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Il dispositivo valutazione nell’università globale

 

di TIZIANA TERRANOVA

Imperversa in Italia il dibattito sulla valutazione, e più specificamente il dibattito sulla valutazione del sistema universitario che si va in questi giorni definendo in vista delle prossime scadenze di abilitazione e concorsuali. É vero che la valutazione non è esattamente qualcosa di nuovo e dirompente per l’università italiana. É da molti anni ormai che esistono negli atenei italiani nuclei di valutazione che già determinano l’allocazione di parte del fondo di finanziamento ordinario (lo stesso che ha subito tagli drastici negli ultimi dieci anni). Ma la valutazione è indubbiamente destinata ad intensificarsi. Una delle novità è che la nuova agenzia, l’ANVUR, ha avviato il processo di selezione e classificazione delle riviste accademiche secondo tre fasce che poi determinano il valore da dare ad ogni pubblicazione sottoposta dai docenti al sito CINECA. Queste classificazioni hanno provocato grande scandalo per l’alto numero di riviste non propriamente scientifiche incluse (si pensi al lavoro del sito roars.it nell’evidenziare le scelte a dir poco controverse dell’ANVUR in questo senso). Inoltre ha prodotto numerosi (e spesso confusi e contraddittori) documenti in cui vengono specificati i criteri per la formazione delle commissioni e di abilitazione a ciascuna delle tre fasce docenti.

Al di là degli scandali legati all’evidente inadeguatezza dell’ANVUR, si discute molto dunque in Italia in questo momento di valutazione del sistema universitario e della produzione scientifica. Si pongono questioni pertinenti riguardo ai costi della valutazione. Colpisce, come sottolineato da Alessandro del Lago e Roberto Ciccarelli nei loro articoli su il manifesto, che i costi del sistema valutativo siano quasi equivalenti ai tagli al fondo di finanziamento ordinario cioè tra i 200 e i 300 milioni di euro. Ma soprattutto si discute (si pensi per esempio all’analisi statistica condotta dal sito per la sociologia) su quanto siano adeguati i criteri di valutazione adottati nel fotografare lo stato della ricerca nell’università italiana, concepito come la distribuzione dei suoi ‘prodotti’ (saggi, monografie e curatele, brevetti etc.). Al di là delle polemiche sul fatto che questo sistema valutativo sia modellato sulle scienze naturali piuttosto che umanistiche, colpisce in questo dibattito un sostanziale consenso, specialmente nella comunità accademica, sul’utilità della valutazione nel rimediare ad alcuni vizi strutturali dell’università italiana (chiusura del sistema universitario su se stesso, significativi episodi di corruzione concorsuale, strapotere baronale e quindi delle scuole e delle associazioni). Il miraggio è quello di una migliore efficienza del sistema universitario italiano attraverso l’instaurazione di una nuova ‘meritocrazia’ che segni la fine del corrotto o inefficace autogoverno universitario nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto.

Manca a mio parere in questo dibattito un’attenzione critica al fatto che la valutazione del sistema universitario è ormai una componente strutturale (in quanto attiva da più di vent’anni) in significativi settori dell’alta formazione globale. In particolare, è possibile rilevare che l’iniziativa in questo campo è stata sicuramente quella dell’Inghilterra – nazione in cui a partire dal 1991, successivi esercizi di valutazione hanno completamente rifondato il funzionamento stesso dell’università e i suoi fini. Manca cioè una discussione di come in un contesto di concorrenza globale dell’alta formazione, la valutazione abbia funzionato come strumento di ristrutturazione dell’università. Si tratta cioè di fare i conti con i processi che in un volume di qualche anno fa si definiva la formazione di una università globale, all’incrocio tra processi di ‘universitizzazione’ dell’impresa e di aziendalizzazione dell’università (AA:VV. Università globale: il nuovo mercato del sapere. Roma, manifestolibri, 2008). Da un lato cioè il prepotente emergere di una nuova generazione di imprese espressione di un capitalismo cognitivo, in cui il valore è prodotto a mezzo di innovazione, e l’innovazione è generata con strategie di governo dell’impresa (e della sua vita) copiate dall’università (si pensi per esempio a Google, Apple, Facebook, etc.); e dall’altro la crescente pervasività di tecniche di governo dell’università prese a prestito dal mondo delle aziende private. L’università, cioè, è stata a livello globale in questi anni uno dei luoghi più esemplificativi del collasso della distinzione tra pubblico e privato in funzione della produzione di un mercato globale della ricerca e della formazione, governato dagli stati nazione, ma con ambizioni appunto transnazionali.

Il processo di valutazione nelle università inglesi, dunque, è sicuramente a livello globale quello più esteso e strutturale. Esso opera continuamente nella vita delle università inglesi sotto forme diverse, ma sostanzialmente implica una produzione continua di una scia di documentazione che mira ad assicurare l’uniformazione a protocolli che definiscono tutti gli aspetti dell’insegnamento e della ricerca: ogni momento della vita universitaria (dalla frequenza degli studenti agli incontri tra relatori e tesisti) è documentato e controllato. Un esteso sistema di controlli trasversali sottopone a esame esterno tutti gli aspetti della didattica (dai nuovi corsi ai risultati annuali dei singoli corsi di laurea, con imposizione di procedure di double marking, campionatura della produzione degli studenti etc.). Ma soprattutto abbiamo i grandi esercizi periodici di valutazione della ricerca di dipartimenti e università che si abbattono sul sistema universitario inglese con cadenza quasi quinquennale. Questo complesso sistema valutativo (il Research Assessment Exercise che ora è diventato il Research Excellence Framework) è stato introdotto in tempi di grandi investimenti nell’università pubblica e nella ricerca a cui ha corrisposto un boom del numero di studenti iscritti ai vari gradi della formazione universitaria (dalle lauree triennali ai dottorati di ricerca). A questo si aggiungono le aggressive attività di franchise e marketing delle università inglesi in Asia, un notevole incremento di studenti d’oltremare e la notevole espansione di corsi più o meno brevi rivolti a una forza lavoro che si suppone in ‘formazione continua’. Si è trattato cioè di un sistema valutativo complesso cresciuto in tempi di ‘vacche grasse’. In questo già si verifica l’inesorabile gap che separa l’emergere del sistema valutativo inglese da quello italiano, che invece si appresta alla valutazione in una situazione di sottofinanziamento emergenziale dettato dall’austerity.

Piuttosto che rassegnarsi all”inevitabile, presunto ritardo italiano, è utile fare alcune considerazioni qui sugli effetti del sistema valutativo inglese sul funzionamento del sistema universitario di quel paese. La questione cioè è non assumere che se solo il sistema della valutazione funzionasse bene allora si avrebbe una miracolosa rinascita dell’università italiana all’insegna della meritocrazia. E neppure quella di dimostrare ancora una volta che valutazioni statistiche di questo tipo non sono in grado di misurare efficacemente lo stato della ricerca. Il problema è capire che cosa produce un sistema di valutazione ‘efficiente’ come quello inglese. Si tratta cioè di sottoporre la valutazione medesima in quanto processo a un altro tipo di valutazione.

Tra gli effetti dell’introduzione di un sistematico e capillare, quanto periodico, sistema di misura e classificazione troviamo indubbiamente un cambiamento negli equilibri di potere dell’istituzione: dal corpo docente all’apparato amministrativo dell’università con un incremento esponenziale delle risorse e dei poteri investiti nei dipartimenti di ‘quality assurance’ – incaricati di assicurarsi che la mutevole normativa valutativa, incessantemente modulata, sia applicata. L’introduzione della valutazione corrisponde ad una centralizzazione del controllo attraverso la creazione di nuovi livelli gestionali che si ingrossano sproporzionatamente (così come gli stipendi dei vertici dell’università). I dipartimenti di ‘controllo sulla qualità’ attuano le mutevoli direttive del governo centrale agendo attraverso forme di comunicazione/comando informatico che richiedono continuamente al corpo docente e amministrativo di rimodulare la sua documentazione di qualità. La valutazione qui corrisponde ad una evoluzione di quella nozione di ‘informazione-comando’ identificata da Romano Alquati nel suo lavoro sull’Olivetti degli anni cinquanta e ripresa ultimamente da Matteo Pasquinelli.

La valutazione infatti implica dei criteri attraverso cui operare un’opera di differenziazione pervasiva in grado di produrre delle ‘classifiche’ che mirano a determinare il valore del singolo individuo, del dipartimento, dell’ateneo e del sistema universitario nel suo complesso. Nella valutazione pervasiva all’inglese è incarnato un principio quasi borsistico di modulazione del valore che si realizza nel famoso sistema di ‘ranking’. Per chi creda che il fine ultimo di questo sistema sia rinforzare l’impatto del sistema universitario sul PIL (la sua capacità di creare moneta o monetizzare la richiesta di sapere e formazione), rispondiamo che non è proprio così. Nonostante gli indicatori economici, per esempio, che sottolineano la centralità della produzione culturale all’economia inglese, questo settore continua a subire i tagli più drastici. I fini politici, cioè, continuano comunque a sovradeterminare il mero dato economico. Tuttavia non è un caso che la misura della valutazione della ricerca si sia inesorabilmente spostata verso i finanziamenti che l’individuo/dipartimento/ateneo è capace di procurare all’istituzione. La valutazione inglese cioè valuta sempre più in maniera predominante la capacità degli atenei di autofinanziarsi.

La valutazione implica dunque un processo continuo di controllo – che va dal micro al macro (dagli atti quotidiani e più semplici che vanno continuamente documentati ai grandi esercizi periodici di valutazione). I criteri non sono mai definitivi, ma in continuo mutamento. Una volta che il principio secondo cui il finanziamento è subordinato alla valutazione (e la valutazione al finanziamento) è introdotto, allora il criterio valutativo diventa non solo la misura delle risorse da allocare, ma anche la direzione dei percorsi di ricerca e insegnamento. Nella misura in cui per esempio nella valutazione sia individuale che istituzionale pesano sempre di più i finanziamenti dei progetti di ricerca, allora ecco che la ricerca si piega necessariamente alle parole d’ordine dei ‘funding bodies’, dei finanziatori della ricerca – gli enti di ricerca statali in grado di allocare fondi, le aziende private, l’Unione Europea, le fondazioni. Non si tratta ovviamente di un mero comando lineare che definisce in maniera preordinata i campi e gli scopi del sapere, ma di un processo molto più indeterminato, in cui agiscono molti attori, ma che indubbiamente fa pesare le esigenze di generare valore economico nel governo dell’alta formazione e della ricerca.

Infine non è possibile trascurare il modo in cui la valutazione ha prodotto una nuova figura della soggettività nel corpo del suo lavoro vivo (cioè in quelle popolazioni di studenti, dottori, ricercatori, docenti e professori più o meno precari che popolano l’università). Qui mi preme non solo rimarcare sul mito dello studente-consumatore di servizi (che, seguendo Bernard Stiegler potremmo dire, è un atto di proletarizzazione dello studente, in quanto lo priva dell’accesso alla dimensione produttiva del sapere, riducendo quest’ultimo a un bene di consumo o merce), ma la trasformazione dal lato della docenza e della ricerca. Lungi dall’essere un gregge condotto dal pastore-governo attraverso la valutazione verso il suo bene, il lavoro vivo delle università diventa veramente quel branco di asini evocati recentemente in Italia dal ministro Profumo nel suo discorso su ‘tanto bastone e non troppa carota’. Bastone e carota cioè traducono vivamente il sistema di incentivi e sanzioni che è inerente al funzionamento di questo dispositivo di controllo del lavoro intellettuale. La valutazione è esplicitamente un sistema di incentivi e sanzioni diretto ad una soggettività che si presuppone recalcitrante e inaffidabile, ma purtuttavia dominata da un qualche interesse (l’interesse a mantenere il proprio lavoro o a costruire una carriera).

Il risultato è che il docente dell’università valutata esprime una soggettività che è impregnata di calcolo. Il docente o aspirante tale, uomo o donna che sia, è impegnato in un continuo processo di auto-valutazione che determina il suo rapporto con l’istituzione e con se stesso/a. Il suo valore non è solo rilevabile periodicamente attraverso gli esercizi di valutazione, ma continuamente dentro e fuori l’istituzione. É parte, infatti, di una network culture in cui in ogni momento è possibile misurare la propria popolarità: come va il mio libro nella classifica di amazon.com? Quanto volte secondo Google Scholar vengo citato? Quanti siti con il mio nome compaiono quando faccio una ricerca su di me con Google? Qual è l’impact factor registrato da varie agenzie online delle riviste in cui ho pubblicato? Posso aumentare l’impatto della mia ricerca misurato appunto in termini di citazioni scrivendo un blog per esempio o anche creando un seguito su twitter attorno a nuove parole d’ordine in grado di catalizzare l’attenzione? Inoltre, l’imposizione recente da parte del governo inglese dell’open access, cioè della gratuità dell’accesso ai risultati di ricerche direttamente finanziate dal governo stesso, si annuncia avere importanti ripercussioni sull’editoria accademica con ricadute sull’accesso alla pubblicazione degli stessi ricercatori. Se le riviste accademiche per esempio non potranno più far pagare per i propri prodotti, come potranno realizzare un profitto? A questo proposito, l’editoria anglofona più avanzata comincia a pensare di fare pagare agli autori stessi per la pubblicazione, introducendo anche un sistema di micropagamenti per citazioni etc. (secondo un modello recentemente definito ‘pay per sentence’ o paga per frase)

É anche vero però che questa interiorizzazione del calcolo auto-valutativo per cui il docente è impegnato in una continua auto-misurazione del valore del proprio operato può operare solo all’interno di un mercato del lavoro estremamente mobile come quello anglofono. Non avrebbe senso cioè senza una mobilità molto diffusa di lingua anglofona, ma spesso anche plurilinguistica, che apre la possibilità di lavorare presso un numero molto alto di istituzioni non solo in aree storicamente anglofone (dal Regno Unito al Canada, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda), ma anche in Asia e in Africa. Si tratta cioè di un vero e proprio movimento diasporico del lavoro accademico, caratterizzato spesso dall’incessante migrare di più o meno giovani docenti e ricercatori su tre continenti alla ricerca di reddito. Già questo marca una distanza incolmabile con l’università italiana dove l’introduzione della valutazione avviene in un sistema nazionale sostanzialmente chiuso: molto si parla della fuga dei ricercatori italiani all’estero, ma poco della pressoché totale chiusura dell’università italiana allo ‘straniero’, della sua scarsissima internazionalizzazione, della sua rigida segmentazione in confini disciplinari che facilitano la riproduzione generazionale delle scuole spesso legate alla figura di un singolo docente/maestro. L’introduzione della valutazione in questo sistema potrà avere un qualche effetto solo considerando le conseguenze dell’enorme esodo pensionistico che attualmente le attraversa e che sta lasciando le università deserte di figure strutturate e sature di contratti precari e malpagati.

Infine vale la pena aggiungere qualche parola sulle recenti evoluzioni del sistema valutativo inglese sotto il nuovo governo conservatore e liberale che ha entusiasticamente abbracciato il clima di tagli della nuova austerity. I tagli del 100% al finanziamento della didattica in area umanistica si accompagnano a una decisa rimodulazione degli obiettivi della valutazione: essa ricompensa, cioè distribuisce ‘carote’, a chi genera i propri finanziamenti, sia attraverso aggressive operazioni di marketing di nuovi corsi che attraggano il numero di studenti necessario a pagare, con tasse altissime, quei corsi che i fondi ministeriali non sostengono più; sia i fondi di ricerca che i singoli docenti/dipartimenti/atenei riescono ad attrarre. Questa evoluzione ha segnato anche un irrigidimento del controllo disciplinare sul lavoro con la minaccia di licenziamenti o ridimensionamenti in caso di scarsa produttività economica a tenere in riga il corpo docente e severe sanzioni disciplinari per chi osa mettere in discussione i diktat manageriali. Si pensi alla recente ‘sparizione’ di Ian Parker, professore di psicologia radicale, dalla Metropolitan University, al quale per aver sollevato dubbi sull’atmosfera di ‘segretezza e controllo’ nel suo dipartimento, è stato ordinato di lasciare le chiavi del suo ufficio, bloccato il conto email, e intimato di non contattare studenti o colleghi.

Di fronte a queste tendenze consolidate e ai risultati deludenti che hanno promosso in termini di dare vera efficacia e autonomia ai processi di formazione e ricerca è necessario pensare e parlare di alternativa. Per parlare di alternativa bisogna rendere espliciti cos’è che non ci piace di questo sistema laddove si manifesta in tutta la sua efficienza: esso produce in generale una forma di proletarizzazione del lavoro di formazione e ricerca. L’università valutata è sostanzialmente una università etero-diretta e comandata. Non si tratta semplicemente di una perdita di reddito, ma di fondamentale controllo sulle forme di organizzazione degli obiettivi del lavoro formativo e di ricerca che sia capace di rispondere a quelle infinite sfide che le società contemporanea pongono al sapere.

Per parlare di alternativa a tutto ciò forse però è necessario anche chiedersi: che cosa è stato appropriato e riscritto dal potere della valutazione che già esisteva come potenza costitutiva prima? Sempre pensando all’Inghilterra, non si può fare a meno di considerare come la valutazioni investa inizialmente un sistema universitario che si espande sotto le richieste di sapere espresse per la prima volta in maniera sostanziale da soggetti esclusi dalla classica formazione universitaria di Oxford e Cambridge. Una università abitata da soggetti subalterni, neri, donne, gay e proletari, che negli anni ottanta hanno condotto durissime battaglie fisiche e culturali contro il razzismo, il sessismo, il classismo e lo sfruttamento. Soggetti subalterni che nei dipartimenti dei politecnici degli anni ottanta avevano anche profondamente innovato i modi di produzione del sapere in una dinamica che livellava le differenze gerarchiche tra docenti e studenti, per esempio, in nome di una comune produzione di un sapere dinamico, non riproduttivo, volto a cogliere le esigenze di un sociale concepito a partire dalle sue istanze subalterne e conflittuali (si pensi all’esperienza esplosiva e dirompente degli Studi Culturali di Birmingham negli anni settanta e ottanta). Per questo è vero quello che si dice quando si dice che la posta in gioco è la democratizzazione dell’università italiana al di là delle attuali forme di autogoverno. Contro la centralizzazione del bastone e della carota, si tratta dunque di allargare i soggetti della valutazione, rendendola imprescindibile dall’invenzione di forme di democrazia della vita universitaria. Questo significa contrastare la valutazione-comando con un altro tipo di valutazione, che inneschi un processo autoriflessivo, dinamico, allargato che apre al sociale e alle sue istanze. Citando Christian Marazzi, l’alta formazione e ricerca ci appaiono come momenti fondamentali di quel processo di riconfigurazione dell’economia su un modello antropogenetico: un’economia cioè che sia in primo luogo produzione di un’umanità migliore, nella sua complessa relazione con la natura e con il non-umano. Pensiamo per esempio alle sfide lanciate dalla crisi economica e ambientale, dalle trasformazioni della vita affettiva e culturale che richiedono delle istituzioni capaci di vero autogoverno orientato a fini diversi che quelli del profitto, anche quando questi prende la forma dell’autofinanziamento.

É vero che tutto questo è sostanzialmente incompatibile con le linee politiche prevalenti in periodi di austerity, esso implica cioè un cambiamento deciso di direzione che dev’essere quanto più ampio e condiviso. Ma questo non significa che non sia possibile cominciare a pensare e praticare processi di valutazione dal basso che abbiano per esempio come obiettivo il rinnovamento e l’apertura dei saperi a nuovi attori. L’idea di un’altra forma di valutazione, sostanziata da un altro sistema di valori, è sicuramente da considerare per chi si oppone alla valutazione non sulla base della difesa del vecchio ma sulla base del proprio giudizio sul nuovo che altrove è già stato e in nome del desiderio di qualcosa che ancora non è.

* Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su “il manifesto”, 6 novembre 2012.

 

 

 

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