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Biopolitiche della riproduzione ed etiche nomadi

 

di GRAZIELLA DURANTE

  1. 1.     Biotecnologie e femminismo.

La nostra epoca – segnata dalla profonda convergenza tra le tecnologie dell’informazione e della comunicazione con l’ingegneria genetica e le biotecnologie – si presenta aperta all’impatto potenzialmente innovativo sul piano sociale, politico ed etico delle diverse applicazioni delle nuove scoperte bioscientifiche sulla vita stessa. Potremmo dire che se la tecnoscienza rappresenta la vera anima della lunga storia della globalizzazione, lo è nella misura in cui la si consideri come il racconto di un viaggio di ‘circolazioni socioeconomiche’ distribuite in maniera radicalmente eterogenea e articolate  secondo dinamiche connessioni rizomatiche. La cartografia del mondo contemporaneo si darà, allora, come una rete globale in continua riconfigurazione, cangiante e stratificata. Oggetto ed effetto di tale movimento, del processo instabile di produzione-riproduzione di verità e poteri che emerge dall’intreccio tra scienze della vita, scienze fisiche e scienze dell’informazione e della comunicazione, è il corpo, l’organismo vivente, colto nelle sue componenti cellulari, nella base genetica e molecolare della vita.

Le illimitate possibilità espresse nell’ingeneria genetica – per cui ogni cosa, persona, informazione è definibile in termini di smontaggio e rimontaggio – ne fanno un’arte combinatoria sempre più precisa e complessa che produce una vera e propria esplosione, politica ed euristica insieme, del corpo materico e biologico. Le nuove tecniche di riproduzione rivelano non solo la completa trasparenza dell’organismo vivente, ma erodono – come evidenzia Haraway[1] – le  stesse frontiere tra l’organico e l’inorganico, operando un saldo ‘accoppiamento’ tra macchina e uomo. Segno, testo e materia. Il corpo non è più un dato biologico, espressione dell’unicità originaria, nè il segno distintivo dell’identità individuale. Esso esprime, invece, il paradosso dell’intreccio tra immanenza e virtualità tipica della nostra epoca postmoderna. Il riduzionismo informazionale ha scorto nelle nuove possibilità aperte dall’ibridazione biotecnologica i segni di un postumano disincarnato – dai tratti spesso apologetici e inquietanti – in cui il potere assoluto dell’informazione ha la meglio sul suo supporto materiale. Il corpo codificato si tramuta, se inquadrato da questa angolazione, e sotto la pressione dell’enfasi cibernetica – in un arbitrario supporto su cui inscrivere i flussi di bit che ne descrivono la struttura. Un residuo, a volte addirittura ingombrante, di un’umanità primitiva, colta prima e fuori del dominio del software. Tuttavia l’eccessiva euforia della ‘svolta linguistica’ postmoderna che accentua il carattere testuale del corpo è controbilanciata, come vedremo,  dal ritorno della sua fisicità e materialità.

La genomica e, in generale, i nuovi saperi biomedici, sono ormai da anni al centro di un ampio dibattito filosofico, politico, giuridico ed economico che ha chiamato ad esprimersi laici e cattolici ma che spesso è rimasto confinato all’interno degli stretti perimetri della filosofia morale, o di analisi normative che mirano a difendere l’inviolabilità della natura umana dinanzi agli sconfinamenti e agli abusi delle diverse pratiche biotecnologiche sul materiale genetico degli esseri umani[2]. Questo dibattito e il carattere morale e normativo in cui è articolato investe anche il terreno  del pensiero femminista in cui il femminile materno, il ruolo e il carattere della riproduzione diventa il fulcro attorno a cui ruota la ridefinzione del dinenire-donna.. Il più radicale e ‘spassionato sconcerto’ dinanzi alle tecniche e ai saperi biomedici è stato espresso dalla storica del corpo Barbara Duden[3][4] che denuncia l’intensiva decorporeizzazione prodotta dalle nuove tecniche diagnostiche di visualizzazione e monitoraggio del corpo femminile inscritto nello scenario ottico politico della nuova razionalità scientifica e dalla progressiva artificializzazione della maternità. Il corpo della donna diventa il luogo pubblico per eccellenza, mentre la vita e la morte prenatale si spostano sul piano delle competenze burocratiche. Nella stessa direzione muove l’analisi di Gena Corea che evidenzia il potenziale di sfruttamento e di alienazione insito negli eccessi del potere tecnologico. La macchina della nascita così come si configura all’interno del nuovo connubio tra tecnica e biologia, il liberismo riproduttivo strettamente connesso ad un minaccioso liberalismo sessuale, rappresenterebbero una vera e propria tecno-rapina[5] a discapito del corpo femminile, del suo specifico potere riproduttivo e, quindi, il completo compimento dell’assoggettamento della donna al dominio maschile. Sul terreno del pensiero della differenza -  ma senza entrare nel merito della complessa articolazione che questa definizione tenta di ridurre, a cominciare dall’incongrua sovrapposizione tra le esperienze europee e quelle americane – si è invece evidenziato l’importanza del ‘materno’ come luogo materiale e simbolico della specificità della soggettività e del desiderio femminile[6]. In generale è possibile trovare nella valutazione e nel significato assegnato alla tradizione illuminista – al grande disegno razionalista che ha dominato e determinato il pensiero storico, sociale e tecnologico della modernità – il punto di spartiacque all’interno del dibattito femminista sulle tecnologie riproduttive,  rispetto a cui è possibile tracciare alcune seppur sommarie distinzioni della galassia femminista[7].

Alcune delle posizioni del femminismo più radicalmente critiche rispetto alle tecnologie hanno portato in primo piano e sollecitato reazionarie campagne neoconservatrici sui diritti del feto e dell’embrione che hanno spesso minacciato diritti faticosamente acquisiti come l’aborto. D’altra parte l’acritico atteggiamento di incondizionata alleanza con le nuove pratiche riproduttive trasformate in efficaci strumenti capaci di agevolare l’autodeterminazione femminile, rappresenta l’altra sponda di uno sterile irrigidimento del problema in un discorso a favore o contro la tecnica condotta in nome di un’altrettanto inutile difesa dell’idea di ‘natura umana’. Così articolate e arroccate su opposti ma similari fondamentalismi, queste analisi non riescono a coglier la portata del collasso delle categorie classiche della filosofia, dell’etica e della politica, della loro consueta lettura dialettica (natura-cultura, umano/non-umano, soggetto-oggetto), che hanno connotato la modernità e, dunque, non possono in alcun modo gettare nuova luce sulla complessa e contraddittoria epoca ‘biotech’. Anche nel contesto radicalmente complicato dai dispositivi biopolitici e bioeconomici, sembra che l’oscillazione endemica del femminismo – il suo articolarsi in modo oppositivo tra riduzionismo biologico teso a reinventare un ordine naturale del femminile e del materno e una piena inscrizione nelle logiche di mercato che le nuove tecniche riproduttive potenziano in modo esponenziale – non riesca a produrre punti di vista strategici sulla tendenza genetico-centrica quale cifra dell’effettività culturale della postmodernità.

Tuttavia sono molti i passi laterali che prendono le distanze dalla rigida sterilità di questo schema che abbiamo solo accennato nelle sue posizioni di fondo[8]. Nel breve spazio di questo intervento prenderemo in analisi alcuni punti cruciali dei contributi, affini ma non similari, di Donna Haraway e delle cyborg culture e delle analisi del pensiero nomade di Rosi Braidotti. Entrambe partono dal rifiuto dell’individualismo liberale e dell’universalismo morale e da radicali critiche epistemologiche al dominio dell’informazione, pur senza cedere in modo inerziale al nichilismo postmoderno e al relativismo etico. All’apoliticità come destino inaggirabile delle nostre società postindustriali e postmetafisiche. Entrambe si inseriscono in una linea che a partire dalle analisi di Foucault e da un terreno materialista compie significativi e produttivi spostamenti rivolti al pensiero dell’immanenza deleuziano[9], ai processi del divenire della soggettività e ad etiche post-strutturaliste, indicandoci nuove traettorie per la costruzione di una diversa ontologia politica.

 

2. Il corpo femminile tra virtualità e immanenza.

 L’incrocio, problematico e irrisolto, del macchinino e del vivente e, in ultima analisi, del rapporto tra politica e vita inscritto nel quadro dell’attuale capitalismo avanzato che ne riconfigura completamente la connotazione di senso anche rispetto all’approccio biopolitico foucaultiano è esattamente la ‘prima mossa’ del pensiero cyborg. La particolare combinazione dei due termini, vita e politica, è radicalmente riletta alla luce dell’attuale epoca post-moderna che codifica la vita e produce permanenti ibridazioni tra territori che oltrepassano il semplice rapporto analogico.

Con estrema chiarezza Haraway annuncia nelle prime pagine di Manifesto cyborg: “È il momento di scrivere “La morte della clinica”. I metodi clinici richiederebbero corpi e lavoro, mentre noi abbiamo testi e superfici”[10]. Pur muovendo dalle analisi foucaultiane sul biopotere come dispositivo politico ed epistemologico segnato da un indistricabile doppio movimento (politica sulla vita e della vita) e dalla centralità del corpo nelle tecniche di presa e costruzione dei regimi di sapere-potere, le analisi delle tecniche postmoderne di individuazione spingono Haraway a guardare oltre le pratiche di normalizzazione e medicalizzazione indicate da Foucault[11].

Lo snodo che permette il passaggio ad un altro paradigma interpretativo è precisamente il modo in cui è pensato il corpo come oggetto privilegiato del biopotere, il regime spazio-temporale entro cui si snodano i diversi processi costitutivi dell’organismo vivente e, quindi, la relazione stessa tra tecnica e corpo, politica e vita. Per certi versi – come evidenzia Esposito – il corpo, nell’analisi di Foucault, “conserva una caratterizzazione unitaria” ed è posto in relazione ancora analogica con la tecnica[12]. Sul piano ontologico, esso è ciò che viene prima, che fornisce, in un certo senso, il supporto e il piano entro cui si inscrivono i vari esercizi e interventi tecnologici. In altri termini, biologia e tecnica non si fondono in una miscela che sconnette radicalmente i confini tra ciò che è organico e inorganico, animale e umano. Il corpo foucaultiano, come quello che emerge dalle analisi di Canguilhem[13] di cui Haraway fu allieva, è sì l’entità bioculturale per eccellenza, la soglia e il laccio di una duplice connotazione – la trascendenza della soggettività, il piano in cui si inscrive la costruzione dell’identità e la materia empirica dell’organismo vivente – sottoposta a diverse forme di verità e di saperi – dall’anatomia clinica alla psicoanalisi alle bioscienze – ma a mutare è il senso e il modo, la ‘superficie profonda’, di tale apertura.

Le nuove tecnologie bioniche, l’elettronica, l’informatica, l’ingegneria dell’informazione costruiscono corpi codificati, testi ‘organici’ e semiotici mutanti, esposti in modo sostanziale all’instabilità di una permanente modificazione. “Avere un corpo è protesi significante”[14] – scrive Haraway – a voler indicare che il nuovo sembionte, non più l’homo tecnologicus ma il cyborg, generato dallo sconfinamento di tecnologia e corpi, dalle loro continue trasposizioni, possiede capacità cognitive e percettive radicalmente inedite e impreviste. I corpi  cyborg, dunque, sono corpi tecnicamente mediati che riflettono a pieno l’intreccio tra virtualità e immanenza, che rompono con le narrazioni del soggetto unitario e si impongono come processi di soggettività incarnate, instabili e dalle mille sporgenze. D’altra parte, come ha messo in luce Rosi Braidotti nel suo recentissimo lavoro[15] – la chiave per comprendere la genetica è il processo stesso, le trasposizioni, i salti dissociativi e gli spostamenti interdipendenti dei diversi elementi.

Il corpo cyborg come la soggettività nomade traducono l’urgenza di una nuova ridefinizione del potere e della politica nell’epoca della codifica della vita. In Haraway il paradigma del biopotere transita nell’epoca dell’informatica del dominio. Una rete di slittamenti e di dicotomie, materiali ed ideologiche, che non produce, però, alcuna falsa contrapposizione tra categorie naturali e tecniche, ma che rende ben conto di un sistema informatico polimorfo, di un campo operativo ben più potente dello scenario biopolitico foucaultiano ridefinito alla luce di un capitalismo ‘a circuito integrato’, dal prevalere dei saperi immunologici rispetto a quelli della microbiologia e della biologia come iscrizione più che come pratica clinica[16].

Tenendo fermo il costituirsi parallelo dell’oggetto di governo e delle tecniche per governarlo che costituisce la cifra delle analisi foucaultiane del dispositivo biopolitico, il biotecnopotere rivela nuove tecniche di individuazione, nuovi governi e tecnologie politiche sulla vita. Le pratiche amministrative e terapeutiche di sorveglianza e disciplina dei corpi descritte da Foucault poggiano – secondo Haraway – su una visione ottocentesca della produzione e della vita e si riferiscono a figura inserite in una temporalità evolutiva, tipica della ‘narrativa salvifica’ del realismo cristiano e dell’umanesimo tecnoscientifico[17]. I corpi disciplinati, assoggettati a tecniche di normalizzazione hanno a che fare con la salute e la degenerazione, con le “patologie e le efficienze della produzione e della riproduzione”. Ma Foucault “nomina una forma di potere al momento della sua implosione”[18]. Il potere non agisce più normalizzando l’eterogeneità né automatizzando i corpi, discriminandoli. Opera, invece, attraverso la permanente riprogettazione delle comunicazioni, della loro diffusione che produce l’eterogeneo stesso. Si radica nell’infinita scomposizione e moltiplicazione del corpo, delle sue aderenze alla trama nomadica e molteplice del reale e dell’immaginario. Così come la moltiplicazione delle differenze nell’interesse della mercificazione e del profitto è il risvolto bioeconomico di questo processo all’interno dell’economia globalizzata[19]: “Il discorso della biopolitica lascia il posto al balbettio incoerente della tecnologia”[20]. Ad un nuovo regime spazio-temporale abitato dai cyborg del terzo millennio: il tecno-bio-potere. Una temporalità che si scioglie e si ricoagula, si fonde ed esplode per ricondensarsi in altre forme, seguendo altri flussi di informazioni, altri circuiti socio-tecnici che prendono a circolare configurando in maniera nomadica la rete globale della postmodernità. Questa trasformazione si riflette sui criteri di individuazione del soggetto politico e travolge gli stessi regimi discorsivi sul corpo. Così dagli spostamenti che Foucault registra – dalla razza, al popolo come soggetto di diritto, alla popolazione come soggetto bio-economico –  Haraway  punta lo sguardo non tanto sui luoghi e le modalità attraverso cui il corpo diventa oggetto politico, ma sulle dinamiche, i processi mai univoci attraverso cui la vita è messa in questione, decentrata, ridefinita dai saperi biotecnologici. In questa nuova logica di negoziazione dei confini sulla e della vita, il corpo femminile – come luogo della forza vitale e della sua infinita riproduzione – rappresenta una minaccia e dunque una risorsa importante nello scenario bioeconomico.

 

3. La moneta sonanate del Bios.

Per Haraway, quindi, la caratteristica principale del tecno-capitalismo è quella di ‘liberare l’eterogeneità senza norma’, di sbriciolare le soggettività, tenderle come reti in cui circolano verità e organi, espropriazioni e resistenze. Connetterle in modo policentrico a diversi schermi, sintassi, circuiti. “Nessun nome viene lasciato integro dalle multinazionali”: è il tecno-balbettio dei sostantivi allacciati da un trattino, pronti ad essere sciolti e ricomposti. In questo tessuto aperto – spiega Haraway – il capitalismo accumula secondo altre modalità rispetto alle logiche descritte da Foucault così come gli abitanti di queste storie mutanti investono, sul piano psichico e commerciale, seguendo altre dinamiche.

Il concetto di biopolitica ricombinante[21], che opera la ridefinizione della vita come testo, alterando e travalicando gli stessi confini del corpo, grazie alle nuove frontiere della biologia molecolare e della digitalizzazione, ci mostra un’altra faccia della biologia. Non si tratta più solo di una scienza che registra e documenta i processi vitali, ma una vera e propria scienza della trasformazione che crea la vita. E’ chiaro che questa intensa fabbricazione della vita, la sua strumentalizzazione, non può certo essere separata dalla sua capitalizzazione. A tal proposito, più di dieci anni fa, Haraway si chiedeva: “In che modo può essere utile il mio sospetto, sempre più radicato, che la “biologia” – tanto le incarnazioni concrete, quanto il discorso tecnoscientifico che posiziona tali corpi – sia una strategia di accumulazione?[22]

In effetti, la domanda travalica di molto la ben più plausibile affermazione secondo cui la biotecnologia – “discorso e corpo costituiti come biotecnica” – riveli, con grande rapidità, la sua valenza economica. Non si tratta, in altri termini, di evidenziare come il potere biotecnologico rappresenti una tecnologia politica che manipola, assembla e riconfigura le stesse componenti cellulari, la materia organica degli esseri viventi, costruendo prodotti dal valore direttamente finanziario – si pensi ai brevetti farmaceutici e, più in generale, relativi al Genome Project [23] – e come nuove razionalità governamentali siano applicate a forme della cittadinanza fondate sui concetti di empowerment e benessere individuale[24]. Non si tratta neppure di evidenziare come l’anatomo-politica e il controllo demografico, integrati ad una politica molecolare, apra una prospettiva genetica sui singoli, collocandoli in ‘pool genetici’[25].

Ma allora cosa significa governare ‘con l’economia’ nell’epoca della codifica della vita? Come cambia la relazione tra le dinamiche di accumulazione, produzione e gestione delle risorse ‘vitali’ da parte del capitalismo e dei suoi diversi sistemi, dinanzi alle nuove frontiere che emergono nel campo delle scienze della vita? Cosa vuol dire potere bioeconomico sulla vita[26] nel mercato del capitalismo avanzato in cui la sfera dell’economico e la produzione di soggettività si innestano l’una sull’altra senza lo spazio delle mediazioni classiche, nel segno di una continua ambivalenza tra crescita delle capacità di sfruttamento e occasioni di pratiche di liberazione? Fuori da qualunque approccio moralistico, queste domande delineano un campo di indagine che mira a definire le dinamiche del biocapitale come forma specifica del capitale nello spazio biopolitico. Un nodo essenziale di questo approccio è quello di mettere a fuoco il concetto di biovalore.

Questo termine non indica solo  i modi in cui le tecniche biomediche  intensificano e moltiplicano la forza e le forme della vitalità  per ordinarle come se fossero un’economia, un sistema calcolabile e gerarchico di valore[27]. Le forme più produttive di biovalore emergerebbero, stando a questa definizione, dall’adattamento di entità viventi a codici relativi a economie bioinformate del valore che convergono con le economie del capitale. Su questa linea – come è messo in evidenza dal più recente dibattito anglo-americano[28] che il discorso di Haraway per molti aspetti anticipa – le biotecnologie e le sue applicazioni rappresentano il canale per risalire al cuore della conformazione stessa del biocapitalismo: la vita è valore in sé, ‘moneta sonante’.  Se questa affermazione è inserita all’interno di una visione poststrutturalista del potere come rete non dialettica di relazioni, il rapporto tra vita e biotecnologie ci mostra un’altra faccia che spazza via – come evidenzia Braidotti[29] – l’ultimo residuo umanista del concetto di biopotere foucaultiano. La forza del bios diventa il centro della riconfigurazione complessiva degli spazi sociali e politici contemporanei in un senso molto più radicale. La vita non è semplicemente il nuovo campo di interesse del capitale oggetto delle tecnologie di cattura e potenziamento del capitalismo avanzato, ma emerge come soggetto di processi politici, un soggetto non-umano. Si tratta di una prospettiva radicalmente postumanista che consente di  con l’individualismo liberale che schiaccia il discorso etico-politico all’interno della cornice classica della responsabilità kantiana e del giudizio razionale. Sul piano del pensiero femminista apre la possibilità di pensare dall’interno, ma in modo critico, il nuovo posizionarsi del corpo della donna in rapporto alla sua  metabolizzazione nel mercato biotecologico e all’istituzione della femminilità.  Dalla potente complessità delle tele ipertestuali e material-semiotiche che costituiscono il processo di ‘corporealizzazione’, del modo in cui la ‘vita stessa’ – « materializzata come informazione e significata dal gene»[30] – è costruita e commercializzata emergono nuove prospettive etiche e nuove pratiche di agire politico che favoriscono il costituirsi di ‘connessioni creative’ di saperi situati, di ‘politiche delle affinità’, di posizionamenti e di valori etici capaci di rispondere alla complessità e di pensare i processi di soggettivazione tecnobiopolitici come aleterazione nel senso di una radicale apertura all’altro da sé.

 

4. Connessioni creative: biotecnologie, etica e azione politica.

Come ha evidenziato R. Esposito[31], la riscrittura harawayana del corpo tecnicamente mediato, dello statuto ontologico della soggettività consente di spingersi oltre il terreno autodistruttivo e tanatologico del dispositivo immunitario che regola e costruisce la vita dell’individuo e della società e che, nell’epoca contemporanea, assume toni emergenziali e securitarie sempre più drammatici. L’intera dinamica immunitaria prende una diversa configurazione rispetto alla semantica militare restituitaci dal sapere scientifico e politico,  se si assume l’identità, il corpo, l’umano come permanente alterazione, sconfinamento perpetuo nell’altro da sé. L’altra faccia della semantica immunitaria che rivela l’intrinseca ambivalenza delle sue dinamiche, il suo rovesciamento in senso comunitario, può essere pensata in termini di un’immunità comune[32]. Una prospettiva che riapre la relazione tra tolleranza e immunità e che l’ibridazione radicale delle soggettività e dei corpi delle figurazioni cyborg, della filosofia nomadica, riarticolano secondo altre dinamiche e processi.

La fase tecnologicamente guidata in cui i nostri corpi sono inscritti e costantemente rinegoziati in termini di confini e di spazi, di autonomia e di libertà, di scarti e di cattura, in cui l’asse di distinzioni tra identità e differenze è costantemente ridefinito secondo logiche immanenti si fa urgente immaginare una nuova ontologia politica, altre forme di azione e di collaborazione, di pratiche di ricerca e di produzione culturale capaci di ‘situarsi’ in questo complesso sistema di ‘conoscenza-comando-intelligenza’. L’economia politica dell’amministrazione del rischio e dell’imposizione della sicurezza – che si riflette in modo emblematico sui corpi materni delle donne – richiede non solo cittadini informati ma responsabili. I saperi biomedici, d’altra parte, e le illimitate possibilità di riconfigurazione della relazione tra produzione e riproduzione che ci espongono come individui e come specie alla radicalità delle questioni ‘vitali’, si sviluppano continuamente nuovi diritti e doveri morali.

N. Rose descrive questo scenario nei termini di ‘etopolitica’[33] in cui “la vita stessa, così com’è vissuta nelle sue manifestazioni quotidiane, è l’oggetto permanente di una decisione” e richiede una forma di generalizzata e auto realizzata cittadinanza biopolitica. Ma gli strumenti offerti dell’etica liberale fondata sui diritti e sulla spesso astratta richiesta di giustizia sociale ed economica possono bastare a rispondere alla complessità della nostra epoca? Come può un soggetto destrutturato, aperto ai dinamici percorsi di soggettivazioni bioeconomiche, fornire valori incarnati per un’esistenza comune, diventare soggetto etico in maniera situata e responsabile? E inoltre, è possibile delineare un progetto politico comune quando la lotta per la sopravvivenza – materiale e simbolica – sembra inesorabilmente disarticolare ogni tessitura del comune? Esiste un ‘potere’ della sopravvivenza che, radicandosi nella maglia eterogenea dei processi di costruzione del sè, nella relazione ambivalente tra vita e norme, identità e differenza, sappia disarticolare la logica oppositiva di libertà e oppressione in nome di progetti politici di confine? A queste domande la filosofia nomade di la filosofia nomade di Braidotti tenta di rispondere. La strada indicata è quella di un’etica positiva del divenire che non ceda al ricatto di un vitalismo essenzialista, e che si sviluppi a partire da un approccio materialistico con l’affettività.

Un’eco-filosofia dell’appartenenza e della trasformazione. Atti di creatività frutto di una profonda saldatura tra etica e azione, che creino diffrazioni persistenti all’interno di un piano di  oggettività e universalità in netta contraddizione con un mondo socio-tecno-politico basato sull’assenza di un centro. Un’etica incarnata e immanente che usi la forza di politiche e saperi ‘glocali’. Un taglio sagittale nella presunta compattezza dell’ordine epistemico della verità scientifica, del piano ideologicamente unitario della realtà,  che manifesti il potenziale creativo delle soggettività ibride, di differenti figure del discorso e possibilità storiche. Da qui la connessione biotecnologie-etica e azione politica acquista una nuova rilevanza.  Il discorso di Haraway, il suo invito a pensare al piacere di confondere i confini non senza la responsabilità di costruirli, smaschera l’irrazionalità e l’ipocrisia delle politiche della riproduzione che continuano faticosamente a  rifarsi ai concetti di sesso o di ruoli sessuali in quanto declinazioni organiche di oggetti ‘naturali’ come le famiglie. Secondo una linea femminista non naturalista e utopica Haraway immagina “un mondo senza genere che forse è un mondo senza genesi, ma può essere anche un mondo senza fine”.[34]

 

 

* in “Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione”, a cura di A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicchi, A. Tucci, Quodlibet, Macerata, 2008.

 

 

 

 



[1] D. Haraway, Manifesto Cyborg (1991), tr. it. a cura di L. Borghi,  Feltrinelli, Milano, 1995;  Id. Testimone—Modesta@FemaleMan©—incontra—OncoTopo. Femminismo e Tecnoscienza, (1997), tr. it. A cura di L. Borgi, Feltrinelli, Milano, 2000; Id., Simians and Cyborg. The Reinvention of Nature, Free Association Books, London, 1991.

[2] Cfr. F. Fukuyama, Our posthuman future (2002), tr. it., a cura di G. Della Fontana, L’uomo oltre l’uomo, Mondatori, Milano, 2002; J. Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino, 2002.

[3] B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico Sull’abuso del concetto di vita, Bollati Boringieri,Torino, 1991 e la più recente raccolta di saggi apparso in edizione italiana con il titolo Il gene in testa e il feto ne grmbo, Bollati Boringhieri,Torino, 2006.

[4] G. Corea, The Mother Machine: Reproductive Tecnologies from artificial insemination to Artificial Wombs,The Woman Press, London, 1988.

[5] Cfr. A. Di Pietro e P. Tavella, Madri selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile, Einaudi, Torino,2006.

[6] Per una ricostruzione del dibattito italiano sul pensiero della differenza cfr. AA.VV. Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, 2003. Inoltre cfr. A. Cavarero, Corpi in figura. Filosofia e politica della corporeità, Feltrinelli, Milano, 2000; L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma, 2006; I. Irigaray, Io, tu, noi. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.

[7] Cfr. S. Harding, The Science Question in Femminism, Open University, London, 1986.

[8] Per una ben articolata cartografia del rapporto tra femminismo e tecnica si rimanda a R. Braidotti, La molteplicità: un’etica della nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea, in D. Haraway, Manifesto Cyborg., cit., in part. pp. 25-31.

[9] Sul concetto di immanenza in Deleuze cfr. almeno, G. Deleuze, Différence et ripetition (1968), tr. it., Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano, 1977 e Id., Qu’est-ce que la philosophie? (1991), tr. it., Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino, 2002.

[10] D. Haraway, Manifesto cyborg, cit, nota 8, p. 88.

[11] Cfr. M. Foucault, tr.. it. a cura di A. Fontana, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino, 1998; Id.,  Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975), tr. it., di Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976 e Id., Volonté de Savoir (1976) tr. it a cura di P. Pasquino e G. Procacci,  La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1997.

[12] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002, p.174.

[13] Cfr. G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 1998  e Id., Sulla medicina. Scritti 1955-1989, Einaudi Torino, 1998.

[14] D. Haraway, Manifesto cyborg. cit.,  p. 119.

[15] R. Braidotti, Trasposizioni, Sull’etica nomade, Luca Sossella Editore, Roma, 2008, p. 16. Cfr. anche, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea , La Tartaruga,  1994; Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma, 1995; Madri, mostri, macchine, Manifestolibri, Roma, 1996 e Nuovi soggetti nomadi, Luca Sassella, Roma, 2002.

[16] D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., pp. 55-62.

[17] D. Haraway,Testimone—Modesta@FemaleMan©—incontra—OncoTopo, cit.,  pp. 39-40.

[18] D. Haraway, Manifesto cyborg, cit., nota 8 p. 88.

[19] R. Braidotti, Trasposizioni, cit., p. 109.

[20] D. Haraway, Manifesto cyborg, cit., nota 8 p. 88.

[21] M. Dillon, J. Reid, Global Liberal Governance: Biopolitics, Security and War, “Millennium Journal of International Studies”,2001, 30, pp. 41-66, in part. p. 44.

[22] D. Haraway, Testimone—Modesta@FemaleMan©—incontra—OncoTopo. cit. p. 42.

[23] Sui rapporti tra disciplina brevettale e le nuove applicazioni alla materia vivente e sul diverso approccio, europeo e statunitense, alla problematica questione si rimanda al recente, Brevetti e biotecnologie, a cura di G. Ghirini e G. Cavani, Luiss University Press, Roma, 2007.

[24] Cfr. N. Rose, Powers of Freedom. Reframing political thought, University of Cambridge, Cambridge 1999.

[25] M. Flowers, D. Heath, Anotomo-politics: Mapping the Human Genome Project, “Culture, Medicine and Psychiatry, 17, 1993, pp. 27-41.

[26] Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006. Cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.

[27] C. Waldby, The Visible Human Project: Informatic Bodies and Posthuman Medicine, Routledge, New York-London, 2000, in part. p. 33.

[28]K. S. Rajan, Biocapital. The Constitution of Postgenomic Life, Duke University Press, Durham-Londra 2006 e a P. Rabinow-N. Rose, Thoughts on the concept of biopower today, in “Biosocieties: An Interdisciplinary Journal for the Social Study of the Life Sciences”, 1, Cambridge University Press, 2006, pp.195-218

[29] R. Braidotti, Trasposizioni, cit., p. 69 e ss.

[30] Franklin, Global Nature, Global Culture, Sage, London, 2000.

[31] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita,  Einaudi, Torino,2002, in particolare il cap. IV,  pp. 173-212.

[32] Ivi, p. 198 e ss.

[33] N. Rose, The Politics of Life Itself, Theory, in “Culture & Society”, vol. 18, n. 6, 2001, pp. 1-30.

[34] D. Haraway, Manifesto cyborg, cit., p. 41.

 

 

 

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