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Demolire la casa del padrone

 

di ANNA CURCIO

Recensione di Femministe a parole. Grovigli da districare (eds. S. Marchetti, J. Mascat, V. Perilli – Ediesse, 2012, pag. 363)

“Gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone”. Così scriveva Audre Lorde in un potente intervento pubblico dell’inizio degli anni Ottanta. Era in gioco lo statuto stesso del femminismo, con la sfida aperta che le militanti nere (e più complessivamente le “donne povere, nere, del terzo mondo e lesbiche” come la stessa Lorde aveva scritto) avevano lanciato contemporaneamente al patriarcato razzista imperante e all’universalismo del femminismo bianco eterosessuale di classe media che aveva fino a quel momento tirato le fila del dibattito. Si trattava, detto altrimenti, di ridefinire gli strumenti di una lotta che assumeva il linguaggio come campo di battaglia, imponendo la parola – fino a quel momento taciuta – delle donne nere.

Ricalibrata nel presente, un’operazione per certi versi analoga può essere attribuita a Femministe a parole. Grovigli da districare (Ediesse 2012, p.363, 18,00 euro) a cura di Sabrina Marchetti, Jamila Mascat e Vincenza Perilli. Un mosaico ricco di spunti e suggestioni, immagini e narrazioni che sfida la dimensione normativa di un certo femminismo dominante in Italia e prova a ridefinire le coordinate del dibattito. Un’operazione a tratti riuscita, si potrebbe dire ad alcuni mesi dalla pubblicazione, visto che il volume osteggiato dal mainstream del femminismo italiano ha invece avuto ampia circolazione soprattutto tra giovani e giovanissime donne e uomini. Una lettura dunque attraente per tante e tanti che si accostano per la prima volta al dibattito femminista ma anche per chi è alla ricerca di uno sguardo femminista critico o più semplicemente di chiarimenti, spunti e nuove argomentazioni. Il volume porta allo scoperto diversi e molteplici femminismi.

“Misurarsi con quelle parole e quegli argomenti su cui, per le femministe, pronunciarsi è diventato sempre più complicato” scrivono le curatrici nell’introduzione. Da qui un dizionario ragionato. Quarantanove i lemmi presenti: dai “classici” del dibattito femminista (Sesso/genere, Razza, Classe, Autodeterminazione, Differenza, Lesbica, Prostituzione, e poi Backlash, Bianchezza, Cittadinanza, Femminismo transnazionale, Intersezionalità, Anticolonialismo) a questioni di più cogente attualità (Biomedicina, Globalizzazione, Migranti e Generazioni migranti, Maternità surrogata, Modificazioni, Omonazionalismo, Postporno, Veline, Queer). Ma ci sono anche voci che sembrano spiazzare i canoni più tradizionali di un discorso ancora troppo ingessato intorno al tema della differenza sessuale: tra questi senz’altro il lemma Uomo. “Significante assoluto” dei dispositivi discorsivi, soprattutto occidentali, da decostruire per “smascherare” l’eteronormatività come oppressione delle minoranze sessuali e di genere. Femministe dunque che fanno i conti con le parole, con i rapporti di potere che queste implicano e producono e con lo spazio di resistenza e sovversione a cui danno forma. E proprio per questo femministe “nei fatti”, non “a parole”. Anzi l’ironia sottile nel titolo del volume è la misura della consapevolezza dell’uso “affatto neutro” e tutto politico del linguaggio e insieme la forma della violazione dei suoi dogmi e canoni.

Più complessivamente, il volume raccoglie i contributi di un paio almeno di generazioni di femministe. Teoriche e militanti, per la gran parte precarie, spesso costrette a barcamenarsi – dentro e fuori l’accademia – tra la propria sensibilità femminista e l’ansia disciplinare delle università italiane. E se alcune voci sono forse eccessivamente compilative, altre risultano efficaci, di gradevole lettura, con uno sguardo dall’interno che assume (ed è questo un altro dei punti di forza del volume) il dibattito femminista nella sua dimensione transnazionale. Nell’insieme si tratta di un impegno chiaro, aperto e non riduttivo, a sistematizzare un dibattito tanto ricco quanto complesso e controverso.

È un punto di vista di parte, situato e instabile, aperto al suo rovescio. In una parola “eccentrico”: queer. Dove il queer rimanda al suo significato originale e abietto come deviazione rispetto alla norma, oltre dunque la declinazione di generica trasgressione “alla moda” con cui ha spesso dovuto fare conti. Ma non c’è in questo ritorno all’origine nessun “mito esistenzialista dell’autenticità”. Al contrario tutto il volume è attraversato dalla tensione costante alla messa in discussione dell’autentico. Per ognuno dei grovigli – termine che ritorna in molte delle voci proposte – non c’è ricerca di verità, esemplificazioni o ricette salvifiche; vengono invece individuati e discussi limiti e punti deboli, proponendo discorsi differenti e punti di vista contrastanti.

Un testo senz’altro utile nel suo complesso. Unica avvertenza: la trama di lettura proposta rischia di rimanere disincarnata, sganciata dalla materialità dei rapporti di produzione che pur costituiscono i processi di soggettivazione e la creazione discorsiva con cui il volume si confronta. Il potere e lo sfruttamento; e poi il tema del lavoro, di quello cosiddetto produttivo e di quello riproduttivo, la loro sovrapposizione e articolazione nel capitalismo contemporaneo, le forme anomale e spurie che assume nella vita di tante e tanti di noi; la crisi e le lotte. Rimangono temi taciuti. Eppure avrebbero offerto un contributo importante nel fabbricare gli strumenti per demolire la sempre più “stretta” casa del femminismo mainstream.

*da “il manifesto”, 19.01.2013

 

 

 

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