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Cina: epicentro emergente del conflitto operaio mondiale?

 

di BEVERLY J. SILVER e LU ZHANG

1. Dove va il capitale, là corre il conflitto

Che la rapida crescita dell’industria in Cina segni la fine della capacità di resistenza collettiva dei lavoratori nel Nord e nel Sud globalizzati costituisce un tema diffuso nella letteratura sulla globalizzazione. Si sostiene che, con la mobilitazione della vasta riserva di forza-lavoro disciplinata e a buon mercato della Cina, si sarebbe scatenata una vera e propria “corsa verso il fondo”, che produce una caduta inarrestabile del potere e delle condizioni di vita dei lavoratori. Nonostante la sua popolarità nella letteratura, la tesi secondo la quale la mobilità del capitale produrrebbe direttamente una corsa inarrestabile verso il fondo è, dal punto di vista empirico, sospetta. In realtà, dal punto di vista storico, il capitale in modo ricorrente si rialloca geograficamente in cerca di forza-lavoro più docile e a buon mercato, ma finisce col creare nuova classe operaia e nuovi cicli di conflitto capitale-lavoro in ogni sito di produzione prescelto. Se guardiamo globalmente sia alla storia della diffusione della produzione tessile di massa dalla sue origini nel Regno Unito fino all’ultima parte del diciannovesimo e alla prima del ventesimo secolo, sia alla produzione di massa dell’auto dalle origini fino alla seconda metà del ventesimo secolo negli Stati Uniti (Silver 2003, capp. 2, 3), si può riconoscere uno schema ricorrente. In poche parole: contro la tesi della corsa al fondo, la nostra tesi è che dove va il capitale, là subito dopo corre il conflitto capitale-lavoro.

Come sosteremo, il caso cinese fornisce oggi una prova empirica a sostegno di questa contro-tesi. Il movimento massiccio di capitale verso la Cina e l’approfondimento della mercificazione del lavoro dalla metà degli anni novanta sono stati accompagnati da un’ondata crescente di conflitti di lavoro in Cina. Secondo i dati ufficiali del governo cinese, le proteste di massa sono aumentate da 10.000 episodi, che coinvolgevano 730.000 manifestanti nel 1993, a 60.000 episodi, che coinvolgevano più di 3 milioni di persone nel 2003. Inoltre, il numero di casi portati dai lavoratori davanti ai comitati ufficiali di arbitrato sui conflitti di lavoro è aumentato costantemente da 78.000 nel 1994 a oltre 800.000 nel 2003 (White 2007) 1.

La maggior parte delle proteste di massa nella seconda metà degli anni Novanta erano messe in atto da lavoratori licenziati dalle imprese di stato (Soe). Nel 1994 è stata approvata una legge sulla ristrutturazione delle imprese che consentiva alle imprese statali licenziamenti di massa come parte dello sforzo per portare i processi di produzione in linea con la competizione internazionale. Questo costituiva un attacco ai livelli di vita della classe operaia urbana che era stata creata durante gli anni di Mao. La cancellazione della garanzia della “scodella di riso” provocò un’ondata di occupazioni di fabbriche e di proteste di strada in quella che C.K. Lee ha definito la “rustbelt della Cina” 2 (Lee 2007). O, per dirla in modo diverso, queste erano proteste da parte dei lavoratori sulla “distruzione” finale del processo schumpeteriano di “distruzione creativa”, in quelle che potremmo chiamare proteste di tipo polanyiano, nel momento in cui venivano “disfatte” (Silver 2003) le basi della loro classe e delle loro comunità.

Nella seconda metà degli anni Novanta ci furono pochi segni di aperta protesta da parte dei giovani operai migranti spinti dalla campagna verso le zone costiere. Si pensava che questi lavoratori migranti fossero parte di una riserva inesauribile di forza lavoro a basso costo che aspettava solo di essere riversata dalle aree rurali della Cina. Come tale, la maggior parte degli osservatori prevedeva che ci sarebbe voluto molto tempo – se mai fosse avvenuto – prima che cominciassero a protestare apertamente contro i bassi salari e le condizioni di lavoro. Invece una “serie senza precedenti di [scioperi] e interruzioni” colpì le fabbriche del delta del fiume Pearl, in pieno boom, e non solo fece sussultare i padroni cinesi e stranieri (Cody 2004), ma costituì una sfida diretta alla storiella della “corsa verso il fondo”. In realtà, il movimento di capitali verso la Cina aveva creato una classe operaia nuova e sempre più militante – il prodotto del lato “creativo” del processo di distruzione creativa.

Mentre molti osservatori liquidavano le crescenti agitazioni operaie in Cina come localizzate, apolitiche, attivismo “cellulare” (Lee 2007), noi sostenevamo che era un errore sottovalutare l’impatto potenziale di questo tipo di lotte. In effetti, l’idea teorica chiave di Frances Piven e Richard Cloward in I movimenti dei poveri era proprio che molte delle conquiste dei “movimenti dei poveri” non vengono dalla costruzione di organizzazioni formali orientate alla presa del potere statale, ma sono il risultato di concessioni strappate al potere in risposta a intense, diffuse e “spontanee” rotture dal basso, cioè risposte alla minaccia di “ingovernabilità”.

In verità, dal passaggio al nuovo secolo, le crescenti apolitiche e “spontanee” lotte del lavoro che emergevano su entrambi i lati del processo di “creazione-distruzione” (insieme con una escalation dei conflitti sociali sui diritti alla terra e sul degrado ambientale nelle aree rurali) cominciarono a evocare lo spettro di una prossima “ingovernabilità” se la Cina avesse continuato lungo la stessa strada per lo sviluppo che aveva iniziato sin dagli anni Novanta. Questa paura è stata uno dei fattori chiave che ha spinto il governo centrale cinese a introdurre cambiamenti significativi, prima di tutto nella retorica, e più tardi nelle politiche sociali concrete. Tra il 2003 e il 2005 il governo centrale e il Partito comunista cominciarono a spostare l’attenzione dalla unilaterale necessità di attrarre capitali stranieri e favorire lo sviluppo economico a ogni costo, alla promozione di un “nuovo modello di sviluppo” che puntasse a ridurre le diseguaglianze tra le classi e le regioni come parte della ricostruzione di una “società armoniosa” (vedi, per esempio, People’s Daily 2005). Allo stesso modo, preoccupato per le crescenti agitazioni e per il loro potenziale di “instabilità sociale”, il sindacato ufficiale (Acftu) modificò nel 2003 il suo statuto per “rendere prioritaria la difesa dei diritti dei lavoratori” (Chan, Kwan 2003); nel 2007 Hu Jintao parlava dell’importanza di salvaguardare “i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori” (Xinhua 2008).

Nel 2007 diventava anche chiaro che i cambiamenti stavano andando oltre il piano retorico. La manifestazione concreta più importante fu la nuova Legge sui contratti di lavoro, entrata in vigore il 1° gennaio 2008. La legge, tra le altre cose, rafforza la sicurezza del lavoro, ponendo restrizioni significative al diritto degli imprenditori di assumere e licenziare i lavoratori senza giusta causa. Essa rafforza anche il ruolo dei sindacati. Una nuova Legge sull’arbitrato, entrata in vigore nel maggio 2008, consente ai lavoratori di rivolgersi gratuitamente ai tribunali contro i datori di lavoro. E nel 2006 l’Acftu, di fronte al rifiuto della Wal-Mart di permettere l’ingresso dei sindacati ufficiali nei suoi empori in Cina, iniziò una mobilitazione di base dei lavoratori senza precedenti – una campagna ampiamente pubblicizzata (e alla fine vittoriosa), che fu indicata dall’Acftu come modello per introdurre sindacati forti in altri recalcitranti luoghi di lavoro in Cina (Business Watch Magazine 2006; vedi anche Chan 2006).

Abbiamo anche la prova che la nuova Legge sui Contratti di Lavoro è presa sul serio sia dal governo centrale sia, di conseguenza, dai grandi datori di lavoro. Quando Huawei (una grande impresa di tecnologia di proprietà cinese) convocò tutti i lavoratori che erano nell’azienda da più di 10 anni e chiese loro di licenziarsi volontariamente e poi firmare un nuovo contratto come stratagemma per aggirare le garanzie che la legge sui contratti a tempo indeterminato prevedeva per gli addetti da lungo tempo, il governo centrale intervenne per fermare la manovra e l’azienda ebbe ampia pubblicità negativa nei mass-media (China Technews 2007, Global Labor Strategies 2007). Nel gennaio 2008 un’altra grande azienda automobilistica cercò di usare lavoratori a tempo determinato per far funzionare un’intera fabbrica, ma il piano non fu attuato per timore di entrare in conflitto con quanto previsto dalla nuova Legge sui Contratti di Lavoro3. Nel febbraio 2008 il Wall Street Journal fissava l’attenzione sul nuovo equilibrio di potere tra lavoratori e datori di lavoro in Cina. Riassumendo il punto di vista degli imprenditori, il WSJ concludeva che “la [nuova] legge aveva spostato il potere contrattuale a favore dei lavoratori e aveva accresciuto la consapevolezza dei loro diritti”, inaugurando una nuova era di costi di produzione più alti (Fong, Canaves 2008).

Un raffronto tra la Legge sui Contratti di Lavoro del 2008 in Cina e il National Labor Relations Act (Wagner Act) del 1935 negli Stati Uniti può essere istruttivo. In entrambi i casi il governo rispondeva alla minaccia di instabilità sociale costituita dalle crescenti agitazioni sul lavoro da un lato, e alla minaccia di instabilità economica creata da una “crisi da sottoconsumo” più o meno aperta, dall’altro. In entrambi i casi la nuova legislazione cercava di definire ed espandere i diritti dei lavoratori e allo stesso tempo incanalare il conflitto nei meccanismi formali di routine 4. Sappiamo che il National Labor Relations Act negli Stati Uniti servì come catalizzatore per una grande ondata di scioperi a livello nazionale nel 1936-37; e che gli scioperi trasformarono profondamente le relazioni nel paesaggio industriale americano, poiché i lavoratori si sentirono incoraggiati a sostenere i loro diritti di fronte all’intransigenza dei padroni. Non è azzardato prevedere che la Legge sui Contratti di Lavoro del 2008 servirà allo stesso modo come catalizzatore di un’ondata di lotte in Cina – specialmente se gli imprenditori tenteranno, come è probabile, di aggirare la legge e se il sistema di arbitrato diventerà troppo oberato di casi per poter risolvere rapidamente i problemi dei lavoratori, che, in tal caso, saranno incoraggiati all’azione diretta.

In definitiva, non è esagerato concludere che sia in termini numerici assoluti (le agitazioni aperte calcolabili), sia nei termini del loro impatto sulla dinamica e sul corso futuro del capitalismo, la Cina sta diventando l’epicentro del conflitto globale e lo sarà in modo crescente nel prossimo decennio. Valutare gli effetti probabili di queste lotte sui lavoratori dentro e fuori della Cina, e sulla traiettoria del capitalismo mondiale richiede la messa a punto ulteriore di un insieme di strumenti analitici. Questo è il nostro compito nella prossima sezione.

2. “Riorganizzazioni” spaziali, cicli produttivi

e la traiettoria del capitalismo globale

Se un’analisi della dinamica del capitalismo storico ci porta a prevedere che “dove va il capitale, là corre il conflitto”, allora questa stessa analisi ci porta a cercare un certo numero di risposte prevedibili al conflitto e ai costi crescenti in Cina. Per esempio, negli ultimi 150 anni il capitale ha risposto all’insubordinazione operaia riallocando geograficamente la produzione alla ricerca di una forza-lavoro più docile e più a buon mercato (riorganizzazioni spaziali), e introducendo modifiche tecnologiche e organizzative nel processo di produzione (riorganizzazioni tecnologiche) (Silver 2003, capp. 2 e 3). Anche se questi punti di vista teorici generali forniscono strumenti analitici critici per comprendere le dinamiche globali attuali, è anche chiaro che l’applicazione meccanica di una teoria generale non è sufficiente. Piuttosto, in questa sezione si tenterà di contestualizzare storicamente e geograficamente la teoria, per cogliere meglio le tendenze attuali del capitalismo globale.

Riorganizzazioni spaziali. C’è una diffusa evidenza empirica che i proprietari di fabbriche ad alta intensità di lavoro (labor-intensive) stanno cercando siti di produzione a costo più basso. Secondo il Wall Street Journal, il cambiamento della struttura dei costi nel Guandong e nel delta del fiume Pearl “sta producendo effetti in tutto il mondo”, poiché gli imprenditori investono in “nuove zone più interne della Cina” e/o si dirigono verso “paesi più poveri, con livelli salariali più bassi” come il Vietnam e il Bangladesh (Fong, Canaves 2008; vedi anche Bradsher 2008). Nel suo accurato lavoro sul campo in sette grandi stabilimenti di montaggio auto, Zhang (2008) ha trovato che, sebbene il piano di sviluppo del governo centrale favorisse la concentrazione della produzione automobilistica in città selezionate, le aziende stavano impiantando e sviluppando le unità produttive in nuove regioni, in risposta sia alla competizione tra i governi locali per attrarre investimenti nell’industria auto, sia alle differenze (reali o percepite) di costo e di subordinazione della forza-lavoro nelle differenti aree della Cina.

Quando sono emersi forti movimenti di lotta in paesi di recente industrializzazione (come il Brasile e il Sud-Africa negli anni Settanta e Ottanta), si sono verificate massicce fughe di capitali e processi di deindustrializzazione. Per esempio, ci furono licenziamenti diffusi nelle periferie urbane di San Paolo (il cuore del movimento operaio brasiliano) quando il capitale si spostò verso nuove zone, fuori e dentro il Brasile. Un indicatore dell’impatto di queste “riorganizzazioni spaziali” sul movimento operaio brasiliano è la flessione del numero degli iscritti ai sindacati metalmeccanici nell’area suburbana di San Paolo, caduto da 202 mila nel 1987 a 150 mila nel 1992 e 130 mila nel 1996 (Silver 2003, p. 57).

Può l’esperienza brasiliana fornire un riferimento corretto per pensare le probabili dinamiche future in Cina? Da un lato, già si vedono segni di riallocazione del capitale, anche se le agitazioni in Cina non hanno ancora raggiunto la scala o l’intensità di quelle avvenute in Brasile negli anni Ottanta. Dall’altro lato, ci sono buone ragioni per pensare che una fuga massiccia di capitali dalla Cina non sia probabile. Come si è sostenuto altrove (Arrighi 2008, cap.11), gli investimenti in Cina sono motivati solo in parte dal basso costo del lavoro. Piuttosto le economie di agglomerazione fornite dai distretti e dalle reti industriali pianificate, una forza lavoro in salute e istruita (in gran parte eredità degli investimenti dell’era di Mao nella sanità pubblica e nell’istruzione), infrastrutture stradali e logistiche ben sviluppate, e le dimensioni del mercato interno sono tutte buone ragioni, che resterebbero tali anche se il costo del lavoro aumentasse sensibilmente. In verità, se aumentassero i salari dei lavoratori in Cina, anche le dimensioni del mercato aumenterebero, rendendo gli investimenti orientati verso il mercato cinese ancora più attraenti.

Naturalmente, l’accesso al mercato cinese non è minacciato dalla riallocazione dentro la Cina (non più di quanto l’accesso al mercato nord-americano fosse minacciato dalla riallocazione su larga scala delle industrie dagli stati del nord negli stati del sud dopo la seconda guerra mondiale). Poiché la legislazione del lavoro cinese di base è a livello nazionale (più che locale), il principale risultato della riallocazione di capitale all’interno potrebbe essere la riduzione degli squilibri regionali mediante l’elevazione del reddito nei nuovi siti di investimento, piuttosto che provocare una “corsa verso il fondo” all’interno della Cina. In realtà, una delle aziende automobilistiche studiate da Lu Zhang, con basi produttive in un’area costosa della Cina (dove i lavoratori avevano fama di essere “rivendicativi”), ha costruito un nuovo stabilimento in un’altra provincia, dove era noto che i lavoratori fossero docili e a basso costo. Subito dopo l’apertura della nuova fabbrica, gli operai ritenuti sottomessi attuarono uno sciopero per protestare contro i tempi delle linee di montaggio, contro l’arbitrarietà delle decisioni dei dirigenti e contro il fatto che i salari erano più bassi di quelli del sito di produzione originario 5.

Inoltre, la tesi secondo la quale “dove va il capitale, là corre il conflitto” riceve nuova conferma se si considera la più recente area preferita per nuovi investimenti in cerca di lavoro a basso costo – il Vietnam. Nella stampa di Taiwan si trovano diversi resoconti di un’“esplosione di scioperi” in Vietnam, che ha colpito le aziende di proprietà straniera nel 2007 e nel 2008. Si dice che cresca il “disagio” tra gli “uomini d’affari di Taiwan” (il più grande gruppo di investitori stranieri in Cina), che vedono la situazione degli scioperi “peggiorare sempre di più”, con un esito degli scioperi largamente a favore dei lavoratori (Lianhe News 2008).

Riorganizzazioni tecnologiche. Per più di un secolo una delle principali risposte ai forti movimenti dei lavoratori è stata la ricerca di nuove forme di tecnologia che risparmiano forza lavoro (labor-saving), al fine di ridurre il salario totale e/o la dipendenza dalla cooperazione della forza-lavoro. I processi di industrializzazione più recenti tendono a introdurre la tecnologia (labor-saving) più avanzata disponibile, anche quando vengono messi in atto in un’economia con eccesso di forza lavoro. Questa sproporzione tra tecnologia e disponibilità di forza-lavoro indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori locali sul mercato.

La debole capacità di assorbimento di forza-lavoro nell’industria moderna è chiara nella Cina d’oggi. Nonostante il massiccio incremento nella produzione industriale negli ultimi due decenni, l’occupazione nell’industria è rimasta stagnante dalla metà degli anni Novanta. La figura l illustra questo punto con specifico riferimento all’industria automobilistica in Cina. Mentre il prodotto è cresciuto da circa 1 milione di veicoli nel 1992 a più di 7 milioni nel 2006, l’occupazione nel ramo è rimasta ferma. Questo risultato è dovuto alla “cura dimagrante” subita dalle imprese statali, insieme all’importazione di macchinario tecnologicamente avanzato e di metodi di organizzazione della produzione snella e tayloristica (Zhang 2008).

Una questione importante è se l’indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro sul mercato, che ne risulta, sia bilanciato in qualche misura significativa da un forte potere contrattuale (strutturale/di intervento) sul luogo di lavoro (cioè, l’elevato potere contrattuale dei lavoratori che deriva dall’essere coinvolti in processi produttivi altamente integrati, dove un’interruzione localizzata in un nodo può causare disfunzioni su una scala ben più vasta dell’interruzione stessa). L’analisi approfondita del potere contrattuale dei lavoratori cinesi sul luogo di lavoro supera lo scopo del presente lavoro, anche se diversi elementi empirici lasciano supporre che almeno alcune sezioni di lavoratori nella produzione di massa abbiano un significativo potere contrattuale sul posto di lavoro. Si può prendere come esempio una delle aziende di montaggio automobilistico studiate da Zhang, che ha tentato di introdurre metodi di produzione just-in-time, nonostante l’esistenza di rapporti scadenti tra lavoratori e direzione. Come abbiamo notato altrove (Silver 2003, pp. 67-69), la produzione just-in-time aumenta il potere contrattuale potenziale della forza lavoro in quanto elimina gli ammortizzatori elaborati nel sistema fordista tradizionale, che consentivano alla produzione di procedere anche in caso di scioperi e altri eventi che potevano causare interruzioni di breve durata nel flusso dei componenti della linea di montaggio. Le relazioni con la direzione in questa azienda automobilistica erano pessime, come era rivelato, fra l’altro, dalla diffusione di atti di piccolo sabotaggio da parte dei lavoratori. Alla fine, per poter rendere normale il flusso di produzione, la direzione è stata costretta a eliminare gli esperimenti di produzione just-in-time e ritornare a un sistema con maggiori ammortizzatori 6.

Certamente, come indicano Evans e Stateveig (2008), solo una piccola percentuale dei lavoratori cinesi sono addetti all’industria e, si potrebbe aggiungere, una percentuale anche minore lavora in industrie ad alta intensità di capitale (capital-intensive) come nel settore automobilistico. Nella misura in cui il potere contrattuale sul posto di lavoro è più forte nell’industria ad alta intensità di capitale che non in altri rami dell’economia, e nella misura in cui l’impatto delle lotte nell’industria è limitato – cioè, non contribuisce a sostenere le condizioni di tutti i lavoratori – il fatto che una minoranza di essi abbia un forte potere contrattuale sul luogo di lavoro non è particolarmente incoraggiante in rapporto al progetto globale di miglioramento del welfare dei lavoratori in generale. Comunque, questo punto di vista (sostenuto da Evans e Stateveig) è discutibile. Non è chiaro il fatto se ci sia una netta tendenza verso il basso nel potere contrattuale sul posto di lavoro spostandosi dall’industria ai servizi; e non è chiaro se lotte assai acute da parte di una minoranza di lavoratori in un paese abbia effetti sociali limitati (Silver 2003).

Il ciclo del prodotto e le riorganizzazioni del prodotto. Quello che è chiaro, in ogni caso, è che la Cina è entrata nella competizione globale della produzione di massa dell’automobile e di altre attività industriali nella fase finale del “ciclo del prodotto”; cioè, nella fase di “standardizzazione”, in cui queste attività erano già soggette ad un’intensa concorrenza internazionale, e perciò i margini di profitto erano già assai ridotti. Nel modello del ciclo del prodotto di Vernon (1966), i prodotti di recente innovazione tendono a essere prodotti nei paesi ad alto reddito, ma quando i prodotti passano attraverso il loro “ciclo di vita”, gli impianti di produzione sono dispersi nei siti a costo sempre più basso (in particolare con salari più bassi). Nella fase “innovativa” iniziale del ciclo di vita del prodotto, la pressione della concorrenza è bassa e così i costi sono relativamente poco importanti. Ma quando il prodotto raggiunge la fase di “maturità” e infine di “standardizzazione”, il numero dei concorrenti attuali e potenziali cresce, così come la spinta a tagliare i costi.

Fin qui abbiamo sostenuto che la riallocazione geografica della produzione non porta direttamente a una “corsa verso il fondo” dei salari e delle condizioni di lavoro perché si forma una nuova classe operaia e forti movimenti di lavoratori tendono a emergere in ogni nuovo sito favorito dagli investimenti produttivi. Comunque, la teoria del ciclo di vita del prodotto sottovaluta il fatto che ogni fase del ciclo del prodotto ha luogo in un ambiente competitivo crescente, man mano che la produzione si disperde geograficamente e i processi di produzione diventano più standardizzati. In altri termini, ogni fase di riallocazione geografica si sviluppa in un ambiente competitivo fondamentalmente diverso. L’innovatore riceve extra-profitti monopolistici – “premi spettacolari”, come li chiama Joseph Schumpeter (1964). Ma quando ci si muove attraverso le varie fasi del ciclo del prodotto, i margini di profitto tendono a declinare. Inoltre, favorendo siti con bassi salari per nuove fasi di espansione, la produzione si sviluppa sempre di più in aree in cui il livello di ricchezza nazionale è relativamente basso. Queste tendenze, a loro volta, hanno implicazioni importanti per il risultato di grandi ondate di agitazioni dei lavoratori – specialmente riguardo al tipo di accordi tra capitale e lavoro che i movimenti possono raggiungere e alla permanenza delle conquiste ottenute (Silver 2003, pp. 77-97).

Per meglio afferrare il punto, è bene tornare all’analogia (o, in questo caso, ai limiti dell’analogia) con gli Stati Uniti dell’era post-new deal. L’ondata di scioperi degli anni Trenta e Quaranta culminarono in un “contratto sociale” tra stato e classi lavoratrici in cui i datori di lavoro (specialmente nelle industrie a produzione di massa) erano disposti a riconoscere i sindacati e ad aumentare salari e altri benefici in proporzione all’aumento della produttività. In cambio, gli operai (e i loro sindacati) dovevano incanalare le loro richieste nelle normali procedure formali e dovevano accettare il diritto della direzione di prendere decisioni sull’organizzazione e l’allocazione della produzione. Lo stato, a sua volta, doveva promuovere la creazione di un ambiente macroeconomico adeguato a questo scambio, che includeva il mantenimento di un basso livello di disoccupazione. Questo contratto sociale rimase in vigore negli Stati Uniti per parecchi decenni dopo la seconda guerra mondiale e fu rotto apertamente solo negli anni Ottanta. Questo contratto sociale, di durata relativamente lunga, fu coperto dagli “extra-profitti monopolistici” accumulati dagli imprenditori dell’industria di massa statunitense nella “fase di innovazione” a metà del xx secolo.

Chiaramente, l’ambiente competitivo degli ultimi anni del ventesimo secolo e i primi del ventunesimo è meno favorevole per la maggior parte delle attività industriali. Mentre negli Stati Uniti i lavoratori del settore auto sono riusciti a tradurre il loro forte potere contrattuale sul posto di lavoro in parecchi decenni di salari crescenti e nell’espansione di altri benefici, i lavoratori dell’auto cinesi, con un livello di potere contrattuale sul luogo di lavoro simile hanno sperimentato finora salari reali stagnanti o in declino (Zhang 2008, p. 30). Se si collocano le dinamiche attuali nel contesto del ciclo del prodotto, si possono anche capire meglio le tensioni e le contraddizioni presenti nell’azienda automobilistica (menzionata sopra) che, di fronte alla resistenza di lavoratori con forte potere contrattuale sul posto di lavoro, ha deciso di abbandonare la produzione just-in time – cioè, è stata incapace o non ha voluto trovare un modo per ottenere la cooperazione della forza-lavoro nei suoi sforzi per mettere in opera forme di organizzazione produttiva più avanzate.

Abbiamo tematizzato questa dinamica in altri paesi di recente industrializzazione come “contraddizioni sociali del successo semiperiferico.” Dal punto di vista dello sviluppo questo significa che i paesi passati attraverso fasi di recente industrializzazione con successo tendono a trovarsi a “correre per restare nello stesso posto” – cioè, nello “stesso posto” nella gerarchia globale della ricchezza (cfr. Silver 1990, Arrighi 1990). Comunque, non è chiaro se questo sia il modo migliore per capire le dinamiche della Cina contemporanea.

Da un certo punto di vista, rimane una questione aperta se la Cina riuscirà a fare passi in avanti nella gerarchia del valore aggiunto globale, nel qual caso un’analogia con il contratto sociale capitale-lavoro stabile a lungo termine, come negli Stati Uniti dei decenni dopo la seconda guerra mondiale, potrebbe essere più significativa di quello che sembrerebbe a prima vista. È una questione che non possiamo affrontare qui, possiamo solo sottolineare il fatto che il governo centrale cinese sta effettuando massicci investimenti per l’espansione dell’istruzione universitaria come parte di uno sforzo consapevole per rendere possibile il “salto” e catturare parte degli “extra-profitti monopolistici” legati alle attività della “fase innovativa” del ciclo del prodotto. Tuttavia, anche se la Cina riuscisse ad avanzare nella gerarchia del valore aggiunto globale, una semplice copia del modello Stati Uniti di consumo di massa, pieno di sprechi, non sarebbe né sostenibile né auspicabile dal punto di vista sia ecologico sia di considerazioni di altro genere.

Questo ci porta alla questione pressante (ma alla quale non si può ancora dare risposta) sollevata da Giovanni Arrighi (2008) in Adam Smith a Pechino: e cioè, se l’eredità storica specifica della Cina – sia l’eredità rivoluzionaria degli anni di Mao sia l’esperienza storica di più lungo termine di uno sviluppo di mercato non-capitalistico – apra la via a percorsi di innovazione sociale che si allontanino in modo fondamentale dalle dinamiche del capitalismo del xx secolo.

3. I lavoratori del mondo e la Cina

Se, come abbiamo sostenuto nella prima parte, è in atto in Cina un notevole spostamento nell’equilibrio di potere tra capitale e lavoro, quali sono le implicazioni per il lavoro e i movimenti dei lavoratori in altre parti del mondo? Una storia comune in buona parte del mondo ci dice che se gli standard di vita per il lavoro dovessero migliorare in Cina, il suo potere di attrazione come sito per gli investimenti diretti stranieri diminuirebbe notevolmente. I flussi del capitale globale cambierebbero direzione e i problemi dei movimenti dei lavoratori fuori della Cina sarebbero in buona parte risolti.

Ma ci sono problemi relativi a questa storia. Il primo è già stato discusso. E cioè, le economie di agglomerazione derivanti dai distretti e dalle reti industriali pianificate, una forza lavoro in salute e ben istruita, e le dimensioni, ampie, del mercato interno sono tutte ragioni decisive per gli investimenti in Cina; fattori che resterebbero importanti anche se il costo del lavoro aumentasse in modo sensibile. Se non altro, salari reali crescenti renderebbero la Cina anche più conveniente come sito di investimenti, poiché il peso relativo globale del mercato cinese aumenterebbe ulteriormente 7.

Certamente, alcuni paesi del sud del mondo potrebbero trovarsi in una posizione migliore per attrarre parte degli investimenti diretti stranieri ad alta intensità di lavoro (labor-intensive) che prima erano diretti verso la Cina – sebbene, come accennato sopra, non è affatto chiaro se la via allo “sviluppo” nel ventunesimo secolo passi per la decisa volontà di impegnarsi in attività industriali dell’ultima fase del ciclo del prodotto. Piuttosto, un percorso più probabile potrebbe essere attraverso l’uso strategico degli “extra-profitti” derivanti dai prezzi delle merci a sostegno di investimenti per lo sviluppo a lungo termine. In effetti, uno dei risultati della rapida espansione della Cina è stato il ribaltamento epocale dei termini di commercio tra attività economiche primarie e secondarie.

L’aumento del costo del lavoro in Cina avrà serie conseguenze sui lavoratori in quanto consumatori al di fuori della Cina, poiché le basi del “patto sociale” ingannevole del neoliberismo, inaugurato dagli Stati Uniti (ed esportato altrove), comincerà a traballare. La sostenibilità sociale della compressione dei salari reali negli Stati Uniti è infatti fondata sull’importazione massiccia di beni di consumo a basso prezzo dalla Cina, e su un rapido aumento del deficit corrente. Questo modello sta per crollare – risuonano infatti allarmi di “stagflazione” – anche se, non è ancora chiaro, a metà 2008, se ci sarà un “atterraggio morbido” o un crollo socialmente e politicamente catastrofico.

Mentre il frantumarsi di questo “patto sociale” neoliberista è senza dubbio un bene per i lavoratori nel mondo, gli studiosi e gli attivisti dei movimenti non hanno neanche cominciato a pensare le dinamiche politiche che ne deriveranno, ancor meno le strategie opportune per i movimenti dei lavoratori e una visione complessiva adeguata alla nuova era emergente. Se non si ripensano questi problemi, le probabilità di passare dalla padella alla brace saranno elevate (Arrighi, Silver 1999, conclusioni). Come minimo, queste strategie devono essere elaborate per attraversare il passaggio politicamente pericoloso tra il crollo del vecchio e la nascita del nuovo; in altre parole, per essere preparati strategicamente (nella misura in cui è possibile) allo scenario di un crollo catastrofico. Un punto importante da cui cominciare è venire a patti con il nesso storico interno tra nascita del “welfare state” e “warfare state” in occidente; cioè, tra il sorgere del potere del lavoro e il potere dello stato (Silver 2003, cap. 4). Nonostante le tensioni tra stato e lavoro create dalla svolta neoliberista, questo legame non è mai stato realmente interrotto. Se ci troviamo davvero nel mezzo di una fondamentale redistribuzione della ricchezza e del potere globale dal nord al sud e dall’ovest all’est, allora è necessaria una specie di “rivoluzione culturale” nel nord/ovest globale: una battaglia culturale in cui un ordine mondiale più equo sia visto da tutti come una benedizione, piuttosto che come una minaccia da combattere con ogni mezzo.

* da Devi Sacchetto, Massimiliano Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, ombre corte, Verona 2007, pp. 177-189

Note

1 Certamente è necessaria cautela nell’interpretazione di queste cifre. Se si valuta la popolazione cinese in 1,3 miliardi, i dati ufficiali sono meno impressionanti. Comunque, la decisa tendenza verso l’alto del  numero di incidenti è lo stesso molto marcata (e i dati ufficiali riguardo alle proteste di massa quasi certamente ne sottostimano il numero reale).

2 È chiamata rustbelt (letteralmente cinta della ruggine) la fascia di stati che comprende Pennsylavania, l’ovest dello stato di New York (Buffalo), Ohio, Michigan, Missouri e parte dell’Illinois, dove sono concentrate la maggior parte delle industrie metalmeccaniche statunitensi (N.d.T.).

3 Intervista con un dirigente d’azienda, Lu Zhang, Beijing, gennaio 2008.

4 Queste preoccupazioni sono chiaramente espresse nei due paragrafi di apertura  del National Labor Relations Act. Per il  testo della legge, vedi hppt://www.nlrb.gov/ about_us/overview/national_labor_relations_act.aspx.

5 Note sul campo di Lu Zhang, ottobre 2006.

6 Note sul campo di Lu Zhang, gennaio 2008

7 Un secondo problema relativo a questa storia, che per il momento mettiamo da parte, è che essa assume che i problemi dei movimenti dei lavoratori fuori dalla Cina siano in modo significativo attribuibili alla concorrenza (“corrette” o “scorretta”) che viene dalla Cina. Come ha mostrato Ruth Milkman (2006) per gli Stati Uniti, (1) la crisi del movimento dei lavoratori statunitensi nell’industria fu precedente alla competizione con la Cina; e inoltre, (2) le condizioni da sweatshop emersero nelle attività del settore dei servizi non soggette alla concorrenza internazionale, come i trasporti e i servizi di cura.

 

 

 

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