quella di Justice for Janitors? Oppure si pensi all’utilizzo di sindacati come lo United Auto Workers (cioè il corrispettivo della Fiom) da parte dei collettivi autonomi di studenti e ricercatori precari nella loro lotta contro le corporate university.

E infine, last but not least, volgiamo il nostro sguardo a quanto sta accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo. Rivolte per il pane, si sono affrettate a battezzarle i media occidentali, per esorcizzare lo spettro di quello che è avvenuto dall’Inghilterra all’Italia, dalla Francia alla Grecia, per limitare il contagio e la riproducibilità. E invece, in Tunisia e nel resto del Maghreb alla testa delle lotte vi è il proletariato intellettuale, altamente scolarizzato e disoccupato, produttivo e povero. Le principali forme di organizzazione sono state la rete e l’uso delle sedi sindacali. Anche qui il comune, quindi, non è la difesa del pubblico – cioè la difesa della scelta tra i regimi corrotti e i gruppi islamici, che sulla trasfigurazione del comune hanno costruito la propria legittimità – ma immediatamente una forma di organizzazione e di nuovo processo costituente. Tutti quanti noi dovremmo apprendere elementi di consocenza del reale dalle lotte del Maghreb, per ripensare l’Europa a partire dalla rivoluzione in Tunisia ed Egitto.

È su questo terreno che la ricomposizione anticipata dalle lotte può divenire costruzione del comune nella crisi. Il proletariato cognitivo non vuole più vivere come in passato, e i parassiti del capitale non possono più farlo. Il 1789 della moltitudine globale è iniziato.

 

 

 

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