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Che genere di riforma è questa?

 

Intervista ad ALISA DEL RE e CRISTINA MORINI – di EMILIANA ARMANO e ANNALISA MURGIA

Emiliana Armano – La riforma del mercato del lavoro, in  discussione  in parlamento, secondo noi acuirà la flessibilizzazione dei lavoratori e le lavoratrici. Contemporaneamente il governo sta mettendo mano al welfare con tagli e modifiche che,  dietro le parole “maggiore equità”, “superamento del dualismo” e “pari opportunità”, nascondono ancora una volta- forti ricadute di genere, oltre che generazionali.

Le novità di genere introdotte nella riforma, ossia le misure di contrasto alla prassi delle dimissioni in bianco delle donne, ci sembrano modeste[1] soprattutto a fronte della riforma degli ammortizzatori sociali, dell’articolo 18, dell’estensione dell’apprendistato e della maggiore libertà di licenziamento.  Tutte proposte che, superata al ribasso la riforma dell’articolo 18 che ha monopolizzato il dibattito pubblico, ricevono consensi trasversali e quindi plauso anche dal centro sinistra.

Qual è il vostro giudizio sullo stato delle cose e del dibattito?

Alisa Del Re – Quando Ilvo Diamanti scriveva su Repubblica che la famiglia in Italia è l’unico ammortizzatore sociale, pensava ai giovani che trovano solo lavoro precario e non alle donne che garantiscono con il lavoro gratuito di riproduzione, i servizi mancanti, la scarsa attenzione alla cura delle persone dipendenti, la sopravvivenza nella precarietà. Sono le donne infatti – per ruolo sociale e non certo per vocazione – che riescono a colmare la distanza stellare tra lavoro salariato e vita delle persone.

Nella vulgata dell’attuale dibattito il lessico che si usa più spesso è quello della ricerca dell’equità tra generi e generazioni. Intanto bisogna capire di cosa si parla: i professori al governo non scelgono parole a caso. Equità non è uguaglianza. Equità è dividere la torta che c’è in parti forse uguali, ma a prescindere dalla dimensione della torta e da quello che uno ha mangiato prima. Equità non è tensione verso un cambiamento dei rapporti sociali e dei rapporti tra i sessi. Equità è accettazione dei fondamenti sia dello squilibrio della redistribuzione della ricchezza sia dello sfruttamento, che restano immutabili. Si apriranno, probabilmente, anche alle donne i cancelli dei lavori flessibili, consentendo loro con politiche di “conciliazione” (come se fino ad ora le donne non avessero “conciliato”) di continuare ad essere i veri ammortizzatori sociali. E questo accadrà proprio perché è dimostrato che mettere al lavoro le donne aumenta il PIL (Goldman Sachs arriva ad ipotizzare un aumento del 22% del Pil in caso di partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro), aumenta la massa salariale, aumenta la domanda, insomma instaura un circolo “virtuoso” di sviluppo, senza troppi scossoni per il capitale[2]. Aggiungendovi le comprovate “competenze femminili” (che sono competenze derivate dalla cura), utili per uno sviluppo possibilmente senza conflitti.

Partendo dall’assunto che non necessita di dimostrazioni che ciascuno di noi ha “bisogno di cura” e superando il falso assioma liberista dell’autonomia dell’individuo, per predisporre politiche innovative dovremmo assumere che ciascuno di noi ha nella vita il compito di “prendersi cura” di altri, quindi ha bisogno di tempo, di relazioni, di socializzazione di vita. Tutti gli ECHI (European Community Health Indicators)[3] ci dicono che esiste un aumento considerevole dell’indice di dipendenza delle persone (nella maggior parte dei casi per l’invecchiamento della popolazione e per l’aumento della durata della vita). Essendo necessario soddisfare una maggior domanda di assistenza, servirebbe una ridefinizione e una riorganizzazione del welfare. Ma non esiste un disegno del sistema di welfare in cui i livelli essenziali di prestazioni siano definiti e in cui i poteri e i doveri dei vari livelli di governo siano chiari e inequivocabili[4].

Qual è la base dei bisogni considerata, quali sono le risorse dedicate, dove cessa il principio di sussidiarietà per affermare un diritto universale? L’attuale pacchetto di riforma del mercato del lavoro adombra il ricorso al mercato “sociale” (voucher per i lavori di cura) lasciando però irrisolto il problema del reddito da utilizzare per servirsene. Inoltre scivola elegantemente sulla relazione tra lavoro e riproduzione degli individui, che però costituisce il fondamento della vita quotidiana delle donne, aggiungendo la beffa del congedo di paternità di soli tre giorni, valido dal 2013 al 2015. Difficilmente questa breve “vacanza” potrà favorire “una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli” (art. 56).

Per quanto riguarda l’abolizione delle dimissioni in bianco, la prevista sanzione amministrativa da 5.000 a 30.000 euro, è debole e molto peggio della precedente legge n.188 del 2007 che prevedeva la nullità delle dimissioni se non si fossero usati moduli con data validata telematicamente 15 giorni prima del auto licenziamento: praticamente una autorizzazione a licenziare previo pagamento.

Cristina Morini – Le donne italiane sono state, nel corso degli ultimi decenni, completamente consumate, svuotate, e aggiungerei fortemente demotivate, da lavori “flessibili” rivelatisi non in grado di favorire la “conciliazione”, ma viceversa di complicare i piani dell’esistenza. I numeri rischiano di essere solo depressivi anche perché vengono usati e citati da tutte le parti e contemporaneamente non si fa alcunché perché cambino. È come se, nella loro supposta scientificità, volessero inchiodarci alla evidenza della “sfortuna”.

Tuttavia, se vogliamo parlare di numeri, da un’elaborazione compiuta a partire da dati Istat, sull’intero territorio italiano il numero reale delle disoccupate (disoccupate a cui si aggiungono le scoraggiate, cioè persone che un lavoro non lo cercano più) ha raggiunto, nel 2011, la cifra di 2.184 milioni (nel 2004 erano 1,7 milioni) rappresentando il 18% del tasso di disoccupazione reale (i maschi sono 1,793. Il tasso di disoccupazione maschile è al 10%. La disoccupazione complessiva reale in Italia è di 3,977 milioni di persone). Come si vede, queste cifre che sono circa il doppio di quelle ufficiali.  Tra i giovani (18-29 anni) la quota di ingresso al lavoro cosiddetto standard (tempo pieno e tempo indeterminato) si sta progressivamente riducendo: se nel primo trimestre del 2008 essa rappresentava il 25,9% contro il 53,3% degli atipici, nel giro di due anni (I trimestre 2010) la quota standard si è ridotta al 15,7% e quella atipica è salita al 60,1. Tra essi le donne sono la maggioranza, sovrastando di oltre cinque punti percentuali gli uomini.

Dall’inizio dell’anno in Italia si sono contati 23 casi di suicidio collegati alla crisi economica, nove in Veneto. (aggiornare i dati o mettere in forma più generica). Cinquanta le vittime negli ultimi tre anni, con un aumento del 24% rispetto al 2008.

La riforma si va a inserire in un contesto degradato e impoverito. E non invertirà la tendenza generando “buon lavoro” per i giovani perché impone un allargamento di diritti oppure perché elimina esplicitamente il ricorso a qualcuna delle tipologie contrattuali oggi vigenti, neppure la pratica scandalosa dello stage gratuito e reiterato post laurea: esse rimangono invariate (con la sola eccezione del contratto di inserimento, sostituito dall’apprendistato). Ciò significa che nella sostanza non cambierà la situazione attuale delle lavoratrici e dei lavoratori. Inoltre, l’istituzione della possibilità di ricorrere al licenziamento individuale per ragioni economiche, allargherà la precarizzazione ovvero amplierà i meccanismi di dipendenza e di ricatto del lavoro.

Tutto questo senza che siano state pensate appunto nuove forme di assicurazione adeguate al contesto, ed è questa forse la cosa veramente paradossale dell’impianto. L’Assicurazione sociale per l’impiego, visti i requisiti richiesti per accedervi, continuerà ad escludere tutti quelli che erano già esclusi prima da qualsivoglia ammortizzatore sociale, collaboratori, partite Iva, lavoratori a chiamata.

Ecco così che i problemi trascinati con sé da questo “mercato del lavoro” eccedono i confini loro propri, minando progressivamente e pericolosamente le ragioni stesse della convivenza, dei legami basilari tra esseri umani, della socialità, con un aumento della violenza, dei disagi, dello stress “da lavoro correlato”. L’innalzamento dell’età pensionabile delle donne e la riforma delle pensioni vanno nello stesso senso, ovvero verso una mancanza di equità (essa penalizza i giovani) e verso una devalorizzazione della vita, del valore sociale dei lavori delle donne.

Lo scivolamento ulteriore verso il basso delle già complesse condizioni di vita delle donne invertirà drasticamente (e tristemente) il loro processo virtuoso di liberazione dalla famiglia, dagli stereotipi prefissati e da un orizzonte “destinale”, processo avviato dalle generazioni precedenti che era stato capace di introdurre nuovi discorsi e di liberare desideri, nel lavoro e oltre il lavoro. Un esempio: in quasi tutti i paesi dell’Unione europea le donne inattive ma tuttavia disponibili, in rapporto alle forze lavoro, sono più numerose degli uomini. Nel nostro Paese però la differenza è più ampia: il 16,8% delle donne rispetto al 7,9% degli uomini (Istat, tasso di disoccupazione 2011).

Annalisa Murgia – Persone con sempre meno diritti, con salari più bassi e dunque più povere: i cosiddetti working poors aumentano rapidamente in tutta la zona dell’Euro. Il discorso pubblico istituzionale sulla meritocrazia ha come implicito che i poveri sono poveri perché non si impegnano abbastanza, legittimando un’idea (e una politica) che vede l’accesso a beni primari come salute, istruzione, casa, maternità vincolato a un’idea di “merito” come capacità economica. Pensiamo però che a questa logica occorra sottrarsi. La relazione tra condizioni sociali e diritti della persona dovrà cercare nuovi modi per esprimersi. In questo contesto il diritto di cittadinanza o il diritto all’esistenza diventa di primaria importanza, non solo come elemento di giustizia redistributiva, ma come rivendicazione di un bene comune. L’attuale ministra del welfare Elsa Fornero alla sua prima uscita europea ha dichiarato che l’intenzione del Governo era quella di andare nella direzione dell’inserimento di un reddito minimo garantito, presente in diverse forme in tutti i paesi europei, fatta eccezione per Italia, Grecia e Ungheria[5]. Tuttavia nella riforma del lavoro non ce ne è traccia. Cosa ne pensate? Uno sguardo di genere potrebbe aiutare a ripensare i rapporti dei soggetti con il lavoro e con la società, con un’attenzione rinnovata, e davvero globale, per i beni comuni?

Alisa Del Re – La maggior parte dei poveri del mondo sono donne[6]. Nel mercato del lavoro, siano esse occupate o in cerca di occupazione, esse sono 1/3 della forza-lavoro riconosciuta, ma il lavoro effettivamente da loro svolto a livello mondiale rappresenta i 2/3 del totale.

Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto redatto dalla fondazione Cittalia dell’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) su dati dell’Istat, rileva la grande povertà delle madri italiane, sia che vivano in coppia sia che siano a capo di una famiglia mono-parentale. Nell’Italia che ha il tasso di disoccupazione giovanile più alto d’Europa, dopo la Spagna, una donna su due è senza lavoro e il tasso di disoccupazione femminile (29,4%) supera quello maschile (26,8%) di 2,6 punti. Per le (relativamente poche) donne che hanno un lavoro salariato la media di salario è inferiore rispetto agli uomini: 1.407 euro per gli uomini, 1.131 euro per le donne. Le differenze salariali in percentuale si registrano attorno al 22% in meno per le lavoratrici dipendenti e un 27% in meno per quelle autonome rispetto ai colleghi maschi. All’interno del rapporto tra lavoro salariato e lavoro di riproduzione, i congedi parentali (da sottolineare che solo 10% dei dipendenti che hanno usufruito dei congedi parentali è di sesso maschile, mentre tra le lavoratrici autonome l’adesione è pari al 100%)[7] vengono retribuiti con il 30% del salario. Anche le pensioni delle donne, dato un percorso lavorativo spesso “a salti” e con part-time, sono più basse della media.

Con l’attuale riforma del mercato del lavoro  si potrà assumere mediante contratti da un giorno fino a sei mesi senza alcuna motivazione, senza limiti percentuali, senza prospettive e senza tutele: questo riguarderà in particolare coloro che hanno obblighi e responsabilità al di fuori del mercato, nella riproduzione di sé e degli altri e non sono in grado (o non vengono concepiti in grado) di garantire continuità nel rapporto di lavoro.

Non è difficile capire che più che una criticità (reale) del rapporto delle donne con il mercato del lavoro esiste una concreta criticità di reddito, che deve necessariamente essere affrontata.

Finché si continuerà a pensare che il centro delle politiche debba essere il lavoro e non la vita delle persone, sarà complicato immaginare qualcosa di diverso dall’assistenza a periodi di “non lavoro” o alle “persone senza lavoro”. Nelle nuove costituzioni dell’America latina emerge sempre più l’esigenza di definire il “vivere bene”, che non vuol dire avere un lavoro, ma avere relazioni e diritti che garantiscano l’esistenza di tutti. Riferirsi solo al lavoro salariato vuol dire pensare a un individuo adulto e riprodotto, autonomo, vuol dire centrare l’orizzonte del cambiamento sociale senza prendere in considerazione tutti coloro che dipendono da altri. Keynes e Marshall quando pensavano a una società di piena occupazione, pensavano in realtà a forme gerarchiche di dipendenza, in cui le donne dipendevano dal salario del marito o del padre e garantivano i diritti dei malati, dei vecchi e dei bambini.

Oggi la preoccupazione maggiore dell’Europa e della contrattazione governo-sindacati-confindustria in Italia sembra essere la “messa al lavoro” di giovani e donne, senza mai prendere in considerazione “a quali condizioni” questo dovrebbe avvenire. Una “messa in comune” della riproduzione degli individui non è solo condivisione tra i sessi e non passa solo attraverso un potenziamento dei servizi sociali (peraltro necessario): richiede un riconoscimento della socializzazione del diritto all’esistenza. Non è un caso che in tutto il femminismo italiano oggi il tema della cura sia il tema dominante[8], subordinandovi il tema del lavoro e del suo mercato che – e su questo c’è un accordo con la contrattazione in atto – deve essere rivisto e ricontrattato. Si tratta di avere il coraggio di stabilire “come”, senza accettare acriticamente gli aggiustamenti dell’esistente dovuti alla crisi finanziaria.

Cristina Morini – Dovrebbe essere riformulato lo statuto di una nuova cittadinanza sociale che vada a superare la società salariale. Il fatto che i disoccupati raggiungano i numeri che abbiamo citato, oppure che aumentino i giovani Neet (Not in Education, Employment or Training, 2,1 milioni di persone fuori dal circuito formativo e lavorativo, 134 mila unità in più di quello precedente), è significativo del fatto che le categorie occupazione/disoccupazione hanno perso di senso nella società attuale poiché queste persone non sono necessariamente inoperose né indisponibili al lavoro e d’altro lato non trovano occupazioni standard né sono spinti a trovarne. In ogni caso tutte loro oggi hanno come unica rete di protezione eventuale la famiglia, cioè le donne.

Va concepito un sistema di welfare innovativo che tenga conto delle nuove necessità dei percorsi di lavoro/non lavoro, ancorando i diritti ai soggetti e dotandoli dei necessari sistemi di assicurazione per proteggersi. D’altro lato, anche la famigerata lettera della Bce di Draghi e di Trichet menzionava il tema della security sociale che manca, mentre abbondiamo di flex sul mercato del lavoro. Il Parlamento europeo, in una sua risoluzione concernente la lotta contro la povertà nella Comunità europea, ha auspicato l’introduzione in tutti gli Stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società. Un reddito minimo su scala europea procedendo nella direzione già auspicata dal Parlamento di Strasburgo (declinato in varie forme) è già in vigore in quasi tutti i paesi della Ue. La ministra Fornero ha effettivamente citato il tema del reddito agli esordi del suo insediamento. Tuttavia l’invenzione dell’Aspi non assomiglia neppure lontanamente a quella promessa.

Ma c’è anche di più. Oggi, il precariato metropolitano che produce addirittura vivendo, consumando, comunicando, inventando stili, linguaggi, forme di vita, è paradossalmente obbligato a prescindere da qualsiasi forma di distribuzione della ricchezza, costretto dalla condizione precaria ad adattarsi a un regime di tendenziale gratuità del/nel lavoro.

In passato, la classe operaia più cosciente riteneva insufficienti gli aumenti del salario in linea con l’aumento della produttività. Oggi la produttività sociale che ingrassa la finanza deve prescindere da forme minime di distribuzione. Le donne più di altri conoscono questa situazione per aver retto sempre, gratuitamente, la riproduzione e per essere state costrette a partecipare solo in maniera indiretta al welfare fordista, attraverso i mariti-lavoratori, come ha illustrato in modo illuminante Carole Pateman. Non tenere conto di queste nuove variabili, delle nuove figure del mondo del lavoro, delle nuove necessità di welfare che esse generano all’interno del mercato del lavoro stesso, significa che la politica ha deciso di abdicare al proprio ruolo, semplicemente ratificando la divisione decisa dai mercati finanziari tra l’1% di ricchi e il 99% di poveri.


[1] Come anche sottolinea l’articolo redazionale della rivista Ingenere intitolato “Riforma del lavoro: ci basta?”
11/04/2012 [http://www.ingenere.it/articoli/riforma-del-lavoro-ci-basta]

[2] Cfr. Del Boca D., Mencarini L., Pasqua S. (2012) Valorizzare le donne conviene, Bologna, il Mulino; Esping-Andersen G.. (2011) La rivoluzione incompiuta. Donne, famiglie, welfare., Bologna, il Mulino.

[3] Cfr. ec.europa.eu/health/indicators/

[4] Relazione di Linda Laura Sabbadini, direttora dell’ISTAT (Istituto italiano di statistica), Atti degli ‘Stati generali sul lavoro delle donne in Italia’ , Roma, Cnel, 2 febbraio 2012.

[5] http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-12-01/ministro-fornero-reddito-minimo-224658.shtml?uuid=Aa7E2UQE

[6] Secondo il Global Poverty Project esse costituiscono il 70% dei poveri del mondo (http://www.globalpovertyproject.com) e hanno, in media, il 90% dello stipendio di un uomo a parità di lavoro, educazione e formazione.

[7] Fonti dei dati riportati: ISTAT, Rapporto “Noi Italia 2012”; ISTAT, Rapporto sulla coesione sociale, 1 marzo 2012.

[8] Cfr. Il gruppo del mercoledì, La cura del vivere, in Legendaria n. 89, settembre 2011; Libreria delle donne di Milano, Sottosopra, ottobre 2009, Immagina che il lavoro”, la Libera Università delle donne, www.universitadelledonne.it/lavoro_riparliamone.htm; Bettio, Simonazzi “Curiamo la disoccupazione con i lavori di cura” inGenere, 24febbraio 2011.

 

 

 

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