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Costruire le “Sanctuary Towns” del lavoro migrante e precario

 

di SANDRO CHIGNOLA

Siamo stati abituati nel ciclo di lotta apertosi con Genova, e in molti casi obbligati a questo dalla necessità di rovesciare la retorica del discorso pubblico securitario, a trattare le migrazioni come processi di soglia. A vedere, cioè, il migrante come sempre in ingresso o sull’orlo dell’espulsione. Questa interpretazione si è rafforzata con la serie di mobilitazioni europee contro la Fortress Europe di Schengen e i Centri di detenzione, e con quelle nazionali e territoriali contro la Bossi-Fini prima, e poi, con la serie di normative delle amministrazioni locali (leghiste e non solo) che imponevano criteri di abitabilità iperpunitivi allo scopo di rendere impossibile l’ottenimento del permesso di soggiorno o la certificazione della residenza. Sempre in questi termini, spesso, abbiamo tendenzialmente considerato il lavoro migrante. Lavoro per lo più precario o autonomo, fatto di un’impiegabilità informale e in molti casi estremamente ricattabile, in cui il contratto di lavoro agisce da dispositivo di traduzione dello status giuridico (da clandestino a immigrato legale) e da macchina di soggettivazione a tempo (per la durata del contratto hai uno status che ti può sempre essere sottratto). E’ stato indubbiamente giusto impattare questi processi, ed in particolare contrastare le tecnologie neoliberali di governo delle migrazioni, in questa forma, e cioè rivendicando la mobilità come un diritto e interpretando la messa al lavoro secondo regimi giuridici differenziati e revocabili come ciò che si disponeva a filtrarla, imbrigliarla, rallentarla o accelerarla secondo le convenienze dell’accumulazione capitalistica. E tuttavia c’è forse un passo ulteriore che deve essere fatto. Dal 19 luglio 2001 ad oggi sono passati più di dieci anni. Dieci anni in cui le migrazioni hanno consolidato i propri effetti, prodotto significative radicalizzazioni rivendicative sul terreno del lavoro e su quello della riproduzione sociale, costruito percorsi organizzativi autonomi, disegnato traiettorie circolari come mezzo per affrontare la crisi sfruttando a proprio vantaggio le risorse dei sistemi di Welfare dei paesi di origine e di destinazione del progetto migratorio; dieci anni in cui si sono sedimentate altre contraddizioni…

I “migranti” sono in moltissimi casi qua da anni, hanno fatto figli e nipoti, e sono parte significativa della composizione di classe del precariato metropolitano. Se si guarda con un occhio attento al ciclo di mobilitazioni sulla scuola degli ultimi tre anni, è significativa la presenza di studenti e studentesse sulla cui vita la crisi ha scavato davvero: precari figli di precari, “migranti” di seconda o di terza generazione anche se in molti casi nati in Italia o in Europa, trattenuti in attesa di una cittadinanza italiana che potrà arrivare solo al compimento del 18esimo anno di età e non in tutti i casi. Se ne è accorto, mentre scrivo queste note, addirittura Napolitano. Soggetti che conoscono l’illegalità e lo sfruttamento attraverso le esperienze di parenti, amici, connazionali nella vita dei quali condizioni di clandestinità formali e informali, periodi di lavoro regolare, rientri nei paesi di origine voluti o meno, descrivono uno stato di eccezione permanente, rispetto ai diritti di cittadinanza. E non solo: soggetti permanentemente ricattati dal debito e dal supplemento interno che la loro identità visibilmente non europea scava sul mercato del lavoro. Soggetti ai quali la linea del colore traccia limiti ancora più rigidi di mobilità e per i quali la formazione è direttamente pensata – nella riforma Gelmini – come bassa professionalizzazione, diretta impiegabilità ricattata, apprendistato obbligatorio, via di accesso laterale ai gironi più bassi del mercato del lavoro. Davvero non sono molti i figli di “migranti” all’interno dei licei. E ancor meno lo sono quelli che studiano all’università.

Le nostre città sono cambiate con i migranti. E credo che dovremmo porci il problema di capire che cosa sono gli spazi metropolitani che abbiamo davanti come luoghi di territorializzazione del conflitto. Almeno due cose mi interessano a quest’altezza. La prima riguarda i circuiti della messa a valore. Il tipo di spazialità, cioè, che si disegna nei tracciati della logistica e della mobilità comandata dei “migranti”, nella serie di barriere, limitazioni, frontiere interne, dislivelli temporali, che incontra la riproduzione sociale del precariato metropolitano. Detto altrimenti: l’impossibilità di mappare in termini lineari il multiversum che quest’ultimo rappresenta vivendo e riproducendosi sui binari a diverse velocità dell’impiegabilità differenziata. E quali luoghi corrispondano – come frames per la messa a valore del lavoro vivo e come spazi di soggettivazione politica – a questa composizione sociale.

La seconda questione che mi interessa è invece attraverso quali dispositivi formali e informali ne venga organizzato il governo. Uno spazio metropolitano è fatto di zone di attesa, recinzioni informali più o meno chiuse, autentici ghetti, ma è fatto anche di “buchi” attraverso i quali si organizzano dispositivi di sottrazione e di fuga; è fatto di basi irregolari nelle quali si formano solidarietà e si addensano, rispetto ai flussi lisci delle informazioni e delle merci, canali di redistribuzione della ricchezza sociale, poli di organizzazione autonoma del Welfare, forme di comunicazione semistituzionale in relazione alle occasioni di lavoro, alle modalità di contrattazione dell’impiego, mobili strutture di cooperazione in risposta alla crisi del pubblico. E’ su questo secondo lato della questione che occorre, a mio avviso, concentrarsi. Governare questo sistema non significa porlo sotto controllo. Al contrario significa spesso, e per le stesse istituzioni della governance metropolitana, doverne sfruttare la potenza di impresa, le capacità “sociali”; significa, per lo più, sviluppare, in termini adattivi, la propria abilità di captarne, funzionalizzandole a scopo di conservazione sistemica, l’autonomia.

Gli spazi della metropoli sono spazi ibridi ed ibridati; sono dispositivi che organizzano la, e che si organizzano per mezzo della, stratificazione di temporalità differenti. E il migrante, inteso come soggetto nel duplice senso di colui che è ad essi assoggettato e che, tuttavia, tutti quegli spazi attraversa anche solo per la complessità della propria storia familiare, ne rappresenta in qualche sorta il protagonista idealtipico. I tempi dei quali parlo sono gli strati della valorizzazione capitalistica, quelli che sfruttano il cleavage tra il tempo velocissimo della digitalizzazione finanziaria degli scambi e il tempo molto più lento e vischioso della fatica; tra l’astrazione della merce e dello scambio e la materialità di mansioni di riproduzione che affidano il welfare alla cura privata. Resto sulle generali, ma spero si capisca cosa intendo dire. Gli spazi della metropoli sono fatti della contraddittoria aggregazione di luoghi percorsi da temporalità e da vettori di assoggettamento e di soggettivazione differenti e non riducibili. Un esempio può forse chiarire a cosa alludo e introdurci al problema politico del governo della metropoli. Una metropoli è governata attraverso il dispositivo informale che costruisce il nemico da colpire, lo spacciatore clandestino, ma che non mette al lavoro lo stesso codice quando si tratta di utilizzare il lavoro, altrettanto clandestino, delle badanti. Il ricorso alla sanatoria per queste ultime, in buona parte rimasto lettera morta, illustra in modo piuttosto chiaro il flessibile meccanismo posto in essere nella quotidianità alla quale si applicano le tecnologie del governo. Ma in modo molto più chiaro lo dimostrano gli spazi – spesso autentiche zone franche rispetto ai luoghi di concentrazione di altri traffici illegali – all’interno dei quali, nelle metropoli occidentali, si autoperimetra il mercato del lavoro di cura. Stazioni, parchi, bar funzionano, nelle nostre città, come hubs del lavoro migrante femminile e come i dispositivi di devoluzione del welfare all’autoregolazione privata. La metropoli è fatta dunque della contraddittoria aggregazione di circuiti della rendita finanziaria e dell’indebitamento coatto di precari, studenti e migranti, di lavoro autonomo e di lavoro nero, ma anche di forme attraverso le quali viene devoluta alla capacità di fare società dei privati – con tutte le aporie e le stridenti contraddizioni che ne derivano – una quota crescente della sussidiarietà evocata con la destrutturazione del welfare. Si tratta, a mio avviso, di una situazione che può essere politicamente forzata.

Lo spazio della metropoli è descritto da vettori di forza. Da un lato le tecnologie della governance e la loro adattabiltà flessibile: secco controllo, captazione, devoluzione. Dall’altro, l’autonomia dei rapporti che la governance sfrutta come rilancio per la moltiplicazione dei dispositivi di governo: l’economia informale, i mercati del lavoro paralleli in cui si tratta il lavoro nero dei clandestini, la rendita finanziaria delle rimesse all’estero, l’affidamento di settori interi del welfare allo scambio “privato” tra cittadini (spesso non solo “indigeni”, per così dire) e baby sitter o badanti straniere, nel quale una larga offerta e una larga domanda di lavoro si incontrano senza tenere conto dei rigori della legge o della fiscalità generale.

Credo che, senza farne un’ingenua apologia, si possa parlare di luoghi e di istituzioni sui quali possa far leva l’autonomia del precariato migrante. Negli USA, in risposta allo Illegal Immigration Reform and Immigrant Resposibility Act del 1996 che imponeva ai governi locali di collaborare con il Department of Homeland Secutity Immigration and Customs Enforcement, molte grandi città, ma anche piccole cittadine hanno preso a dichiararsi “Sanctuary Towns”, rifiutando di denunciare gli immigrati clandestini presenti sul loro territorio. La lista delle realtà metropolitane che hanno messo formalmente per iscritto questa dichiarazione al termine di deliberazioni pubbliche, o che ne hanno comunque adottato le pratiche, è impressionante: la mappa delle “Santuary Towns” copre quasi per intero il territorio USA (http://www.sanctuarycities.info/) configurando non solo un network di realtà solidali con i rifugiati e i clandestini, ma un autentico dispositivo di “sfida” delle autorità federali. Ciò che viene contestato al potere centrale è il profilo ideologico della caccia al clandestino. E cioè il fatto che a livello metropolitano, laddove la funzione di governo si demoltiplica e impatta senza filtri la realtà, il lavoro dei clandestini viene riconosciuto come irrinunciabile e necessario: da un lato, per la serie di mansioni che esso assolve (dal lavoro di cura al lavoro operaio), dall’altro perché è sul differenziale di salario che l’importazione di “illegal aliens” rende possibile, che si impenna drasticamente il saggio di profitto. “Sanctuary Towns” sono molte grandi metropoli del lavoro cognitivo (da New York a Los Angeles, da Miami a Detroit…), ma anche molte piccole cittadine agricole dell’Arizona o della Bassa California nelle quali sono i migranti centroamericani ad essere schiavizzati nei campi.

La destra repubblicana attacca in termini roboanti questa politica del “don’t ask, don’t tell”. Il rifiuto di collaborazione con le istituzioni federali – una collaborazione impossibile in parte perché tacciabile di “collaborazionismo” con le politiche di restrizione del diritto di migrare da parte dell’elettorato meticcio davanti al quale le amministrazioni locali sarebbero chiamate a rendere conto, in parte perché le stesse imprese che sfruttano gli “illegal aliens” si troverebbero in evidente ed immediata difficoltà, qualora i lavoratori stranieri venissero, come pretende la legge, denunciati e rimpatriati – mostra tuttavia, e non solo nelle formali dichiarazioni dei consigli comunali e delle assemblee metropolitane, un lato non ascrivibile semplicemente o soltanto al desiderio del “non vedere” la realtà. Al contrario, esso dimostra, io credo, un lato positivamente costituente, che vale la pena di analizzare brevemente. Cosa significa isolare e rivendicare come tali, nel circuito della valorizzazione capitalistica e come possibilità per la governance degli spazi urbani, “zone franche”, “autonome”, “Sanctuary towns”, all’interno delle quali venga esercitato un diritto apertamente derogatorio, costituente proprio per il suo essere destituente rispetto ai quadri del diritto pubblico, sulla base dell’incitazione della composizione sociale materiale dei governati? Ragionare sul Welfare e la sua crisi e su di un Commonfare in fase di rivendicazione costituente in rapporto ai migranti significa  a mio avviso ragionare non tanto sulle modalità di ristrutturazione compensatoria delle comunità come nodi informali di passaggio di informazioni (sulle case da occupare o sulle occupazioni e gli sfratti da difedere, come sa chi su questo ha provato a costruire materiali esperienze di lotta, sulle occasioni di lavoro, sulle modalità per mezzo delle quali attraversare le maglie della regolarizzazione, sulle possibilità di sindacalizzazione autonoma del precariato migrante), ma sulla possibilità di sfruttare a proprio vantaggio i meccanismi di devoluzione che l’amministrazione pubblica, spesso in termini sottaciuti e silenziosi, pone in essere per ammorbidire la ruvidità della crisi.

La faccia feroce rivolta al clandestino, mostra sull’altro lato uno sguardo miope: lo sguardo che preferisce non vedere i luoghi in cui i migranti irregolari organizzano informalmente le camere del lavoro di cura, formano cooperative, riproducono settori di imprenditorialità autonoma per i quali lavoro regolare e irregolare, in rapporto al permesso di soggiorno, sono di fatto la stessa cosa, si appoggiano a centri sociali o associazioni per autogestire corsi di lingua o di informatica, asili o doposcuola. Si tratta di forme, la cui cattura nella “tolleranza silenziosa” dell’amministrazione, esplicita la natura di un’autentica tecnologia di governo della crisi, da parte di quest’ultima. Organizzare la governance della metropoli significa, in questo caso, devolvere alla società civile una serie di compiti informali di “governo”, rispetto a situazioni, problemi, emergenze, che i poteri pubblici non sono più in grado, per la crisi fiscale che travolge gli Stati, oppure, per l’impossibilità materiale di implementare le enunciazioni ideologiche delle restrizioni di legge al diritto di cittadinanza, di affrontare.

Questa la situazione che abbiamo di fronte, io credo. E allora? Allora, io credo, si tratta di entrare in questa situazione forzando le possibilità che abbiamo a disposizione per occuparne gli spazi con un’istituzionalità autonoma. Rivendicare i tracciati della soggettività esodante di precari e migranti come le “Sanctuary Towns” della metropoli meticcia è il compito politico che possiamo proporci. Non solo costituire le camere del lavoro e del non lavoro in cui lavoro “regolare”, “nero” e “precario” possano incrociare le loro rivendicazioni e organizzare le loro lotte, ma sfruttare i meccanismi di devoluzione del Welfare per rovesciarne significato e tendenza, riappropriandosi del valore immediatamente “istituzionale” della cooperazione sociale. Sfidare le tecnologie di governo della crisi significa attivare processi di istituzionalizzazione in grado di contrattare da una posizione di forza con le amministrazioni metropolitane. Significa, il mio discorso vorrebbe essere alquanto concreto, non solo mettersi sulla scia di sperimentazioni in corso in alcune grandi città italiane – che affidano ai centri sociali, riconoscendone di fatto funzione e competenze, l’intervento sull’emergenza freddo che mette a rischio gli Homeless -, ma radicalizzare l’interlocuzione con le amministrazioni pubbliche svuotando di senso la differenza tra clandestini e regolari e costruendo situazioni per una nuova istituzionalità autonoma capace di organizzare e gestire pezzi importanti della riproduzione sociale politicizzando e soggettivando la parzialità di cui sappiano farsi forti. Se questo vale per student* e precari* , che hanno saputo rivendicare e organizzare percorsi di autoformazione e di circolazione dei saperi sottratti alla burocratica contabilità dei crediti universitari, ancora di più dovrebbe valere per l’organizzazione e la “sindacalizzazione” del lavoro migrante. Del lavoro vivo che, talvolta interstizialmente, talvolta in maniera aperta e conclamata, rivendica la propria incomprimibilità, la propria non catturabilità, nei dispositivi di legge preposti al governo delle migrazioni.

È ovvio che non intendo, con queste note, proporre un’apologia della sussidiarietà o dei compiti di “assistenza sociale” ai migranti. Chi pensasse di provarci, magari per lucrare qualche minimo spazio sul margine della rappresentanza politica, troverebbe ben più attrezzati ed introdotti centri di potere e lobbies in grado di svolgere – e, non è difficile ammetterlo, sicuramente meglio – quel compito. Ciò che intendo valorizzare invece, sulla traccia di uno sguardo, quello del movimento di autorganizzazione dei migranti che negli ultimi anni ha mostrato una notevole e tendenzialmente crescente maturità politica, è la capacità di fare società, di autodeterminare le proprie scadenze e le proprie campagne; ciò che intendo porre in primo piano è la soggettività moltitudinaria e meticcia che ha installato le sue posizioni nell’autonomia che ha saputo conquistarsi rispetto al sistema politico e alla governance amministrativa.

Lavorare all’apertura di spazi di istituzionalità del comune, liberare “sanctuary zones” nella cupa luce della metropoli della precarizzazione e del controllo, incrociare battaglie per il reddito e riappropriazione di segmenti del welfare dismessi dallo Stato, organizzare la conflittualità sindacale abbattendo materialmente la soglia che divide lavoro “regolare” e “clandestino”, rivendicare i circuiti di autorganizzazione della riproduzione sociale già esistenti come perni per la costruzione dal basso della nuova cittadinanza meticcia, sono i compiti, credo, che abbiamo davanti per un nuovo antirazzismo europeo.

 

 

 

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