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Continuità / discontinuità. La contemporaneità mondiale della Cina

 

di CLAUDIA POZZANA e ALESSANDRO RUSSO

Alessandro Russo Gli argomenti del saggio di Wang Hui , La dialettica di autonomia e di apertura riguardano due versanti fondamentali: una riconsiderazione del carattere sperimentale della politica cinese del Novecento e una diagnosi delle principali poste in gioco nella politica cinese contemporanea. Della grande tradizione politica cinese moderna, Wang Hui valorizza l’originalità, il carattere sperimentale e  non predeterminato delle scelte e delle strade percorse, ovvero ciò che lui chiama l’“autonomia”. Della situazione odierna, ovvero del versante dell’“apertura”, Wang Hui esamina dettagliatamente la complessità delle trasformazioni in atto, il posto della Cina nell’insieme dei fenomeni detti “globalizzazione”, visti sia sotto il profilo economico sia sotto quello delle scelte politiche. Il bilancio storico che fa Wang Hui, benché scritto in occasione del 60° anniversario della RPC, è tutt’altro che celebrativo, ma parte da una precisa valutazione della congiuntura mondiale odierna, e in particolare della crisi finanziaria. È una crisi che lui considera come l’inizio del declino dell’egemonia del neoliberismo degli anni scorsi, di cui peraltro la Cina è stata una roccaforte. Inoltre per Wang Hui è essenziale che i problemi all’ordine del giorno nella politica cinese oggi vadano discussi su un orizzonte assolutamente mondiale, come mostra anche l’ampiezza dei suoi riferimenti teorici e analitici. Sull’egemonia del neoliberismo nella politica cinese contemporanea Wang Hui aveva condotto negli scorsi anni una serie di analisi critiche molto approfondite, note anche in Italia grazie alla traduzione de Il nuovo ordine cinese. [i] In quel volume, come anche in questo saggio, appare chiaramente quanto ampio sia l’orizzonte internazionale dei riferimenti culturali non soltanto del lavoro di Wang Hui, ma anche dell’intero dibattito politico e culturale cinese.

Contemporaneità anticipanti

Claudia Pozzana Questa ampiezza di riferimenti viene da una grande tradizione intellettuale e politica cinese moderna. È dalla seconda metà dell’Ottocento che l’intellettualità cinese non cessa di confrontarsi in profondità con l’insieme dei riferimenti intellettuali mondiali, i quali vengono discussi con molto senso critico e posti al vaglio di scelte contemporanee del pensiero in ogni campo: politico, artistico, scientifico. Col risultato, tra l’altro, che oggi mediamente in Cina la conoscenza dei riferimenti culturali “occidentali” è molto superiore a quella che, ad esempio, in Europa o in Italia si ha della cultura cinese. È una sproporzione che uno può notare subito se entra in una libreria cinese e dà un’occhiata al mare di traduzioni da lingue occidentali, che non è minimamente confrontabile con quel poco sulla Cina che si trova in una libreria italiana. Dall’Italia si guarda alla Cina attraverso una fitta nebbia che non permette di vedere i contorni e i riferimenti. Dalla Cina la visione sull’Europa e sul mondo intero può essere invece molto acuta e capace di mettere a fuoco una vasta gamma di temi e questioni. Agli occhi della cultura italiana, ma in generale di quella “occidentale”, la “Cina” è un’immagine molto opaca, nella quale alla fascinazione esotica di derivazione coloniale si mescolano i fantasmi, non meno colonialisti, di una “alterità” culturale misteriosa e perfino minacciosa. Questa sproporzione tra un “occhio occidentale” oscurato da una visione superstiziosa della “Cina” e un “occhio cinese” allenato da almeno un secolo e mezzo di conoscenza critica dell’“Occidente”, si fa sentire ancor più oggi che l’economia e lo Stato cinese svolgono un ruolo di primo piano nella geopolitica mondiale. Oggi la rilevanza mondiale della Cina è fuori discussione, ma viene vista come tutta economica e come una sorta di miracolo venuto fuori negli scorsi anni. Nell’odierna crisi finanziaria l’economia cinese sembra quella che “tiene” meglio. Addirittura si parla di una co-supremazia cino-americana, “Chimerica”.

AR Nome però che denota una grande incredulità sulla effettiva possibilità del “duopolio” sino-americano. Quale sia il ruolo della Cina nel mondo contemporaneo resta incerto. Un’economia in forte crescita, senz’altro, ma si può dimostrare che questa non è una novità. È sempre stata in forte crescita fin dagli anni Cinquanta, tranne in alcuni momenti. In primo piano c’è un immagine della “Cina” come superficie di proiezione della “narrazione della modernità”, come la chiama Wang Hui in Impero o Stato-Nazione?[ii]. L’”Occidente” – ma questo è il nome di un piccolo orticello, ormai – sarebbe la sede dove avviene la grande logica dello sviluppo storico e la “Cina” sarebbe l’eccezione che finalmente torna alla regola. Il suo “ritorno al capitalismo” sarebbe di questa natura, la Cina rientrerebbe nell’alveo dell’evoluzione della “modernità”

CP Ci si potrebbe attendere, data l’attuale crisi finanziaria, una maggior cautela circa la “logica storica” della “modernità” centrata sull’“Occidente”.

AR E invece i discorsi correnti vanno ancora in quella direzione. Poco tempo fa, in occasione della presentazione del numero di un’importante rivista italiana di geopolitica dedicato al ruolo della Cina nella crisi economica attuale, il direttore e un redattore discutevano delle prospettive di trasformazione dell’economia cinese verso un mercato interno e non più principalmente in direzione dell’esportazione. Il redattore osservava, a ragione, che tra gli ostacoli per l’espansione di un consumo interno c’è la tendenza dei cinesi al risparmio, dovuta del resto alla necessità di provvedere direttamente alle spese sanitarie, scolastiche eccetera, o almeno a gran parte di esse. Il direttore osservava a questo punto che quel che manca alla Cina è il welfare, perché questo paese non ha conosciuto una tradizione politica “socialdemocratica”.

CP Una versione ben contorta della “narrazione della modernità”. Ignora che negli stati socialisti, Cina compresa, il welfare era quanto mai esteso, al punto che poi c’è stato chi ha detto che era troppo esteso.

AR La danwei industriale cinese, così come il  kombinat o il kolchoz in URSS, erano forme di socialità molto articolate, create appositamente dall’intervento statale, dove esisteva un welfare quasi integrale: scuola, ospedali, negozi, oltre che naturalmente le case per gli operai. Semmai in epoca rivoluzionaria era la parte monetaria del salario che era poco rilevante. In Cina la danwei industriale era una piccola società all’interno della quale il fuli – nome cinese di welfare, ma in un senso molto più ampio – giocava un ruolo essenziale.

CP Ovviamente in Cina per i contadini la situazione era molto diversa, c’era senz’altro molto meno welfare che nelle città,  ma la questione di come estendere alle campagne la scuola e la sanità fu fin dagli anni Cinquanta una delle grandi priorità della politica maoista, e anche un punto di grandi controversie politiche. Mao polemizzò più volte con quello che chiamava il “Ministero della sanità dei signori delle città”, lo considerava uno dei grandi fattori di disuguaglianza. D’altronde, nelle comuni popolari i famosi “medici a piedi scalzi”, contadini e contadine con una formazione medica di base capaci di curare malattie molto diffuse, o le scuole a gestione popolare, furono esperimenti perseguiti con tenacia e con vari successi. È dagli anni Ottanta, e soprattutto dagli anni Novanta, che tutto ciò è stato smantellato. Nelle campagne cinesi la sanità e la scuola sono in condizioni difficilissime.

AR All’inverso di quel che immaginano i nostri giornalisti geopolitici, il welfare socialdemocratico “occidentale” non avrebbe mai potuto svilupparsi se non si fosse installato quello degli stati socialisti. E, viceversa, proprio la crisi degli stati socialisti innesca il processo di crisi del welfare socialdemocratico. Inoltre, nella crisi mondiale delle concezioni del welfare state le trasformazioni della Cina hanno giocato un ruolo decisivo.

CP C’è anche da dire che quel modello di welfare aveva sostenuto in Cina uno sviluppo economico molto più efficace di quanto non si pensi. L’immagine corrente di una Cina che aveva vissuto fino al 1976 nella stagnazione, sotto un regime totalitario e in una “economia della penuria” dalla quale è venuta fuori solo grazie alle “riforme” di Deng, è del tutto infondata, serve solo a confermare quella “narrazione della modernità” in cui peraltro “modernità” è sinonimo esclusivo di “Occidente” e di “capitalismo”. Essendo la “Cina” prima del 1976 “non capitalista” e “non occidentale”, era dunque “non moderna”.

AR In realtà la Cina ha avuto una crescita del PIL del tutto rilevante fin dagli anni Cinquanta. Tranne alcuni momenti di difficoltà anche gravi, la crescita economica era stata costante e molto sostenuta. Secondo recenti statistiche fornite dallo stesso governo cinese, nel 1975, che fu politicamente un anno-chiave, il PIL era cresciuto di quasi il 10% rispetto all’anno precedente e per il decennio 1966-76 la media era stata superiore al 7%. Non fu affatto il problema di come far fronte a una catastrofe economica ciò che portò al potere Deng Xiaoping. Fu un problema essenzialmente politico. Il problema del passaggio dalla Cina della rivoluzione alla Cina delle riforme è cruciale. Il saggio di Wang Hui mostra quanto profonda e multiforme sia la questione vista dall’interno del dibattito politico e storico cinese. È una fonte preziosa per un lettore italiano, data la difficoltà di reperire dei riferimenti attendibili su questi temi.

CP Quasi tutto ciò che viene dalla conoscenza giornalistica della Cina alimenta un’immagine superstiziosa, specialmente per quanto riguarda una prospettiva storica. Il problema della continuità e della discontinuità nella politica cinese contemporanea viene solitamente trattato come una serie di variazioni, alla fin fine irrilevanti, della “narrazione della modernità”. C’è una ignoranza compiaciuta nei confronti della cultura, del sapere, del pensiero e della lingua cinese. Viceversa, come mostra Wang Hui, nel mondo intellettuale cinese la conoscenza storica, filosofica e politica internazionale è molto vasta. Moltissimi intellettuali cinesi, almeno dalla metà dell’Ottocento, coltivano un’attenzione speciale verso le grandi questioni contemporanee del mondo intero. Un’attenzione peraltro molto critica e per niente imitativa. Una delle favole colonialiste sulla Cina, ancor oggi molto in voga, è che la Cina sia diventata moderna copiando l’Occidente.

AR Oltre ad essere contemporanea con il resto del mondo, la Cina moderna è sempre stata persino un po’in anticipo rispetto alle grandi tendenze mondiali, suscitando spesso sorpresa e imbarazzo nell’ideologia occidentale. Marx diceva sarcasticamente che gli eserciti occidentali che si apprestavano ad invadere la Cina durante le Guerre dell’oppio avrebbero trovato sulla Grande muraglia affissa la scritta Liberté, égalité, fraternité.

CP A metà dell’Ottocento la rivoluzione dei Taiping fu profondamente egualitaria e anticipò dei punti fondamentali della politica cinese del Novecento e anche mondiale, soprattutto sul ruolo dei contadini nella politica. I Taiping erano anche molto egualitari rispetto ai rapporti tra uomini e donne e fecero persino una riforma educativa molto avanzata. Anche l’arrivo del pensiero occidentale con i riformatori degli anni ’90 dell’Ottocento si pone subito in diretta relazione con le punte più avanzate delle teorie scientifiche, politiche e filosofiche  europee contemporanee. Tra gli autori più famosi in quel passaggio di secolo ci sono Darwin, Huxley, Spencer, ma anche Montesquieu, e Adam Smith. David Ricardo è per esempio un riferimento essenziale per Sun Yatsen.

AR La rivoluzione del 1911 fu una grande fonte di ispirazione per lo stesso Lenin, e anticipò in un certo senso la Rivoluzione d’Ottobre, proprio perché avvenuta in un paese non capitalista e asiatico. Viceversa, nella seconda metà degli anni Dieci, nel corso del Movimento di Nuova Cultura irrompe in Cina il Marxismo che viene dall’Ottobre.

CP E’ sorprendente quanto poco si conosca in Italia del Movimento di Nuova Cultura, il quale è stato uno dei momenti più ricchi e più densi intellettualmente della storia cinese del XX secolo. La seconda metà degli anni Dieci è il crogiuolo della contemporaneità mondiale della Cina. Basti pensare ad un gigante della letteratura mondiale come Lu Xun, del quale per fortuna ci sono varie opere tradotte in italiano e in tutte le principali lingue. Per non dire dei grandi uomini politici del secolo, che si sono formati in quegli anni: Mao Zedong, Zhou Enlai, lo stesso Deng Xiaoping. In quegli anni in Cina i giovani leggevano Oscar Wilde, Turgeniev, partecipavano ad accesi dibattiti su Casa di Bambola di Ibsen, ma leggevano anche Marx e Lenin. La cosa straordinaria è che leggevano contemporaneamente testi della antichità classica greca, come Platone o Epicuro, e autori contemporanei come Nietzsche e Dewey, il quale tra l’altro trascorse in Cina oltre un anno proprio durante il Movimento del 4 maggio 1919. Da questo momento in poi l’intellettualità cinese è sempre stata costantemente consapevole di tutto ciò che si pubblicava e si discuteva nel resto del mondo. Anche negli anni della cosiddetta “chiusura” c’erano un’enorme quantità di traduzioni di opere d’ogni genere su cui si sono formati i più raffinati intellettuali del nostro tempo. E’ totalmente infondato continuare a dire che le traduzioni in Cina cominciano solo negli ultimi decenni.

AR In alcuni dei grandi momenti politici della Cina nel Novecento sono stati anticipati  fenomeni politici fondamentali di rilevanza mondiale: la guerra popolare prolungata che comincia in Cina alla fine degli anni Venti anticipa quella che sarà in Europa negli anni Quaranta la guerra partigiana; il conflitto cino-sovietico anticipa di gran lunga l’emergere della crisi del campo della statalità socialista, e dunque anticipa la fine della Guerra fredda. E’ chiaro che la Rivoluzione culturale nel ‘66 anticipa il ’68, e ancor più profondamente innesca la crisi dei partiti comunisti e dell’insieme dei partiti-stato del Novecento. D’altronde la fine della Rivoluzione culturale del ’76 non solo anticipa e in qualche modo determina la fine della sequenza politica mondiale degli anni Sessanta-Settanta, ma conclude altresì un’“età della rivoluzione” e costringe a ripensare l’insieme dei riferimenti politici fin dall’Ottobre 1917, per non dire della Rivoluzione francese. Infine le “Riforme”, le politiche successive alla Rivoluzione culturale, anticipano e danno il via a molte delle tendenze dei poteri economici e statali mondiali degli ultimi decenni. Il problema è allora che cosa dei fenomeni mondiali stia oggi anticipando la Cina, al di là della sua potenza economica di cui peraltro Wang Hui mostra tutta la problematicità.

Gli anni Novanta in Cina e la loro fine

CP Un punto chiave che mi ha colpito nella periodizzazione che Wang Hui fa dei 60 anni di Repubblica popolare cinese in La dialettica di autonomia e apertura è l’affermazione che nel 2008 si concludono gli anni Novanta. Una decina d’anni fa, nel presentare una raccolta di poeti e narratori contemporanei ci chiedevamo appunto questo: gli anni Novanta erano cominciati nel 1989, ma quando sarebbero finiti? [iii] Wang Hui chiarisce il senso di quella questione. Noi la ponevamo principalmente sul terreno della poesia e dell’arte cinese contemporanea, pur avendo ben in mente il contesto politico del movimento del 1989, perché eravamo stati in Cina per molti mesi in quel periodo e avevamo fatto direttamente inchiesta su quegli eventi fino alle  tragiche conclusioni. Dieci anni dopo si capiva che il modo con cui si erano conclusi quegli eventi aveva iniziato in Cina una fase prolungata, paradossalmente una fase di stabilità, che non si sapeva quanto sarebbe durata.

AR Nella prospettiva di Wang Hui gli anni Novanta sono stati soprattutto l’epoca dell’egemonia del neoliberismo in Cina, egemonia che, come lui stesso ha dimostrato ne Il nuovo ordine cinese,[iv] è profondamente connessa all’esito tragico del movimento di Tian’anmen. La violenta repressione di quel movimento  fu la precondizione di un intenso dinamismo del governo cinese per privatizzare parti importanti del sistema industriale statale, instaurare un’economia di mercato e al tempo stesso smantellare gran parte delle strutture egualitarie dello stato socialista, sanità e scuola soprattutto. In questo senso anche per lui gli anni Novanta cominciano nel 1989.  Dal 2008, però, con la crisi finanziaria mondiale, questa egemonia non può più dirsi incontrastata.

CP Ci sono anche altri segnali che fanno del 2008 un anno di svolta per la Cina: le Olimpiadi che ne hanno celebrato il completo riconoscimento internazionale; la rivolta in Tibet che ha fatto emergere (come anche gli incidenti di Urumqi del 2009) le difficoltà intrinseche dell’unità dello stato multinazionale, a cui si sono aggiunte evidenti ingerenze “umanitarie”; il terremoto del Sichuan, nel quale, oltre ad una notevole capacità operativa del governo, un elemento decisivo sono stati i soccorsi portati da una vasta e inattesa mobilitazione volontaria di giovani cinesi di tutto il paese.

AR In ogni caso, la periodizzazione di Wang Hui pone il 2008 come un passaggio chiave proprio sul terreno della politica e dell’economia. L’egemonia del neoliberismo, cui le politiche economiche dominanti in Cina avevano dato un immenso credito a livello mondiale, non può più pretendersi autoevidente. La crisi finanziaria mondiale pone “nuove sfide”, come dicono ormai anche importanti  esponenti del governo cinese, alle quali non si può rispondere semplicemente continuando con gli orientamenti neoliberisti del ventennio precedente.

CP La fine recente degli “anni Novanta” sembra però anche la fine di una certa stabilizzazione, come traspare dall’insistenza del governo cinese sulla desiderabilità di una “società armoniosa”: quando si parla tanto di armonia è perché c’è molta disarmonia. Se il 2008 segna la fine di una fase che comincia dopo il movimento del 1989, sembra che sia venuto meno un elemento fondamentale di stabilità sul quale aveva poggiato l’insieme delle misure statali dei vent’anni precedenti.

AR Wang Hui aveva mostrato chiaramente che solo all’indomani degli eventi del 1989 fu possibile mettere rapidamente in atto una serie di misure governative che hanno dato l’avvio agli sviluppi neoliberisti degli anni Novanta, ma che erano rimaste indecise negli anni e perfino nei mesi precedenti, a causa di numerose controversie e di una diffusa resistenza di massa nei confronti di quegli orientamenti.

CP Ci si domanda come mai il governo cinese abbia potuto dare prova di tale dinamismo in campo economico e finanziario, nonostante la violenta scossa degli incidenti di piazza Tian’anmen. Le risposte in genere non vanno oltre l’argomento del “totalitarismo” o addirittura  del “dispotismo orientale”.

AR Quel dinamismo in realtà si è fondato proprio sulla capacità del governo cinese di annichilire il movimento del 1989, sia sull’immediato sia sul lungo periodo. Nel breve  periodo, la durezza della repressione eliminò ogni possibile opposizione che nei mesi precedenti era stata fatta ai piani di privatizzazione e di predominio di un’economia di mercato. La riforma dei prezzi, ad esempio, una delle misure politiche decisive in quella direzione, che era rimasta lungamente incerta dalla metà degli anni Ottanta, fu poi decisa senza alcun ostacolo nel settembre 1989. Sui tempi lunghi, la repressione violenta del movimento di Tian’anmen indicava chiaramente l’intenzione del governo cinese di non ammettere in alcun modo l’esistenza di movimenti politici di massa, i quali venivano bollati come mero disordine. L’ordine statale doveva essere appunto la negazione completa di quel disordine. Questa negazione ha avuto effetti stabilizzanti per un ventennio.

CP Questo sembra però confermare la visione in termini di stato “totalitario”.

AR “Totalitarismo” è una categoria della Guerra Fredda. Già a quell’epoca era solo uno strumento di propaganda, e ancor meno oggi può guidare l’analisi: ne viene fuori l’ibrido di un “totalitarismo neoliberista”, col quale però poi non riescono a propagandare le virtù “democratiche” del “libero mercato”. Penso che dobbiamo cercare altre prospettive. La pista che propongo per analizzare gli “anni Novanta” in Cina è questa: a fondamento della stabilizzazione cinese negli ultimi vent’anni non c’è il totalitarismo, ma un processo specifico di negazione e di svuotamento di un grande momento di soggettività politica di massa, come fu appunto il movimento di Tian’anmen. L’esistenza di una fase di stabilità statale fondata sull’azzeramento e sulla prolungata  negazione di un evento politico è un fenomeno che non ha nulla di specificamente “cinese” o “totalitario”, ma riguarda le dinamiche del rapporto tra stato e politica. Si può dimostrare che in epoca moderna le forme soggettive dello stato sono l’inverso, o meglio lo svuotamento  delle forme soggettive dell’ultima grande sequenza politica. Naturalmente ci sono momenti di soggettività politica di massa di differente intensità e importanza: alcuni valgono soprattutto in un determinato ambito nazionale, altri hanno conseguenze mondiali, alcuni aprono processi di lungo periodo, altri più brevi. Nel caso del movimento di Tian’anmen le conseguenze in Cina sono state prolungate e anche a livello mondiale sono state molto rilevanti.

Il calco vuoto

CP Questo è un argomento che avevi già proposto in una nostra precedente conversazione in cui discutevamo le analisi di Wang Hui  ne Il nuovo ordine cinese. [v] A proposito del rapporto tra questo “nuovo ordine” e i “passati disordini” tu dicevi che ogni ordine statale è il “calco vuoto” dell’ultima sequenza politica.

AR Avevo cominciato a formulare questa prospettiva d’analisi a proposito del rapporto tra la Rivoluzione culturale e l’epoca successiva in Cina. Cercavo di chiarire il senso di chedi fouding, la “negazione integrale”, che è la formula con cui fin dalla fine anni ‘70  il partito-stato cinese ha fissato il verdetto ufficiale sulla Rivoluzione culturale, verdetto ancor oggi pienamente in vigore.[vi] La “negazione integrale” della Rivoluzione culturale è stata la principale fonte del dinamismo soggettivo dell’agire statale cinese fin dall’ultima grande disputa politica tra Mao e Deng del 1975, come ho documentato in un testo recente.[vii] Penso si possa rilevare lo stesso fenomeno in situazioni nazionali molto diverse, e in tempi storici diversi, anche se per il momento ritengo che questo valga specialmente per l’epoca moderna, dalla Rivoluzione Francese in poi.

CP Il “calco vuoto” sarebbe dunque una legge generale dei rapporti tra stato e politica in epoca moderna?

AR Più che una teoria generale, quel che m’interessa esplorare è una teoria congiunturale dello stato. La prospettiva che intendo analizzare è questa: i poteri statali hanno sì una loro permanenza strutturale, ma la  loro consistenza soggettiva, in una determinata epoca, dipende in ultima istanza dalla negazione dell’ultima grande sequenza politica. In questo senso in una determinata fase la soggettività statale può essere considerata come il calco vuoto della soggettività politica della sequenza immediatamente precedente. Questa non è una teoria generale dello stato, ma una prospettiva d’analisi del funzionamento specifico dei poteri statali in epoca moderna, e soprattutto della loro consistenza soggettiva, fase per fase. Queste fasi statali iniziano al momento in cui si chiude un determinato momento di soggettività politica di massa.

CP Si direbbe che tu ti muova nella direzione di una storia tutta événementielle, mentre le teorie classiche dello stato sono rivolte piuttosto alla longue durée: ad esempio, per Marx le forme dello stato erano il riflesso della storia della lotta di classe, per Weber il risultato dell’evoluzione dei tipi di dominio.

AR Penso che entrambe queste teorie ci dicano poco delle condizioni dei poteri statali oggi. Bisognerebbe cercare altre strade. Mi sembra che il caso dei poteri statali in Cina oggi sia particolarmente refrattario ad essere letto tanto in termini classisti, quanto in termini razional-burocratici. Ma questa insufficienza vale anche per l’insieme delle forme del potere contemporaneo.

CP Tu dici che lo stato ha una persistenza strutturale, ma ha una consistenza congiunturale. Non mi è chiaro però in che modo poni il problema del rapporto tra persistenza e mutamento, tra zhou e yi, come si diceva nella metafisica cinese antica. In ciascuna delle succitate teorie dello stato, quella di Marx e quella di Weber, invece, c’era un forte principio di articolazione tra questi due piani.

AR Tanto per Marx quanto per Weber, al di là delle profonde differenze, l’articolazione di persistenza e mutamento si sostiene soprattutto del fatto che non c’è un principio di distinzione tra politica e stato. Nelle categorie di  “storia di lotta di classe” o di “rivoluzione” la politica e lo stato sono indistinguibili. Weber è ancora più drastico: la politica è nient’altro che la conquista e la ripartizione del potere di stato. Il problema che maggiormente mi interessa è, invece, come  trovare un’articolazione di permanenza e mutamento a partire dall’eterogeneità di politica e stato, e soprattutto a partire dalla ricerca contemporanea di una politica egualitaria e di emancipazione che resti indipendente dal potere di stato.

CP Sylvain Lazarus sostiene la tesi della rarità della politica[viii], vale a dire che la politica esiste solo in determinate sequenze finite e che tali sequenze politiche sono l’eccezione, non la regola. Non più “tutta la storia è storia di lotte di classe”, ma la politica è rara, è intermittente. La prospettiva di una teoria congiunturale dello stato sarebbe dunque una conseguenza del carattere sequenziale della politica?

AR Sì, dipende dalla sequenzialità della politica, ma anche dall’eterogeneità tra politica e stato.  Anch’io sono convinto dell’importanza della tesi di Lazarus: la politica esiste solo in determinate sequenze, in generale piuttosto brevi, che si costituiscono come straordinarie rispetto all’andamento ordinario del mondo sociale. D’altronde, il problema del rapporto tra la sequenzialità della politica, da un lato, e la persistenza e il mutamento delle forme del potere statale, dall’altro, va discusso nella prospettiva della discontinuità incolmabile tra politica e stato. Questa è la principale posta in gioco per un pensiero contemporaneo della politica.

CP Certamente, il problema più difficile oggi è cosa possa essere una politica capace di esercitare un’influenza decisiva sull’agire statale, di prescriverne efficacemente un funzionamento a favore della riduzione delle disuguaglianze, pur restando a distanza dal potere statale, pur ragionando da un punto di vista estraneo alla “presa del potere”.

AR È rispetto alla difficoltà di questa ricerca di una politica non di potere che si pone il problema di come concepire una nuova articolazione teorica dei rapporti di politica e stato. È questa la prospettiva da cui siamo spinti a ripensare il nodo di  persistenza e mutamento delle forme statali, nonché il rapporto tra sequenze politiche ed epoche statali.

CP Lazarus sostiene che lo stato è intrinsecamente apolitico, intendendo per politica la ricerca soggettiva di massa di forme di autoemancipazione e di uguaglianza. Vale a dire che nessuna politica di questo genere può essere veramente pensata e praticata dall’interno dello stato, ma può solo essere prescritta allo stato dall’esterno, ragionando dal punto di vista della gente comune, riuscendo cioè a pensare i problemi dello stato da una “distanza politica” dallo stato.

AR Ma questo è il solo destino concepibile per una politica nel nostro tempo. Il resto, anche se si continua a chiamare politica, sono solo le contese, sempre più brutali come si sa, fra governanti o aspiranti governanti, il cui esito è solo distruttivo. Alla tesi di Lazarus aggiungerei che lo stato non è solo apolitico, ma è propriamente antipolitico. È questa refrattarietà dello stato alla politica ciò che determina la sua consistenza soggettiva nei termini del calco vuoto.

CP Dall’interno dello stato si snatura il contenuto di pensiero della politica stessa. Ma come può un “calco vuoto” dare consistenza soggettiva all’agire statale, addirittura imprimergli un dinamismo congiunturale?

AR Il “calco vuoto” va inteso non come il quadro strutturale dell’esistenza dello stato in una certa fase, ma come il processo di svuotamento della politicità dell’ultima grande sequenza. Il dinamismo, l’energia soggettiva che regge l’agire statale dipende principalmente da questo processo. Tuttavia questa energia dell’agire statale è solo  indiretta, parassitaria dell’energia politica precedente, dalla quale ricava le condizioni stesse della sua esistenza e durata. Tuttavia proprio per essere indiretta e parassitaria, questa energia non è illimitata, ma  la sua durata è proporzionale allo svuotamento dell’energia soggettiva della sequenza politica precedente.

CP In realtà ogni sequenza politica è un insieme di molteplicità infinite, è un conglomerato irripetibile di scene, luoghi, voci, attori, punti critici.

AR Dici un “conglomerato” nel senso dell’ultima raccolta di versi di Andrea Zanzotto?

CP Sì, una raccolta di poesie intensissime, ma i conglomerati della politica hanno una logica intrinseca diversa da quelli della poesia. Ciò che hanno in comune  è di essere insiemi di molteplicità infinite. Una sequenza politica è un conglomerato soggettivo irripetibile che ha come posta in gioco l’uguaglianza assoluta, l’uguaglianza di ciascuno al  proprio infinito potenziale trasformarsi e perfezionarsi. D’altronde ogni sequenza politica è una singolarità assoluta.

AR D’accordo, molteplicità illimitata e singolarità assoluta. Ogni sequenza politica ha una sua posta in gioco singolare, ma in epoca moderna essa si configura sempre, in modo ogni volta creativo e originale,  attorno al tema infinito dell’uguaglianza. Tuttavia tale uguaglianza, nello stesso momento in cui viene affermata,  espone l’inconsistenza della finzione dell’ordine statale. L’ordine statale “finge” di potersi rivolgere solo  a delle parti della società, e pretende che le singolarità soggettive possano esistere solo se inscritte in determinate “comunita”. Lo stato-in-sé non ammette mai spontaneamente l’uguaglianza, perché non è minimamente interessato all’inarrestabile divenire dei molteplici slegati. In breve, lo stato-in-sé non ammette mai spontaneamente che ciascuno conti per uno. L’uguaglianza è sempre una forzatura dell’ordine statale.

CP Questo è il problema originario della politica moderna fin dalla disputa del Terzo Stato con Luigi XVI.

AR Saint Just scrisse che l’uguaglianza non significa in alcun modo che uno possa dire ad un altro di avere il suo stesso “potere”, ma che ciascuno possegga una “uguale frazione della sovranità”. È l’affermazione di questa concezione dell’uguaglianza ciò che, ad ogni grande sequenza politica moderna, mette sempre in impasse la finzione della sovranità statale, ne mostra l’inconsistenza fondamentale.

CP Lazarus teorizza che le sequenze politiche, oltre ad essere rare, sono anche brevi, o meglio sono destinate ad una conclusione. Si concludono quando si esauriscono ciò che lui chiama i “luoghi politici”, intendendo forme di organizzazione politica che non dipendono dall’ordine statale.

AR E neppure dall’ordine sociale. Questi luoghi politici sono così precari perché non derivano dalla socialità ordinaria, che non è poi in alcun modo diversa dalle strutture della sovranità statale in un certo momento storico. La società è ordinata da un reticolo di gerarchie rituali di cui la sovranità statale è la regola suprema. Una sequenza politica, intesa come conglomerato di soggettività egualitarie, è sempre un’eccezione tanto nei confronti dello stato quanto della società. Per questo la politica egualitaria moderna si costituisce sempre a una determinata distanza dallo stato. Ovviamente non stiamo parlando di quella che ordinariamente si chiama “politica” , che è solo la brutale concorrenza tra potenti che ambiscono a governare gli altri. Questa competizione burocratica, anche se comunemente viene chiamata “politica”, è una funzione dello stato stesso. Questi potenti sono delle marionette dello stato-in-sé.

CP E’ chiaro che i riti elettorali sono questo tipo di “politica”. Strutturano il consenso dell’opinione pubblica attorno alle competizioni burocratiche tra potenti. La politica o è sperimentazione di potenzialità egualitarie, oppure è il nome vuoto per decorare l’ipertrofia dell’io di chi, non sapendo  bene come disciplinare se stesso, pretende di disciplinare gli altri.  Chi occupa posizioni  di potere a qualsiasi livello corre sempre il rischio di essere una marionetta dentro questo automatismo. Può essere una persona degna solo se fa un serio sforzo di tenere aperto uno spazio per la sperimentazione egualitaria e nello stesso tempo per una supervisione del suo operato da parte delle masse.

AR. Anche questo è un problema originario della politica moderna. Per Saint Just i “magistrati” non possono pretendere di essere al di sopra dei “cittadini”. Indipendentemente dalle qualità personali, rischiano sempre  di identificarsi nelle loro funzioni statali. Mao diceva che il rischio era di diventare dei burocrati.

CL. Lui diceva coloritamente che il rischio è di diventare dei “burocrati- vampiri”. Quando c’è una sequenza politica lo stato è in ombra, è in impasse. Ma cosa succede dello stato quando finisce una sequenza politica?

AR. Quando si esaurisce una sequenza politica, la tendenza spontanea dello stato sarebbe quella di ricostituirsi nella forma precedente alla sequenza politica appena conclusa. Ma ciò è letteralmente impossibile. La mera “restaurazione” è solo uno slogan propagandistico, ma non è mai esistita, così come non può esistere la “negazione integrale”. La nuova consistenza statale non può in alcun modo trascurare che l’ultima sequenza politica ha mostrato l’inconsistenza della precedente forma della finzione statale, anzi cerca di trarre il massimo beneficio da ciò che la sequenza politica ha distrutto di questa finzione. Qualcosa dell’ordine statale precedente è stato irreversibilmente abolito.

CP Una poesia di Mang Ke  dice “Ieri non ha lasciato nulla / tutto quel che doveva portar via l’ha portato via”.[ix]

AR. Forse non “tutto”, ma c’è una parte essenziale del vecchio ordine statale che la sequenza politica di “ieri” ha portato via definitivamente. Il nuovo ordine statale, che esso lo ammetta o no, si appoggia in parte su questa distruzione. In questo senso si può dire che utilizza in positivo ciò che la sequenza politica ha negato del vecchio ordine statale e della sua legittimità. Viceversa, il nuovo ordine statale rovescia in negativo ciò che la sequenza politica aveva affermato, vale a dire la sperimentazione del principio egualitario nelle sue varie forme – organizzate creativamente, sistematiche e dotate di un loro ordine singolare – presentandolo come mera inconsistenza, come fattore della dissoluzione di ogni ordine, e nascondendo dietro a questo l’inconsistenza stessa della finzione statale. Questa specifica negazione della soggettività politica prende sovente la forma di un’auto-negazione da parte degli stessi attori principali della sequenza. Che si tratti di un’auto-negazione dà evidentemente molta più credibilità alla negazione.

CP. Disillusi, convertiti, penitenti di vario genere: è un fenomeno ben noto della politica,  mira a ritrovare un’unità dell’immagine di sé troppo scossa dagli eventi politici. Questa auto-negazione comporta un certo riconoscimento rituale, un’Anerkennen a bassa intensità, ma di solito il nuovo ordine statale resta profondamente sospettoso nei confronti di chi non sia stato prudentemente al riparo da qualsiasi tentazione di partecipare all’ultima sequenza politica.

AR. In ogni caso il dinamismo soggettivo di una determinata congiuntura statale è parassitario della soggettività politica precedente, ma in modo molto contorto. Rovescia il positivo in negativo e il negativo in positivo, scambia il giusto e lo sbagliato, il bene e il male. Il problema è che in un primo tempo questa operazione dà consistenza soggettiva all’ordine statale, ma a lungo termine, una volta che ha parassitato  tutto quel che poteva parassitare della sequenza politica precedente, resta privo di una fonte essenziale di energia soggettiva, benché indiretta o meglio rovesciata.

CP Questa è la prospettiva della logica del soggettivo che troviamo teorizzata in Logiques des mondes di Alain Badiou: il soggetto fedele e il soggetto reattivo.[x]

AR. Ho trovato conferma e grande incoraggiamento nella formalizzazione della logica della soggettività in questa grande opera recente di Alain Badiou, dove dimostra su un terreno filosofico la dipendenza del “soggetto reattivo” dal “soggetto fedele”.  In effetti, è la stessa prospettiva con cui trattavo il nesso tra la Rivoluzione culturale e la sua “negazione integrale”, e più in generale tra una sequenza politica e la successiva congiuntura dei poteri statali. La teoria di Badiou contiene anche un terzo elemento decisivo, il “soggetto oscuro”, quello  che  si instaura quando il “soggetto reattivo” non riesce più a ricavare nulla dallo svuotamento del soggetto fedele: nei miei termini quando il “calco” diventa veramente “vuoto”. Il “soggetto oscuro” cerca di trarre la propria consistenza dalla presupposizione di rappresentare un corpo soggettivo completamente unitario e privo di discontinuità. L’epoca contemporanea pullula di soggetti oscuri, basti pensare alle figure così sinistre dell’identità etnica o culturale.

CP Anche nell’ideologia cinese contemporanea si trova negli ultimi anni una crescente insistenza sul tema della identità culturale, della Zhongguoxing, la cinesità. Ne è stata un esempio la cerimonia inaugurale dei giochi olimpici a Pechino nel 2008, con la regia del celebre Zhang Yimou, che ha  realizzato una coreografia straordinariamente riuscita sul piano spettacolare e certamente con vari meriti artistici. Nella celebrazione dell’esorbitante potenza dello Stato cinese c’era però una vistosa mancanza. Nella rappresentazione della storia della Cina dalle origini era stato omesso accuratamente ogni riferimento alla Cina del Novecento, tranne una bandierina rossa portata da una bambina. Zhang Yimou ha detto di non aver voluto fare politica, ma solo di rappresentare le grandi invenzioni della cultura cinese. Ma cosa sarebbe la Cina di oggi senza le invenzioni politiche della Cina del Novecento?

Il “triplice problema agrario”

AR Nel saggio La dialettica di autonomia e di apertura Wang Hui prende tutt’altra strada: i problemi della Cina contemporanea sono fittamente intrecciati a un bilancio della politica cinese del Novecento. Questi sono i due versanti del testo di Wang Hui e la sua domanda fondamentale è che cosa della tradizione sperimentale della politica cinese, della sperimentazione internazionalista, rivoluzionaria, egualitaria possa avere un valore oggi, possa essere riformulato nelle condizioni odierne. C’è un presente problematico, fatto di una vistosa crescita economica e di un’altrettanto vistosa crescita delle disuguaglianze.  Wang Hui ha ragione a rallegrarsi del fatto che le varie teorie sull’imminente crollo della Cina siano crollate. Ma la sua diagnosi è molto severa e mostra come il presente sia aperto in molte direzioni. Aperto verso la possibilità di inventare nuove vie originali nella politica, nell’economia, nella cultura, ma anche verso l’aggravamento delle disuguaglianze, della polarizzazione sociale, dove lo “sviluppo a tutti i costi” (alla lettera è fazhanzhuyi ovvero developmentalism) nasconde e inasprisce una rete di disuguaglianze  sociali, di oppressione politica ed economica delle grandi masse contadine e operaie. Che la crescita economica cinese sia fondata su un immenso mercato di forza lavoro a  basso costo non solo non garantisce nessuna stabilità, ma lascia prevedere un futuro molto inquietante. L’originalità  della posizione di Wang Hui  è di sottolineare l’urgenza di un atteggiamento inventivo all’altezza delle sfide del presente, ma al tempo stesso di dimostrare che è impossibile un atteggiamento veramente inventivo oggi senza riconsiderare la  tradizione  politica cinese del Novecento, intesa essa stessa come un insieme di ricerche originali di strade nuove. Wang Hui non considera la Cina come un corpo unitario dotato di un’identità presupposta, ma come un campo di possibilità sia nel presente sia nel passato.

CP Nel presente la questione cruciale è quella contadina. Il modello di sviluppo degli ultimi trent’anni ha creato differenze abissali tra città e campagna, non come “effetto collaterale” delle riforme, ma proprio come punto di leva dello sviluppo economico. I contadini  cinesi sono la principale forza motrice dell’attuale “miracolo cinese”. Gli oltre 200 milioni di mingong, forza-lavoro fluttuante, contadini in una perpetua migrazione interna, sono l’ossatura di un mercato del lavoro fondato sull’iperflessibilità: sono i mingong che portano sulle loro spalle i trionfi del neo-liberismo.  Nel guardare l’opulenza delle città cinesi non si può che restare ammirati dai successi ottenuti in soli tre decenni, ma  nel confrontare questi successi con la stagnazione e l’arretramento delle campagne non posso far altro che  pensare che bisogna trovare una strada completamente diversa. Mi sono persino inventata uno slogan in cinese, che dico a tutti gli amici là, chengshi wei nongcun fuwu, “la città al servizio della campagna”.

AR Negli ultimi anni  il governo cinese non ha potuto fare a meno di prendere alcune misure, almeno per limitare gli aspetti più brutali dell’oppressione dei contadini. Ad esempio, c’è stata l’abolizione delle tasse per i contadini, che ha alleviato un fardello altrimenti insopportabile. Bisogna dire che questo è avvenuto a seguito di decine di migliaia di rivolte contadine locali, oltre che del fatto che una parte più illuminata del mondo intellettuale cinese ha sollevato la questione di nuove politiche per le campagne anche attraverso una serie di ricerche specifiche e di proposte teoriche. Sulla rivista che Wang Hui dirigeva fino a due anni fa, Dushu / Readings, c’è stato un vasto dibattito sul san nong, il  “triplice problema agrario” – vale a dire i contadini, l’agricoltura e la campagna – avviato dagli interventi del noto economista agrario Wen Tiejun. La compresenza di rivolte popolari e di attivismo teorico degli intellettuali ha esercitato un’influenza rilevante, ma una nuova strada non è stata ancora trovata ed è chiaro che non può esserlo senza ripensare radicalmente le fondamentali scelte governative sulle campagne e sull’economia in generale. Per citare uno dei problemi più gravi oggi, c’è un crescente indebitamento dei contadini, nonostante l’eliminazione delle tasse. All’orizzonte del perfezionamento dell’economia di mercato in Cina c’è peraltro la decisione di rendere legale la compravendita della terra, che ancora non è formalmente possibile, perché resta di proprietà dello stato. D’altronde, i principali creditori dei contadini sono spesso gli stessi funzionari locali statali nelle campagne, o i membri delle loro famiglie e dei loro clan. Come sia avvenuto questo indebitamento negli ultimi decenni è a sua volta un fenomeno molto contorto. In ogni caso, oggi non si vede come un’estensione completa dell’economia di mercato possa fare a meno della  legalizzazione della vendita delle terre, ma questo porterebbe inevitabilmente alla cessione delle terre dai contadini debitori ai funzionari creditori. Si ricostituirebbe rapidamente un latifondismo, peraltro basato sul funzionariato dello stato socialista, con una radicalizzazione di disuguaglianze al tempo stesso economiche e politiche. L’amalgama di proprietà fondiaria e di funzionariato statale era il fondamento della struttura sociale della Cina imperiale

CP Quale può essere in queste condizioni una “società armoniosa”?  L’aspetto più convincente dell’analisi di Wang Hui è di porre la questione nei termini della soggettività politica dei contadini, e non di un’ingegneria sociale per ridistribuire sul territorio una forza-lavoro agricola in eccesso. Quello della soggettività politica dei contadini resta un problema essenziale in Cina, che non può essere trattato né con gli ideali confuciani dell’armonia né con le intenzioni filantropiche di insegnare ai contadini come destreggiarsi nell’economia di mercato. È chiaro che non si possono riproporre i modi con cui in passato è stato posto il problema della politica contadina, nulla si ripete, specialmente in campo politico, ma anche su questo  problema fondamentale è impensabile che una nuova strada venga trovata senza ripensare la ricchissima tradizione politica  cinese del Novecento, che del resto ha avuto un fondamento essenziale nell’attivismo politico dei contadini. Tutto il percorso della cooperazione agricola dagli anni Cinquanta, come fu documentato appassionatamente da William Hinton nei suoi numerosi libri e inchieste su campo, fu un processo molto inventivo. La stessa fondazione delle comuni popolari nel 1958 fu un’invenzione, e non solo in termini di organizzazione della produzione agricola. Era una sperimentazione  che investiva un’intera gamma di questioni della vita in comune degli uomini e delle donne nelle campagne: le scuole e le cure mediche ebbero un grande sviluppo con le comuni. Oggi occorre certamente anche mettere a fuoco che cosa ha reso possibile la loro soppressione, che fu un processo molto rapido, tra la fine degli Settanta e gli anni Ottanta, accompagnato da un discredito radicale gettato nei confronti di tutto ciò che aveva avuto a che fare con la cooperazione agricola.

AR Il nocciolo dell’abolizione delle comuni agricole è stato anzitutto l’espulsione dei contadini da ogni possibile campo della soggettività politica. La sostituzione di un’organizzazione cooperativa con un’organizzazione familiare della produzione agricola era solo la superficie del fenomeno.

CP Non era affatto autoevidente che l’organizzazione su base familiare fosse più “moderna” di quella cooperativa, specialmente in mancanza di una significativa meccanizzazione delle campagne.

AR Tutto il processo di smantellamento della cooperazione agricola fu accompagnato da un alto tasso di “ideologia”, come si sarebbe detto in termini marxisti, ma, ironia della storia, questa volta l’“ideologia” prendeva le forme proprio di un discorso marxista, anche se in una versione molto economicista e storicista. Il paradosso è che l’abolizione della cooperazione agricola è stata sì una precondizione dello sviluppo di un libero mercato della forza-lavoro, ma le giustificazioni originarie di questa abolizione vennero fatte non nei termini di un’ideologia neoliberista, bensì con un linguaggio formalmente marxista ultra-ortodosso. Le ragioni addotte dal governo cinese per giustificare la soppressione di ogni forma di cooperazione furono che l’organizzazione cooperativa nelle campagne implicava un tipo di “rapporti di produzione” troppo “avanzati” rispetto al livello delle “forze produttive” ancora “arretrate” in quel momento.  Il prevalere dalla fine degli anni Settanta di questa “teoria dello sviluppo delle forze produttive”, che era stata al centro di accesissime contestazioni verso la fine della Rivoluzione culturale, è stata poi la base teorica di quello che Wang Hui chiama oggi lo “sviluppo ad ogni costo”, il developmentalism.

CP Ma anche nel caso di quella che veniva aspramente criticata come “teoria esclusiva delle forze produttive” (wei shengchanli lun) il problema era politico, non economico.

AR Il nocciolo della questione per quanto riguarda le campagne, i contadini e le comuni, era essenzialmente politico e riguardava il progetto di riduzione delle diseguaglianze sociali. In realtà il “triplice problema agrario” non è una invenzione recente, ma in epoca rivoluzionaria era modulato in termini di limitazione delle diseguaglianze. Non era soltanto i tre nong “contadini, campagna e agricoltura”, ma il progetto politico per la riduzione progressiva delle differenze tra “contadini e operai, tra campagna e città, tra agricoltura e industria”.

CP Per la precisione si parlava di ridurre le san da chabie le “tre grandi differenze”, vale a dire le differenze tra città e campagna, tra industria e agricoltura, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale”. Quest’ultima differenza corrispondeva, in termini classici, ai rapporti tra governanti e governati.

AR Le comuni popolari sono esistite esclusivamente all’interno di quel progetto, e sono state eliminate quando sono venuti meno i presupposti politici di quel  progetto egualitario, vale a dire l’idea di una “politica proletaria” che avesse come bussola la riduzione delle diseguaglianze sociali e delle differenze di classe di ogni genere. È quando si è esaurito irreversibilmente il contenuto di “politica proletaria” che le comuni popolari sono state dissolte. La loro esistenza, però, non mirava a stabilire o preservare un’identità, sociale e politica insieme, dei contadini, ma puntava semmai a rimescolare completamente le carte delle divisioni sociali in Cina: far sì che gli operai potessero diventare contadini, e viceversa, che studenti e intellettuali, anziché essere predestinati al ruolo di governanti, si mescolassero con la vita e l’attività delle masse popolari nelle campagne e nelle fabbriche, e al tempo stesso che operai e contadini avessero sempre maggiore accesso alle attività intellettuali. Questo implicava una serie infinita di delicatissime questioni pratiche nelle campagne. Il progetto maoista era di coinvolgere l’intero partito comunista in questa impresa e di fatto, soprattutto negli anni Sessanta, i massimi livelli della dirigenza statale erano coinvolti direttamente “sul terreno” in modo prolungato per la ricerca di soluzioni alle intricatissime questioni della vita politica nelle campagne.

CP Un episodio molto celebre sono le sperimentazioni sull’organizzazione politica delle comuni popolari dell’allora Presidente della Repubblica Liu Shaoqi e della moglie Wang Guangmei – molto più che una First Lady, ma un dirigente politico di primo piano. Al di là dei contrasti con Mao, quel che conta ricordare è che l’intera leadership del partito-stato era spinta a impegnarsi sul campo in un faccia a faccia molto diretto con la soggettività dei contadini. Durante la Rivoluzione culturale questo divenne praticamente un obbligo per tutti i funzionari dello stato ad ogni livello.

AR Oggi questo viene citato come esempio di totalitarismo, paragonato addirittura al gulag staliniano, ma questo è una sciocchezza. Tra l’altro, come ricorda Wang Hui, gli attuali dirigenti cinesi ricavarono da quelle esperienze un bagaglio prezioso di conoscenze dirette della società di base.

CP Possiamo qui ricordare un’inchiesta che facemmo insieme a metà degli anni Settanta, quando soggiornammo un mese in una squadra di produzione di una comune popolare non lontana da Pechino. Lì l’argomento più controverso in tutto il villaggio era che, del gruppo dirigente di cinque persone tre erano donne. Questo aveva creato un certo malcontento fra gli uomini del villaggio, anche perché, tra gli argomenti da decidere, uno dei più delicati era la differenza dei “punti di lavoro” tra uomini e donne. Agli uomini veniva attribuito abitualmente un maggior valore dei “punti di lavoro”, quindi una maggiore retribuzione, anche a parità di lavoro, a partire dal presupposto di una maggiore forza fisica dei maschi. Le tre dirigenti erano invece molto determinate a ridistribuire in modo molto più egualitario i “punti di lavoro”, nell’idea che uomini e donne sapessero fare le stesse cose. E’ chiaro che c’erano implicazioni simboliche riguardanti le differenze di genere che andavano ben al di là della retribuzione. Questo frammento di vita rurale mostra un altro punto di contemporaneità della Cina col mondo, anche in anni in cui la Cina all’apparenza era un mondo a sé. Alla metà degli anni Settanta il femminismo in Europa e negli USA contestava polemicamente il potere maschile con altrettanta determinazione soggettiva di quanto facevano quelle tre contadine. Un argomento molto discusso in quel villaggio, ma lo era anche in città, era che alle donne spettassero i lavori domestici, ovviamente non retribuiti, sulla base di una “naturale divisione sessuale del lavoro”.

AR Considerare i contadini dal punto di vista delle loro capacità soggettive e nella prospettiva di una riduzione delle differenze sociali comportava un groviglio di problemi delicatissimi. Il fatto che tutto il partito fosse coinvolto in questa impresa –era “la città al servizio della campagna”, come dici tu, in un senso politico molto preciso che comportava un forte coinvolgimento soggettivo – creava però una tensione estrema. I funzionari di ogni livello che venivano spinti e perfino obbligati ad andare in campagna dovevano fare uno sforzo enorme, non tanto per adattarsi alle condizioni materiali dei villaggi rurali, dove comunque venivano sempre trattati con molto riguardo, ma per entrare nella complessità soggettiva delle relazioni locali, nell’intrico delle relazioni tra persone, tra dirigenti e diretti, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne, tra villaggi più e meno sviluppati all’interno di una  stessa comune eccetera. In fondo era questo ciò che risultava più insopportabile, diciamo così, alla psicologia del funzionario. Che c’entrava lui con tutte quelle questioni? Credo che l’unanimità, o almeno le scarsissime controversie, con cui nel partito comunista cinese fu accolta la soppressione delle comuni popolari dipese soprattutto da questo elemento.

CP Fu presentata l’organizzazione delle comuni come un misto di militarizzazione della produzione e di parassitismo assistenzialista che penalizzava i contadini più capaci e intraprendenti e favoriva la pigrizia e il lassismo.

AR La soppressione delle comuni fu presentata come la decisione  di funzionari benevolenti che toglievano dalle spalle dei contadini il grave fardello della cooperazione agricola. In realtà erano quei funzionari che si toglievano dalle loro stesse spalle quel fardello di doversi occupare della soggettività politica dei contadini. Molti di coloro che lavoravano negli apparati dello stato detestavano profondamente questo obbligo di mescolarsi a quei problemi, che consideravano lontanissimi dal loro mondo. Nelle famose memorie del medico personale di Mao, Li Zhisui, accanto a numerose storie inventate, c’è almeno una dichiarazione che sembra autentica. Li Zhisui spiega che ciò che considerò personalmente più detestabile durante la Rivoluzione culturale fu il fatto che Mao avesse obbligato lui, come tutti coloro che facevano parte dell’entourage presidenziale, ad andare nelle campagne a partecipare a quelle attività politiche dei contadini. Lui veniva da una famiglia in cui erano medici da molte generazioni, suo nonno erano stato medico della corte Qing, per lui andare in campagna a trattare problemi di politica contadina era assurdo, incomprensibile.

CP Il problema dei contadini è cruciale nella Cina d’oggi. Non è il problema della loro identità sociale, ma della loro soggettività politica, come giustamente sottolineato da Wang Hui. Questo è avvenuto in tutto il Novecento almeno fino alla fine degli anni Settanta. Le comuni popolari erano il terreno di sperimentazione della soggettività politica contadina, ma che cosa ha reso possibile la rinuncia da parte del partito-stato cinese di questa forma di soggettività, cioè dell’intelligenza politica dei contadini?

AR La condizione perché la soggettività contadina fosse una risorsa politica generale era l’orizzonte sperimentale della riduzione delle disuguaglianze sociali.  Ma questo orizzonte si sosteneva di una teoria politica, ma anche di una organizzazione del partito e dello stato, che ad un certo momento è giunta ad un esaurimento intellettuale e politico. Per il partito comunista cinese era la categoria di proletariato la condizione di esistenza della soggettività contadina. Quando con le complesse vicende della Rivoluzione culturale si esaurisce questa categoria politica anche il terreno di sperimentazione di forme di soggettività contadina, vale a dire le comuni popolari vengono soppresse.

La svolta degli anni Settanta

CP Il decennio della Rivoluzione culturale degli anni Settanta costituisce il passaggio più oscuro e più enigmatico nella storia cinese contemporanea, perché lì è situato il nodo di continuità e discontinuità. È chiaro che negli anni Settanta c’è una svolta completa, ma vediamo anche una continuità: l’anno scorso la Repubblica popolare ha celebrato il suo sessantesimo anniversario e l’anno prossimo il Partito comunista cinese celebrerà il suo novantesimo anniversario. Tutto questo in un mondo in cui sono totalmente scomparsi i partiti comunisti e gli stati socialisti. Si può certamente pensare che questa continuità del partito-stato cinese abbia a che fare con la sua capacità di trattare la discontinuità degli anni Settanta. Tu diresti, a questo punto, la forza della  “negazione integrale”, del “calco vuoto”.

AR Certo c’è stata la forza della negazione, ma soprattutto il processo degli anni Settanta è stato un processo estremamente denso. Deng Xiaoping guida una svolta depoliticizzatrice, ma l’efficacia di questa svolta, da un lato, è inversamente proporzionale alla forza delle questioni politiche nel decennio della Rivoluzione culturale e, d’altro lato, dipende dalla capacità di Deng di intervenire sui punti chiave.

CP La Rivoluzione culturale è presentata comunemente come il puro disastro e Deng come il salvatore della Cina da questo disastro.

AR La situazione non era affatto un disastro né economicamente né politicamente. Deng è colui che riesce a guidare una complessa operazione di ripristino dell’ordine statale, che certamente è depoliticizzante, ma la cui forza sta nel saper identificare i punti di leva su cui operare per realizzare questo riordino depoliticizzante dello stato. L’anno chiave della svolta è il 1975. Anno densissimo, imperniato su una intensa disputa teorico-politica tra Mao e Deng. Per quanto pochissimo studiata sia in Cina sia all’estero, quella disputa fu decisiva e toccò l’intera gamma dei problemi politici della crisi del socialismo che la Rivoluzione culturale aveva fatto apparire.

CP Deng tendeva a presentare tutto come un problema economico, per esempio con la teoria delle forze produttive. La grande riuscita delle sue riforme è stata la creazione di uno spazio economico indipendente extra-statale, anche se è evidente che la creazione dell’economia di mercato è sempre stata guidata  da una serie di interventi statali, il funzionariato del partito-stato vi ha svolto un ruolo cruciale.

AR Oltre tre decenni di riforme sono un periodo molto lungo, al cui interno ci sono state fasi diverse, ma un punto decisivo è stata la capacità di Deng Xiaoping, a metà degli anni Settanta, nell’ultimo biennio di Rivoluzione culturale, ben prima dell’inizio delle riforme, di intervenire simultaneamente sia sul terreno politico sia su quello economico, e soprattutto di situare questi interventi su un orizzonte mondiale.

CP Le condizioni politiche erano il bilancio della Rivoluzione culturale. I suoi slogan sul “poco importa se il gatto è bianco o nero, purché acchiappi i topi”, o “arricchirsi è glorioso” finivano in fondo per autorizzare la negazione di qualsiasi principio di etica della politica dell’eguaglianza, e persino di giustizia, perché qualunque mezzo poteva essere usato allo scopo. Se lo hanno detto pragmatico forse non avevano del tutto torto. In fondo preparava il terreno al neo-liberismo con la sua deregulation.

AR Credo però che, anche se ci teneva ad apparire pragmatico, Deng era molto attento alle questioni ideologiche, altrimenti non sarebbe riuscito nell’operazione di “negare” la Rivoluzione culturale. La sua negazione, anche se l’ha chiamata “integrale”, è stata molto selettiva, per le ragioni che ho detto prima.  La sua grande capacità è stata quella di capire il nodo delle condizioni politiche ed economiche della Cina nella congiuntura mondiale e di  intervenire con molta precisione e determinazione.

CP Si possono distinguere delle condizioni economiche in quanto tali in quel momento?

AR Penso di sì. Sul piano economico negli anni Settanta si stanno profilando le condizioni tecniche e finanziarie dei processi che poi verranno chiamati della globalizzazione. Almeno tre sono decisivi: uno è il passaggio dal capitalismo stanziale al capitalismo nomade, come ha scritto Pierre Giraud[xi]. Gli altri due sono l’inizio di quella che è stata chiamata la rivoluzione logistica e infine la ben nota rivoluzione informatica. Quanto a quest’ultima, il protocollo fondamentale con cui funziona Internet, il TCP PHP che tutti usiamo correntemente, è stato pubblicato ufficialmente da due scienziati americani nel 1974. La pubblicazione di quell’algoritmo annuncia a chiare lettere agli esperti che lo sanno leggere – e certamente nel governo cinese di questi esperti non ne mancavano – che sono state raggiunte le condizioni tecniche per un’accelerazione senza precedenti della trasmissione di informazioni e di dati. Ciò che fino a quel momento era un dispositivo di trasmissione di informazioni militari creato dal Pentagono, si stava trasformando in uno strumento a disposizione di qualsiasi altro uso, come oggi vediamo. Anche la rivoluzione logistica prende forma all’inizio degli anni  Settanta, con la tecnologia dei container, sviluppata attorno alle esigenze dei trasporti bellici americani verso il Vietnam, e che a metà degli anni Settanta si dimostra di essere assolutamente competitivo sul piano economico, perché abbatte radicalmente i costi dei trasporti per mare. Da quel momento si generalizza la produzione di navi porta-container che portano ad una trasformazione radicale del trasporto marittimo. Questi fattori tecnologici favoriscono il nomadismo dei capitali perché annunciano una rottura di qualsiasi barriera tecnica che separava i luoghi di produzione dai luoghi del consumo.

CP Ma tutto questo è dell’ordine dell’economia, non della politica. D’altronde senza delle scelte politiche queste possibilità economiche non è detto che avrebbero potuto svilupparsi, almeno nelle forme attuali.

AR Sul piano della politica le condizioni erano molto in  bilico, la situazione era incerta e aleatoria. Il punto chiave della Rivoluzione culturale era stata l’esistenza di organizzazioni operaie indipendenti dal Partito comunista. La famosa Tempesta di gennaio del 1967 di Shanghai – in realtà un evento molto pacifico – era stata determinata esattamente da questa novità politica. Un elemento strutturale della stabilità dello stato socialista e del partito era l’iscrizione statale della figura operaia. Non a caso lo stato socialista si chiamava “dittatura del proletariato”. Quando degli operai cominciano ad organizzarsi al di fuori del controllo dello stato-partito, ma al tempo stesso si proclamano comunisti e rivoluzionari, come avviene a Shanghai nel 1966-67,  i fondamenti della “dittatura del proletariato” vacillano pericolosamente. Tutta l’instabilità della Cina degli anni successivi è legata al problema di quale posto dare a questa novità politica.

CL In realtà in quegli anni sono in corso delle sperimentazioni politiche proprio in questa direzione: le “cose nuove socialiste”, le “università operaie”, i “comitati rivoluzionari”, i “gruppi teorici” di operai, ecc. Alcune delle campagne politiche di quegli anni vanno anche in questa direzione, come  per esempio il Pi Lin pi Kong [Movimento di critica a Lin Biao e Confucio] del 1973-74 o la “Campagna per lo studio del diritto borghese” del 1975, o anche quella per la valutazione delle posizioni politiche incarnate dai personaggi del romanzo classico Shuihu zhuan [in italiano tradotto col titolo I briganti]. Tutti questi movimenti non erano affatto retorica propagandistica, ma facevano leva sulle capacità critiche dei gruppi teorici operai che si lanciavano in dispute assai rare sullo studio della storia cinese fin dalle origini.

AR La metà degli anni Settanta è un momento di grande ricchezza ma anche di instabilità, perché tutte quelle iniziative politiche non trovano un posto  predeterminato nello stato-partito. Questi esperimenti derivano da formazioni politiche sorte all’esterno del partito comunista, il quale peraltro proprio dall’esistenza di quelle formazioni esterne era stato messo in una seria impasse. Mao fino alla fine spera che queste spinte politiche esterne al partito riescano a rivitalizzare il partito stesso, ma non intende assolutamente rinunciare alla forma del partito. La divergenza che si apre con Deng è che mentre per Mao l’instabilità portata da queste sperimentazioni era salutare, per Deng era solo fonte di disordine da eliminare.

CP Con la creazione delle organizzazioni indipendenti da parte degli operai all’inizio della Rivoluzione Culturale, la categoria stessa di proletariato era stata attraversata da un tumulto interno, e questo tumulto faceva vacillare la forma partito e tutto ciò che aveva a che fare con la rappresentazione di classe degli operai nello stato.

AR Si era riaperta alla radice il problema della soggettività politica operaia. Deng capisce anche lui chiaramente che la categoria di proletariato non è più in grado di tenere l’ordine statale. In effetti, sia Mao che Deng hanno vari punti in comune nella disputa del 1975. Nessuno dei due vuole rinunciare al partito, e d’altronde entrambi sono consapevoli della precarietà della categoria di proletariato dopo la Rivoluzione culturale. Mao dichiara apertamente nel 1975 – pochi lo ricordano oggi, ma fu una dichiarazione cruciale – che la categoria di dittatura di proletariato è quanto di più oscuro ci sia in quel momento nella cultura politica comunista. Deng comprende perfettamente che la categoria di proletariato non può più essere un fondamento di stabilità dell’ordine statale.

CP Dici dunque che Deng opera una “depoliticizzazione” della categoria di proletariato ed è proprio su questo che fa leva per tutto il suo progetto di riforme.

AR Depoliticizza sì, ma prende la mira in modo molto preciso. Nel 1975 Deng non parte da una “negazione integrale” della Rivoluzione culturale, ma dalla negazione di tutte le sperimentazioni che erano in corso per cercare un nuovo valore politico della figura operaia, e rigetta tutti i luoghi in cui queste sperimentazioni avvenivano come focolai di instabilità.

CP Qui tu diresti che è all’opera il “calco vuoto”.

AR Il “nuovo ordine cinese” è un ordine statale privato della figura politica operaia, la quale viene ridotta ad un ruolo rituale. È grazie a questo “svuotamento” che Deng ha potuto far svolgere al “nuovo ordine cinese” quel ruolo così decisivo nell’evoluzione politica ed economica del mondo contemporaneo, anticipandone e indirizzandone delle tendenze fondamentali.

CP Di solito si riflette molto poco sul fatto che dall’assentamento della figura politica operaia in Cina siano venute conseguenze di tale significato epocale a livello mondiale.

AR È stata anche decisiva la precisione con cui Deng intervenne nel 1975 su alcuni punti chiave della situazione per operare questo svuotamento depoliticizzante.

CP Una precisione “chirurgica”, come si suol dire.

AR Quel che ha fatto Deng è paragonabile a certe tecniche degli antichi ingegneri idraulici cinesi i quali, tagliando il corso di un fiume in un solo punto, erano capaci di irrigare una intera regione. È impressionante visitare Dujiangyan nel Sichuan, un paesaggio spettacolare, dove ancor oggi quel piccolo taglio regola il corso del fiume permettendo l’irrigazione della regione. In fondo l’arresto della “banda dei quattro” è un limitatissimo colpo di stato, uno dei più incruenti della storia, con cui lo stato cinese Cina cambia il suo corso che perdura fino ad oggi.

CP Il presente della politica mondiale è quello che assieme a Wang Hui chiamiamo “depoliticizzazione”. L’evoluzione della Cina contemporanea ha svolto in questo un ruolo decisivo.

AR I due punti chiave della depoliticizzazione contemporanea sono la crisi dei partiti politici e l’annichilimento politico della figura operaia: questi due elementi sono intrinsecamente legati. Il paradosso più vistoso, ma anche quello che fa apparire l’essenza del fenomeno, è che proprio il partito comunista cinese, che è stato fin dalla fine degli anni Settanta quello più impegnato nell’annichilimento  della figura politica operaia, sia oggi il partito-stato che sembra godere di maggior salute al mondo. Possiamo dire che l’assentamento della figura politica operaia è il fantasma del partito comunista cinese, il quale nel suo statuto continua a chiamarsi “avanguardia del proletariato”.

CP Strano destino di questo fantasma del comunismo che si aggira oggi in Asia.

* da Inchiesta, n. 168, 2010


[i] Wang Hui Il nuovo ordine cinese, Roma, Manifestolibri, 2007.

[ii] Id., Impero o Stato-Nazione? La modernità intellettuale in Cina, a cura di Gaia Perini, Milano, Academia Universa Press, 2009.

[iii] Un’altra Cina. Poeti e narratori degli anni Novanta, a cura di Claudia Pozzana e Alessandro Russo, numero speciale di “In forma di parole”, n. 3, 1999

[iv] Wang Hui, Il nuovo ordine cinese, cit.

[v] C. Pozzana e A. Russo, “China’s New Order and Past Disorders”, in Critical Asian Studies, n.2, 2006. In italiano: “Il nuovo ordine cinese e i passati disordini”, in Cina e capitalismo: un matrimonio ‘quasi’ riuscito, a cura di Oscar Marchisio, Milano edizioni Sapere2000, 2007

[vi] A. Russo, “How to translate Cultural Revolution?”, Inter-Asia Cultural Studies, n. 2, 2006.

[vii] A. Russo, “Com’è finita la Rivoluzione Culturale? L’ultima disputa tra Mao Zedong e Deng Xiaoping e gli anni Settanta in Cina”, in Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, a cura di Alberto De Bernardi, Valerio Romitelli e Chiara Cretella, Bologna, Archetipo, 2009

[viii] Sylvain Lazarus , Anthropologie du nom, Paris, Seuil, 1995

[ix] Vedi Nuovi poeti cinesi, a cura di C. Pozzana e A. Russo, Torino, Einaudi, 1996.

[x] Alain Badiou, Logiques des mondes, Paris, Seuil, 2007

[xi] Pierre Giraud, L’inégalité du monde, Paris, Seuil, 1998.

 

 

 

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