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Argentina: Di aperture e nuove politicizzazioni

 

del COLECTIVO SITUACIONES

Il disordine

Un momento di apertura politica è caratterizzato tanto dalla difficoltà di assegnarli un nome in modo semplice e preciso quanto dalla pluralità di significati che esso suscita. Da qui la sua forza nel trasformare la scena/realtà. Ciò che è in movimento o ciò che si apre sfugge alla possibilità della sua messa a fuoco: rende visibili diversi piani simultaneamente, in un tempo disuguale e connesso. Questo momento di apertura lo si vive con una certa perplessità: la mancanza di definizione non è, nient’altro, che l’effetto di qualcosa che resiste al suo inquadramento. Forse un’immagine possibile, all’altezza di una tale indeterminatezza, è quella dell’eccedenza. Vi è una vasta sequenza di fatti storici che può essere definita da questo sfuggire a ogni prevedibilità. E’ questa dinamica a rendere questi fatti dei momenti unici e irreversibili, in grado di reinventare il calendario. La doppia forza dell’eccedenza, dunque: quella di debordare gli argini, come viene fatto spesso dall’acqua, e di superare le previsioni, ma anche quella di rendere visibile un’esperienza di esaltazione collettiva, un’intensa dimostrazione di sentimenti.

La Plaza de Mayo colma di gente dopo la morte di Kirchner (e nei giorni successivi) ha  mostrato questa traccia di eccedenza. Forse il suo segno più evidente sia stato quello difensivo: lasciare in chiaro e constatare tra i tanti che ci siamo trovati in quella piazza che non saranno ammessi dei passi indietro. Non accetteremo quindi: l’imposizione di scenari repressivi (abbozzati nel caso dell’assassinio di Mariano Ferreyra[1]) né una marcia indietro per ciò che riguarda le misure di grande impatto popolare, da tempo assunte collettivamente come diritti acquisiti. Il richiamo in piazza è stato inaspettato ed eterogeneo. Sarebbe impossibile aggiudicare quella presenza alle capacità organizzative dei gruppi più consolidati. E’ necessario capire fino a che punto questo fiume in piena cancella ed eccede ogni tipo di polarizzazione prefabbricata o manichea dei sentimenti. Al contrario, la forza manifestata della piazza è stata quella di esibire la volontà di un approfondimento radicale della stessa democrazia: una nuova dimostrazione di quella potenza attiva e intangibile, non tradotta linearmente, ma potente e decisiva che si manifesta spontaneamente nella strada nel momento di concedere o togliere legittimità a coloro che occupano il sistema politico. Alcuni definiscono che definiscono questa potenza come spontaneità. Noi crediamo che si tratta invece di un reale senso dell’urgenza e di un esercizio deciso della forza sociale.

L’eccezione

Le somiglianze e le differenze con la piazza degli ultimi giorni del 2001 sono molteplici, sebbene non siano ovvie. Anche se pure allora si riuscì a neutralizzare la soluzione repressiva già in moto (con l’imposizione dello stato di polizia e le uccisioni in quelle giornate di decine di dimostranti e militanti), è comunque evidente che la protesta di massa che ha messo fine alla legittimità neo-liberale aveva adottato, in piena crisi, la forma di una destituzione selvaggia. Tuttavia, quel movimento inaugurò qualcosa che il kirchnerismo ha saputo individuare sin dall’inizio: l’eccezione come condizione dell’epoca, come territorio concreto della politica; come indebolimento della logica rappresentativa-repubblicana e come impossibilità di dare per scontata l’obbedienza alle regole; come sfida che ha dato luogo a una gestione non convenzionale dell’eccezione: convivere con essa senza massimizzarla ma, al tempo stesso, senza arrivare mai a una sua scongiura finale. E’ così che l’eccezione si perpetua nei momenti in cui la sovranità dello stato, anche quando si parla incessantemente del suo ritorno, non è in grado di monopolizzare l’organizzazione della struttura sociale, territoriale, quotidiana di milioni di persone. E nemmeno di dotarla di senso.

L’eccezione, dunque, come condizione dell’epoca ci obbliga a inventare dispositivi di governo di tipo nuovo, e questo presuppone che vengano incorporati gli enunciati e i metodi prodotti dal basso nella gestione stessa del sociale, legittimando simultaneamente tutta una serie di nuovi riconoscimenti e di perversioni.

In questo modo, è probabile che nel rapporto tra il momento dell’apertura e quello dell’eccezione si metta in gioco qualcosa di fondamentale dell’ordine dell’intensità democratica. E della sua già esplicitata necessità di approfondimento.

Complessità

E’ impossibile non tenere conto del panorama latinoamericano. In quei paesi dove vi sono state delle mobilitazioni che hanno scosso le fondamenta del sistema rappresentativo (Venezuela, Ecuador e Bolivia), i governi che sono seguiti hanno implementato un simile meccanismo politico: una combinazione di reti estese e diffuse capace di convogliare l’energia popolare e di tradurla in una leadership esplicita e personalizzata che concentra su di sé ogni iniziativa e potere di decisione. L’aspetto positivo di questi governi è strettamente collegato al fatto di aver riconosciuto l’incapacità di certe strutture partitiche e istituzionali (nonostante nei fatti resti difficile ripensare il problema dell’organizzazione politica in termini alternativi a quelli dei partiti politici con evidenti ramificazioni negli apparati dello stato). Tuttavia, questa incapacità di rispecchiare pienamente la democratizzazione delle decisioni e delle risorse non fa che rimettere questi governi in una posizione di perpetua debolezza.

Tra l’esercizio quotidiano della gestione governativa e le spinte autonome di organizzazione popolare non nascono istituzioni politiche con caratteristiche nuove. I tentativi si sono moltiplicati: assemblee costituenti, politiche sociali quasi universali, partito unico della rivoluzione, trasversalità elettorali, concertazioni partitiche; tutte espressioni di questo tentativo a livello continentale di creazione di nuove dinamiche istituzionali.

Tuttavia i risultati sono stati scarsi e troppo ambigui. Non è un caso, in questo quadro, che lo spazio propriamente pubblico, quello in cui si stabiliscono le egemonie e si mettono alla prova i discorsi, sia stato occupato dai mass media, i quali sfidano corpo a corpo tutte le alternative di questi processi.

Le politicizzazioni al di là della politica (o del suo ritorno)

Dal “Que se vayan todos!” delle piazze della fine del 2001 all’esercizio di un riconoscimento popolare dell’attuale governo (e verso la figura della presidente in particolare) delle piazze della fine del 2010 non vi è stata alcuna inversione letterale. E nemmeno, come è stato ripetuto, un percorso che è andato inesorabilmente dalla crisi del sistema politico alla sua resurrezione. Ancora qualcosa come la gratificante evidenza del passaggio dall’inferno alla salvezza. Inversamente, entrambi i momenti possono essere letti come situazioni piuttosto sensibili di allarme sociale di fronte ai “segni di chiusura” (segni di chiusura provenienti da tutte le fazioni autoritarie con potere all’interno e al di fuori del partito di governo e che si vorranno portare avanti in nome del bene di tutti, attraverso il linguaggio del partito, del sindacato, dei poveri, dei lavoratori, dei militanti popolari ecc).

Da questo deriva la complessità della situazione attuale; una situazione nella in cui convivono, come trama dell’apertura, le politicizzazioni dal basso (e le sue caratteristiche autonome) con il cosiddetto “ritorno della politica”, inteso come il “ritorno dello stato”. Questo “ritorno”, si potrebbe dire, ha il merito indiscusso di riattualizzare la questione politica. Tuttavia, vi sono seri rischi di farlo soltanto nei termini di una discorsività che non va al di là del ristabilimento dell’ordine istituzionale e dei loro attori prediletti: partiti, sindacati, intellettuali. In questo senso, la politicizzazione (in una prospettiva infrapolitica) traccia una genealogia propria e lavora a una certa e fondamentale distanza dalla discorsività istituzionale, benché coesistendo con essa nel tentativo di riorganizzare nuove possibilità e confronti.

Aperture

Nuove politicizzazioni, osiamo affermare, definiscono i nuovi modi impropri, barbari, innovativi di vivere ciò che è pubblico. Si tratta di qualcosa che rende esplicito, in altre parole, un campo di sperimentazione del comune che insiste sui suoi tratti di autonomia, che si rafforza nella sua sensibilità disobbediente e che crea dal basso altre forme di organizzazione quotidiana. La messa in pratica di questa pluralità di forme e di linguaggi rende insufficiente ogni tentativo di semplificare a partire da un qualche inquadramento. Abbiamo fiducia in queste nuove politicizzazioni in quanto forme di sostegno dell’apertura nei termini di un approfondimento democratico.

Questi modi di politicizzazione partono meno da una coerenza  discorsiva e/o ideologica che da una serie di lotte di visibilità oscillante le quali hanno come punto di partenza le condizioni e i modi di vita. Dalla lotta contro l’ampliamento della frontiera della soia e contro i dislocamenti dei contadini, lotte contra la precarizzazione e la terziarizzazione del lavoro, lotta contro l’uso intensivo e senza controlli delle cosiddette risorse naturali, lotte contro il grilletto facile delle forze dell’ordine, contro il razzismo e la ghettizzazione urbana (e contro le loro politica “securitaria”) ecc. E’ ovvio che queste dinamiche di politicizzazione hanno subito un cambiamento radicale dal 2001 ad oggi. Se durante la fase “destituente” i movimenti sociali attaccavano lo stato neo-liberale mettendo costituendo pratiche capaci di un confronto aperto con lo stato in aree come quelle del controllo della moneta (baratto), della contro-violenza (piquete) e del potere (comando) politico su diversi territori (assemblee), una parte di questi stessi movimenti sono oggi di fronte a un dilemma sui modi di partecipazione (quando e come) della nuova governance, esprimendo in questo modo uno degli aspetti più caratteristici di questa nuova fase dello stato.

E, tuttavia, le forme diffuse e permanenti di una certa mobilità sociale attraversano tutte queste modalità. L’eccedenza, come dinamica di apertura, rinnova l’autonomia come premessa e orizzonte a partire da cui promuovere un dialogo sensibile, permeabile a problemi diversi e che non si esauriscono nella discorsività “neo-sviluppista” (una discorsività, questa, tanto efficace quanto povera nei suoi principi: il consumo come senso primordiale della vita, la cultura del lavoro come fondamento della dignità, le risorse naturali come risorse economiche, lo Stato come razionalità superiore ecc).

Sfide

Nel paese coesistono almeno due dinamiche che organizzano territorialità differenti. Da una parte, il piano di riconoscimento dei diritti d’inclusione (che si presentano come una combinatoria di politiche assistenziali con nuove forme di cittadinanza) e del consolidamento delle conquiste simboliche sulla memoria e sulla giustizia connesse ai crimini della dittatura. All’interno di questo piano viene incluso l’assioma che inibisce la repressione statale del conflitto sociale, una delle conquiste più importanti per quanto riguarda le nuove forme di governare in presenza di movimenti e di lotte sociali. Le leggerezze nell’applicazione di questo assioma (gli omicidi e le pressioni esercitate da parte di certe bande sindacali contro i lavoratori terziarizzati, le guardie private armate dai proprietari terrieri, i corpi di polizia provinciali e locali dal “grilletto facile”, cosi come la crescente presenza della polizia militare nelle villas e nei quartieri) ci costringono ad approfondire e ad allargare la sua potenza e la sua portata.

Dall’altro lato si afferma una tendenza di portata regionale: la riconversione di buona parte dell’economia a un neo-estrattivismo (minerario, agricolo con l’incremento dei campi coltivati con soia, connesso anche alle dispute per l’acqua, gli idrocarburi e le biodiversità) che incorpora in modo diretto diverse regioni al mercato mondiale e dalle cui attività si ricavano gli introiti che sostengono fiscalmente molte delle economie provinciali e delle politiche sociali, così come l’immagine di una nuova modalità di intervento statale. Le uccisioni degli abitanti delle comunità indigene toba[2] della provincia di Formosa che si opponevano allo sradicamento dalle loro terre fanno parte di un modello di espropriazione (della terra) e di usurpazione (delle risorse) che è al centro di questa tensione.

L’intrecciarsi di queste due territorialità è palese. Entrambe convergono per configurare i tratti di un modello di concentrazione e di accumulazione della ricchezza che si articola, nella prima delle dinamiche, con tratti democratici e di allargamento dei diritti.

Alla polarizzazione politica degli ultimi anni è stata sovrapposta, oggi, un nuovo sistema di semplificazione duale: ognuna di queste territorialità viene utilizzata per negare la realtà che apporta l’altra. O si fa caso alle denunce contro la nuova economia neo-estrattiva, oppure bene si dà credito alle dinamiche legate ai diritti umani, alla comunicazione ecc. Come se la sfida non consistesse, giustamente, nell’articolare e nel non scontrarsi con ciò che ogni territorio formula enuncia come potenziale democratico e vitale. La ricchezza degli attuali processi sta, al contrario, nella combinazione dei diversi ritmi e modulazioni delle politicizzazioni, lasciando da parte le divisioni città-campagna, Capital Federal-province ecc., e assumendo le premesse trasversali alle lotte per la riappropriazione sia delle risorse naturali, sia dei diversi processi di valorizzazione dei servizi, della produzione, delle reti sociali come fonti della ricchezza comune. Questi combinazioni ci consentono di apprezzare le qualità immediatamente politiche di quelle lotte che evidenziano il complotto coloniale e razzista nel processo di redistribuzione escludente del potere territoriale, giuridico e simbolico nelle villas e nelle tenute terriere, nelle officine e nei quartieri e che si estende ai luoghi di lavoro sotto la forma di contratti in regola e non, stabili o precarizzati ecc.

La politicizzazione emergente è quasi impercettibile nella sua materialità se non si assume la complessità di questa trama, se non vengono creati spazi concreti di articolazione delle diverse esperienze. E la sua radicalità è inscindibile dall’esigenza di elaborare per ognuna di queste situazioni un senso preciso di ciò che significa la dinamica dell’eccedenza e dell’apertura ogni volta che viene messa in gioco.

Colectivo Situaciones - Buenos Aires 6 dicembre 2010

* Traduzione di Gabriela Garcia


[1] Mariano Ferreyra, militante del Partido Obrero ucciso il 20 Ottobre 2010 durante una dimostrazione dei lavoratori terziarizzati delle ferrovie.

[2] Popolo indigeno del nordest argentino.

 

 

 

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