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Barbari e amerindi in MundoBraz

 

Un filo rosso tra l’antropologia immanentista di Viveiros de Castro e l’ontologia costitutiva di Toni Negri: l’ultimo libro di Giuseppe Cocco

di PETER PÁL PELBART

Ormai è innegabile: l’esperienza lineare, sequenziale, cumulativa, direzionata, progressiva, omogenea, concatenata, cronologica, è soltanto una delle tante esperienze che si possono fare del tempo. Nel secolo scorso, la filosofia ha compiuto sforzi considerevoli nel problematizzare questo tipo di esercizio, da Heidegger a Benjamin, da Bergson a Deleuze. Anche altri campi di studio, diversi dalla filosofia, dimostrano l’esigenza di riconsiderare la freccia del tempo, dalla psicanalisi all’antropologia, dalla storia alla politica stessa. Nonostante tutti questi ambiti abbiano destabilizzato l’ordine del tempo, nessuno di essi è riuscito a raggiungere formule condivise che potessero abbandonare le coordinate principali che abbiamo conosciuto: la tripartizione diacronica (passato, presente e futuro), la struttura prima/dopo, il significato stesso del tempo.

Parallelamente, l’esperienza quotidiana degli ultimi decenni ha prodotto un livellamento della prospettiva temporale, che ci getta nell’unidimensionalità fatta di tedio e fatica, di ripetitività e svuotamento, portando a un appiattimento del tempo. Da tutte le parti arrivano critiche riguardo il crollo della prospettiva temporale, che comporta pericoli quali la perdita delle prospettive storiche, il cinico congelamento in un continuo presente, un presente in cui, tra l’altro, non accade nulla se non la reiterata non-esistenza degli eventi. E poi ancora una cultura spettacolare e narcisistica che ricicla tutti i tempi e li rende ibridi e indifferenziati, obbedendo all’elementare dettame del mercato stesso, che è fondato sul valore di scambio e non sul valore d’uso, sull’equivalenza generale del tempo.

In questo periodo, alcuni insistono sul fatto che il culto del passato caratteristico degli ultimi decenni, la rinascita della memoria, servirebbe soltanto a compensare l’attuale accelerazione della tecnica, un modo per resistere alla sincronicità dominante. Purtroppo, la maggioranza di queste critiche rivela una posizione nostalgica nei confronti dello schema temporale precedente, che garantiva una teleologia, uno spessore temporale, un senso della storia. Comunque sia, tutti gli elementi qui elencati in maniera rapsodica, ossia la predominanza di un tempo cronologico, di una freccia del tempo, l’appiattimento dell’esperienza del tempo, il crollo della prospettiva temporale, ci portano ad ammettere, con Huyssen, che stiamo vivendo una vera e propria trasformazione della struttura della temporalità moderna in se stessa.

Da un punto di vista più generale, come ha fatto notare Krysztof Pomian, sappiamo che esiste una sorta di geografia del tempo che varia a seconda delle culture. Il vertice del tempo può essere più efficacemente localizzato nel passato, nell’antichità, in cui era l’origine a essere valorizzata. Oppure può essere vettorizzato nel futuro, come nella modernità, che venera il progresso e che viene aspirata dall’infinito accumulo della freccia del capitale. Ma anche questa interpretazione appare eccessivamente semplicistica per spiegare ciò a cui ci troviamo di fronte oggi: qualcuno lo ha chiamato ipertempo. Non si tratta soltanto di una sincronicità universale, come la definiscono, con una certa disapprovazione di fondo, i tecnofobi di varie matrici (marxisti, heiddeggeriani, baudrillardiani) ma della nascita di nuovi condotti temporali, in grado di alterare profondamente lo statuto del tempo e il modo in cui si fa esperienza di esso. Infatti, non ci troviamo più di fronte a una mera alterazione del senso della freccia del tempo, come avveniva alcuni decenni fa, ma a una esplosione della freccia del tempo.

Ciò che ci destabilizza è che oggi, per quanto riguarda il tempo, è in gioco l’idea stessa della “freccia”, vale a dire la direzione, il senso del tempo. Questo, però, non deve essere letto come un vuoto appiattimento, o come un’opacizzazione nichilista. Al contrario, quello che ne deriva è una molteplicità di frecce (ma bisognerebbe trovare un altro nome), una molteplicità di direzioni (ma bisognerebbe usare un’altra parola), una molteplicità di sensi (ma bisognerebbe inventare nuovi termini). Questo è ciò che si può leggere partendo dall’idea di una sorta di rizoma temporale. Non si tratta di una linea del tempo, né di un tempo circolare, e neanche di una freccia al contrario, o spezzata, ma di una rete temporale, che implica una navigazione multitemporale in un flusso aperto, con il divenire che là nasce, come dice Deleuze.

Ho scelto questa via di entrata un po’ contorta, parlando del tempo, per illustrare il libro di Giuseppe Cocco, MundoBraz. O devir-mundo do Brasil e o devir-Brasil do mundo[1] . Il punto è che il saggio si apre ai lettori con una problematizzazione del mito del futuro, che per molto tempo ci ha accompagnato, o perché si parlava di Brasile come paese del futuro, oppure perché ci si prometteva un futuro eurocentrico attraverso lo sviluppo, la crescita, l’industrializzazione. A questa ossessione, l’autore contrappone la frase di Eduardo Viveiros de Castro: “Hanno sempre detto che il Brasile era il paese del futuro. Niente di più sbagliato, è il futuro che è diventato Brasile!”. Come fa notare Cocco, il senso di questa frase è ambiguo. Da una parte potrebbe sembrare dispregiativa, se si riferisse alla brasilianizzazione del mondo, e cioè alla diffusione generalizzata della disuguaglianza, della violenza, della frammentazione sociale e spaziale, del razzismo, della “favelizzazione” (segregazione e autosegregazione delle élite), caratteristiche tipiche della modernizzazione brasiliana, e che riappaiono nel flusso e riflusso dell’arroganza neoliberale, nello sconcerto generale, da tutte le parti, anche nei paesi cosiddetti sviluppati, e proprio nella post-modernizzazione globalizzata. D’altra parte, la stessa affermazione può essere letta in positivo, ossia che esiste qualcosa in quei processi o ingredienti così squisitamente brasiliani che li rende veri e propri vettori della mondializzazione o comunque come qualcosa di necessario per concepirli: l’ibridazione, il meticciato, l’antropofagia o il “prospettivismo amerindio”. Bisogna dirlo: la stessa globalizzazione è bifronte. Da una parte si presenta come un futuro unico e inevitabile, secondo un tempo lineare al quale tutti saremmo soggetti, in maniera gloriosa, quando siamo destinati al paradiso del progresso e del consumo, oppure più tristemente, quando siamo sbattuti come frammenti sociali e spaziali alla mercè di un progresso che ci modula nelle “rappresentazioni astratte del mercato”, come dice Giuseppe Cocco.

D’altro canto, la globalizzazione si può presentare come mondializzazione. Questo significa apertura “alla molteplicità dei mondi possibili”, ossia al divenire laterale, scambio di prospettive, nuovi valori, sensi possibili, altri spazio-tempo, mondi multipli che si produce nell’ibridizzazione. La mondializzazione, vista sotto questa prospettiva, non è più intesa come omogeneizzazione ma come eterogenesi. È in questo senso che si può leggere il significato del testo, quando propone quel mostro concettuale chiamato MundoBraz. La alternative, dunque, sono queste: o la globalizzazione è intrapresa e concepita come perdita del mondo – come im-mondo, immondializzazione, per stare alle parole di Jean Luc Nancy – oppure come mondializzazione, vale a dire creazione del mondo, proliferazione ontologica e assiologia, sovvertimento di tutti i valori. Ciò può accadere contemporaneamente in un unico futuro uguale per tutti, e quindi nell’unico mondo possibile, con le ovvie segmentazioni che questo futuro unico determina, perché non tutti stanno sullo stesso lato dello stesso futuro, ovvio, oppure, diversamente, ci potrebbe opporre al dominio della freccia del tempo, di un ipotetico senso della storia, glorioso o sinistro, e riaprire la freccia in varie direzioni. Alla ricerca di uno strumento concettuale che si accompagni a questa seconda via, Giuseppe Cocco ne esplicita il prerequisito: “Dobbiamo sostituire la nozione di “futuro” con la nozione di “divenire”.” In altre parole, si tratta del “passaggio dal tempo lineare del futuro al tempo intensivo del divenire”. Come si può constatare, è tutta una sfida, per non chiamarlo un programma, filosofico e politico.

Qualche decina d’anni fa, Giorgio Agamben formulava questo problema a modo suo: “A tutte le concezioni di storia è associata una cera esperienza del tempo, che gli è inerente, che la condiziona e che si tratta precisamente di rivelare. Allo stesso modo, tutta la cultura è in primo luogo una certa esperienza del tempo, e non esiste nuova cultura senza la trasformazione di questa esperienza. Perciò, il primo obiettivo di una vera rivoluzione non è affatto semplicemente quello di cambiare il mondo”, ma anche e soprattutto di cambiare il tempo. Il pensiero politico moderno, che ha concentrato la sua attenzione sulla storia, non ha elaborato una concezione corrispondente del tempo. Anche il materialismo storico ha così, finora, omesso di elaborare una concezione di tempo che fosse all’altezza della sua concezione della storia. Questa omissione l’ha obbligato a ricorrere a una concezione del tempo che domina la cultura da secoli, in modo tale che in esso coesistano una concezione rivoluzionaria della storia e un’esperienza tradizionale del tempo. La rappresentazione comune del tempo, quella di un continuum puntuale e omogeneo, ha finito per fa impallidire il concetto marxista della storia”[2]. A parte il messianismo benjaminiano latente, una tale concezione egemonica del tempo fa sorgere spontanea una domanda: come svincolarsi da questa tirannia del futuro?

Bruno Latour ha avanzato l’ipotesi, intrigante. secondo cui la nostra certezza che il tempo passi, o vada verso il futuro, ci viene dalla Costituzione moderna, ossia da questa ossessione per la rottura tra moderni e pre-moderni, da questa supposizione che si possa abolire il passato, sotterrarlo, cancellarlo attraverso una rivoluzione radicale, in modo tale che le ripetizioni e i risvegli e i ritorni sembrino incomprensibili o semplicemente segno di un retrogrado balzo all’indietro. Prima di lui, Michel Serres ci aveva già offerto un’immagine aggrovigliata del tempo: il tempo, diceva, è come una fiamma su una brace, da un parte spezzata, dall’altra verticale, mobile, inaspettata, a momenti si ferma, si rompe, crea pozzi, camini di accelerazione fulminante, strappi, lacune… il tempo passa e non passa, ha controcorrenti, turbolenze, “qualsiasi evento della storia è multitemporale, richiama simultaneamente ciò che ritorna, ciò che è contemporaneo e il futuro. Questo o quell’oggetto, questa o quella circostanza, sono dunque policronici, multitemporali, rivelano un tempo sgualcito, piegato multiple volte”[3]. Serres dice, in sostanza: non metrico né geometrico, bisognerebbe concepire un tempo topologico.

Così, eventi che nella linea del tempo sarebbero sono in realtà intimamente legati. Insomma, tutta la nozione di novità deve essere ripensata, come anche l’idea di ciò che ritorna, o di passato, o di futuro. Il futuro, in questa accezione, non è più situato alla fine della linea del tempo, non è più al vertice del tempo, ma una dimensione del presente stesso, non essendo più perciò pensato come futuro, ma piuttosto come estemporaneo, intempestivo, accadimento, divenire, comunque rimanendo lontano da qualsiasi teleologia. Latour ha azzardato una definizione: il tempo è il risultato provvisorio del legame tra gli esseri, il risultato di una selezione. Non avanziamo né indietreggiamo mai, selezioniamo attivamente elementi che appartengono a tempi differenti.

Cocco, nel suo sforzo di situare questa mutazione contemporanea del tempo nella concretezza della storia, dice: “Così, con il muro di Berlino, è caduto un insieme di visioni del mondo, potremmo quasi dire di una determinata visione del futuro del mondo, e questo non ha significato l’affermazione lineare dell’egemonia di uno dei modelli…”. Ed esplicita: “Se sostituiamo al tempo lineare del futuro il tempo rizomatico e evenemenziale, al divenire-Brasile del mondo corrisponde un ventaglio gigantesco di possibilità”. In un rizoma, come si sa, si entra da tutti i lati, ogni punto è in connessione con un altro, non c’è inizio né fine, né centro, né periferia, unità e totalità, esiste soltanto un mezzo, attraverso cui il rizoma cresce e trasborda. Un rizoma, infatti, è costituito da connessioni, da un divenire laterale, direzioni mobili. Così il divenire-Amazzonia del Brasile, o il divenire-Brasile del mondo, non significano né un passo all’indietro né in avanti rispetto a un’ipotetica linea evolutiva, ma un movimento singolare con piena positività.

Tuttavia, questa interpretazione presenta una sfida, che Giuseppe Cocco esplicita così: “È necessario costruire un punto di vista che ci permetta di qualificare il tempo, il tempo nella sua ontologia di produzione di vita”. L’influenza negriana è qui indiscutibile: è infatti tutta la relazione fra tempo e vita che Negri si propone di ripensare, soprattutto nel contesto post-fordista, in cui la produzione di vita non è più subordinata alla misurazione temporale (come diceva Marx, l’uomo, carcassa del tempo), ma fondata su ciò che è inesauribile di quel bios della moltitudine, nel suo misto di intelligenza collettiva, influenza reciproca, creazione e ricreazione biopolitica.

In questo ambito il tempo non è più misura del lavoro e si trasforma esso stesso in dismisura, eccesso, eccesso di essere, abbondanza, liberazione. Il che ha implicazioni politiche non disprezzabili: si abbandonano le rivendicazioni di subordinazione alla forma-tempo, al salario, alla forma-lavoro, alle coercizioni del capitale e alla forma-politica o alla forma-Stato, con le sue disgiuntive come occupazione-disoccupazione, esclusione-inclusione, in favore di quello che il regime attuale non cessa di tentare di catturare e governare: l’“attività libera e creativa di entità singole che diventano produttive indipendentemente dalla relazione di capitale”.

In altri termini: quando il tempo di vita e il tempo di lavoro si mescolano “in un circuito che costituisce il nuovo spazio produttivo e rendono qualsiasi misura di riferimento completamente arbitraria”, quando il lavoro vivo riesce a diventare produttivo senza passare per il rapporto salariale e per la subordinazione rispetto al lavoro morto cristallizzato nel capitale fisso, sorge un nuovo orizzonte di esigenze, in cui appare il privilegio della “mobilitazione produttiva della sfera della riproduzione come terreno di costituzione autonoma, antagonista all’ordine disciplinare della fabbrica”, dove la resistenza diventa “una forza ontologica” (Negri), dove lotta, produzione e invenzione di forme di vita diventano una cosa sola ai fini della creazione di valore. Per quanto riguarda il Brasile, Giuseppe Cocco traduce tutto questo nei seguenti termini: “Qui il divenire-Brasile del mondo appare come un orizzonte aperto dei possibili, della potenza produttive che, per esempio, troviamo nell’esodo rurale, nella autocostruzione dello spazio urbano, nella musica nera e nella cosmologia amerinidiana”.

Bisognerebbe indagare ognuno di questi esempi, ma questo esula dalle mie competenze. E con pudore e umiltà, vista la mia incompetenza in campo antropologico, vorrei soffermarmi per un attimo su quest’ultimo punto, nella misura in cui esso contribuisce a creare un’economia dell’alterità in grado di illuminare il nostro contesto in modo meno cupo e omogeneo di quanto faccia Agamben quando getta l’ombra del suo concetto di vita nuda sulla totalità del pianeta e la proietta retroattivamente sull’insieme della storia, arrivando fino ai greci, in contrasto con le discontinuità che Foucault ha sempre voluto preservare. Contrapponendosi alla riduzione biopolitica della vita a una vita nuda intrapresa dall’ipotetico stato di eccezione planetario, Giuseppe Cocco chiama in causa il contributo di Eduardo Viveiros de Castro: “La vita è sempre vestita, anche quando appariva nuda ai conquistatori che non riuscivano a distinguere i propri “vestiti” perché si preoccupavano solo di sapere se gli “indios” avevano o no un’anima. La vita è il corpo “fatto”, letteralmente fabbricato dagli amerinidi”. Questa nudità, dunque, è solo un miraggio occidentale, poiché la vita è già relazione, divenire, influenza, potere di influenzare e di essere influenzato, potenza, differenziazione, variazione, immanenza, come dice Deleuze. Invece che una vita nuda, una vita. È ovvio che il biopotere tende a ridurla alla sua manipolabile dimensione biologica, ma perché la teoria dovrebbe assumere il punto di vista del potere, anche supponendo una dialettica reattiva e la soggettivizzazione corrispondente, sempre ancorata a una logica della negatività?

Bisognerebbe invece pensare proprio alla positività del divenire, della relazione, “la verità della relazione e non la relatività del vero”, come fece l’antropologia immanentista, al “confrontare diverse modalità di relazione”, al pensare alla relazione immanente con l’alterità, senza dialettica, ma in un gioco che produce differenze intensive, a mostrare, come disse Viveiros de Castro, società il cui (non) fondamento è la propria relazione con gli altri, come disse Clifford, gruppi per i quali lo scambio, non l’identità, è il valore fondamentale che viene affermato; alterità come possibilità di autotrasfigurazione, la cultura stessa come un dispositivo costituito da elaborazioni di credenze altrui. O come fece la filosofia, a suo modo, a sottolineare il primato della relazione, in una tradizione che risale all’empirismo e che Deleuze riprende, secondo cui la relazione è esterna ai suoi termini, o più radicalmente, addirittura anteriore ai termini che essa pone in relazione, se seguiamo la genesi proposta da Simondon. In ogni caso, cos’è la relazione, partendo da ciò che ci offre Castro nel campo dell’antropologia, per esempio tra uomini e animali? Sono i punti di vista diversi che entrano in connessione e si alternano, si scambiano, si intercambiano, in un conflitto agonistico. O come nel caso dell’antropofagia, l’assorbimento dell’altro e il divenire-altro che questo assorbimento implica. In ultima istanza, infatti, come ha sottolineato Deleuze partendo da Leibniz e Nietzsche, non si deve partire dai soggetti dati, ma dai punti di vista a partire dai quali i soggetti sono possibili. O come dice Castro: “Tutti gli esseri a cui si attribuisce un punto di vista saranno soggetti, spirito; una volta individuato un punto di vista, lì si troverà anche il soggetto. Il punto di vista crea il soggetto, sarà soggetto chi sarà sollecitato o attivato dal punto di vista” (Castro, 2002, cit. p. 184).

Un mondo costituito da punti di vista è tutto il contrario di un universo che si suppone autonomo, visto da diverse prospettive. Già Nietzsche l’aveva affermato e il senso della sua sperimentazione filosofica non è altro che questo, nel contrastare l’unità ontoteleologica antropomorfica che egli combatte senza posa, attraverso la sua audace circumnavigazione filosofica: avere il maggior numero possibile di occhi e affetti, sperimentare tutte le prospettive, a condizione che ogni prospettiva, interpretazione, senso, valore che gli corrispondono provenga da una posizione vitale, da una formazione di dominio, di un corpo, di una forza che chiede di passare e si afferma. E come già Leibniz aveva detto, non esiste un mondo al di fuori del punto di vista di chi lo esprime. Il risultato di questo prospettivismo portato alle ultime conseguenze, che il Dio di Lebniz non appoggiò, è che non esiste universo, ma multiverso, in cui coesistono diversi mondi incompatibili tra loro. È nell’orizzonte di questa molteplicità radicale, di questo mondo esploso, mai sussumibile a qualsiasi unità ontologica, che un’altra politica del pensiero è possibile, e un’altra politica tout court è desiderabile, che si chiami micropolitica o biopolitica. È sulla scia di una tale incessante differenziazione, di questa singolarizzazione irrefrenabile e della comunicazione tesa e intensa tra loro, che la questione dell’alterità può essere ripresa, andando contro il monoteismo filosofico, politico ed economico ancora vigenti.

È forse in questa zona ontologica, e mi riferisco a entrambe le accezioni di zona, che il testo di Cocco intravede un “filo rosso” tra l’antropologia immanentista di Viveiros de Castro e l’ontologia costitutiva di Toni Negri, in uno sforzo di costruire uno “statuto ontologico della relazione”, che offrirebbe una “alternativa ontologica” in grado di potenziare “un orizzonte di lotta antimoderno: e cioè, in termini di prospettivismo a cui si uniscono il relazionismo e la metamorfosi”.

È a partire da una tale ontologia allo stesso tempo costitutiva e differenziale, della molteplicità e della proliferazione, che Giuseppe Cocco compie il suo bel salto nella dimensione continentale e geopolitica (“Il divenire-aimarà della Bolivia non significa che tutti i boliviani diventano aimarà; la stessa Bolivia, al sua costituzione politica “plurinazionale”). Ciò significa che è implicata nelle dinamiche delle differenze indigene. E questo nella misura in cui gli stessi componenti della popolazione autoctona degli aimarà sono coinvolti in nuove relazioni (ad esempio post-nazionali) che li rendono divenire in un altro tipo di concatenamento: aimarà-gas naturale-assemblea costituente. È chiaro che un tale divenire implica per forza non solo uno scambio di punti di vista, e/o una ibridizzazione, a volte persino mostruosa, ma esprimono o implicano nuove forme di vita all’interno di questi nuovi concatenamenti, a partire da un eccesso di essere, in una rottura della temporalità, con i suoi effetti politici evidenti, come si può constatare nel caso della sconfitta dell’oligarchia centenaria boliviana e la sua possibile irradiazione nel continente. “Il divenire-aimarà della Bolivia è così un divenire-Bolivia del Brasile e un divenire-indio dell’Argentina: uno scambio di uno scambio di punti di vista”.

A partire da qui, Giuseppe Cocco gioca con vari concatenamenti. Riprendendo una battuta di Castro (“Lenin ha inventato il socialismo come concatenamento tra soviet, taylorismo e elettricità”), riferita alla Bolivia post-nazionale si potrebbe dire: indios aimarà-El Alto-gas naturale”. Oppure il punto di vista dell’antico popolo brasiliano dei Tupi come matrice di relazione con l’alterità, divoramento, deglutizione, saccheggio, incorporazione, divenire-altro, macchina da guerra “contro il colonialismo interno che tratta i popoli indigeni come ostacolo all’uniformazione della nazionalità”. E qui l’autore conclude: “La risposta che l’America Latina deve dare all’alienazione culturale è rendere il meticciato e l’ibridazione ancora più profondi attraverso i flussi mondiali”. Non si tratta di un entusiasmo naif che riprende i miti della riconciliazione razziale o nazionale, né di un’apologia dell’armonia multiculturale, ma al contrario, è la constatazione che il contesto di mondializzazione è un terreno di lotta, di moltiplicazione, di proliferazione, di differenziazione, di processualità. Lo stesso meticciato o ibridazione non possono essere concepiti come soluzione o come distruzione, ma come un terreno agonistico. In ogni caso, il divenire-mondo del Brasile è diverso dall’incontro del Brasile con il suo futuro o persino con la sua storia, meno ancora con la sua identità.

Alcuni decenni fa, Deleuze ha approfondito una distinzione, che, tra gli altri, aveva trovato in Nietzsche, in Péguy, in Foucault, anche se come termini distinti, fra Storia e Divenire. Secondo tale prospettiva, il divenire è un processo o un evento che devia dalla storia, che salta fuori di essa, che sfugge ai suoi binari e alla sua determinazione. È proprio lì che si inizia una sperimentazione, che si inaugura un nuovo spazio-tempo, che ci si libera da una teleologia. Credo che Giuseppe Cocco sia riuscito in questo libro, che è una sfida concettuale e che costituisce un piccolo e attraente mostro politico: in esso Marx e i popoli indigeni, come gli arewetés e gli aimarà, procedono a braccetto con Negri, al ritmo del flauto di Deleuze, in cui lo stesso lettore è trascinato in un divenire-nero, in un divenire-indio, in un divenire-mondo, a forgiare tutti gli elementi utili a costruire una piccola macchina da guerra dei nostri tempi. Senza atteggiarsi a giudice supremo, che dal tribunale della ragione o della storia contempla, giudica e condanna il corso del mondo, godendo nel denunciarlo o nel demonizzarlo, in un testo senza risentimento né rancore, senza l’ironia facile che schiaccia in un sol colpo i significati che fanno crepe da tutte le parti, questo libro sperimenta, a partire da un prospettivismo ontologico e materialissimo, le vie di fuga che attraversano il presente, sfaldandolo.

Giuseppe Cocco, MundoBraz: o devir-mundo do Brasil e o devir-Brasil do mundo, Record, Rio de Janeiro, 2010, pag 304.


[1] Giuseppe Cocco, MundoBraz, o devir-mundo do Brasil e o devir-Brasil do mundo, Rio de Janeiro, Rocco, 2010.

[2] Giorgio Agamben, Enfance et histoire, Paris, Payot&Rivages, 1989, p 114.

[3] Michel Serres, Eclaircissements, Paris, Flammarion, 1992, p. 92.

 

 

 

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