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L’effimero godimento della vita messa al lavoro

Posted By Gigi On November 5, 2012 @ 9:47 am In Italiano,Recensioni | Comments Disabled

di GISO AMENDOLA

Non è facile, nella cultura italiana, trovare un confronto teorico intenso sulla questione del neoliberalismo. Mentre in Francia, sulla scorta dei corsi di Foucault sulla governamentalità neoliberale, ma anche, solo per fare qualche esempio, della sociologia di Luc Boltanski e Eve Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, in corso di pubblicazione per i tipi di Feltrinelli), o delle ampie indagini di Pierre Dardot e Christian Laval (La nouvelle raison du monde, purtroppo non tradotto in Italia) si è sviluppato un ampio dibattito sulla specificità del neoliberalismo e sulla sua razionalità, in Italia spesso il problema neoliberale viene sciolto all’interno di categorie molto generiche, e riportato alla «crisi dello Stato» o alla «morte della Politica».

Da Marx a Lacan

Il neoliberalismo non è tuttavia solo un processo di privatizzazione della cosa pubblica: come abbiamo potuto apprendere, sulla nostra pelle, a partire dagli anni Ottanta, la «rivoluzione» neoliberale si è caratterizzata per l’invenzione di particolari modalità di governo, per la produzione di una sua specifica idea di libertà, per la creazione di stili di vita, di immaginari e di mentalità.

Lontano dalle facili semplificazioni, Federico Chicchi, sociologo del lavoro che pratica da tempo una ricerca proficuamente irrispettosa dei confini disciplinari, coniugando il suo approccio di scienziato sociale con i linguaggi della filosofia politica e della psicoanalisi, ha pubblicato di recente Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo (Bruno Mondadori, pp. 174, euro 16), che sceglie molto opportunamente di affrontare il neoliberalismo come fabbrica di un modello specifico di soggettività. Una soggettività assorbita con tutta la propria vita all’interno della produzione: a differenza del soggetto liberale classico, l’homo oeconomicus in versione neoliberale non conosce più la tradizionale distinzione tra pubblico e privato, o quella tra tempi di lavoro e di vita. Chicchi conosce bene le analisi postoperaiste, e le utilizza ampiamente per offrire un’efficace descrizione del capitalismo contemporaneo, come modo di produzione che impiega non più solamente il tempo di lavoro, ma tutta la vita dei soggetti, la loro capacità relazionale e cooperativa, il loro linguaggio: la macchina di produzione postfordista è la vita stessa delle soggettività. Chicchi fa qui intervenire una seconda radice teorica della sua analisi, creando un’interazione tra discorsi che è l’elemento di maggiore originalità, ma anche di maggiore difficoltà del suo lavoro: se la soggettività viene integralmente investita dalla produzione, se il capitalismo si trasforma in biocapitalismo, allora l’analisi delle soggettività neoliberali può essere un terreno da scandagliare attraverso il ricorso agli strumenti concettuali offerti dalla psicoanalisi. E, in modo particolare, è il Lacan del discorso del capitalista, qui, a fungere da riferimento: il Lacan che vede nel neocapitalismo il sistema in cui i soggetti, perso ogni riferimento alla Legge, ogni orizzonte normativo e simbolico forte, vengono continuamente incitati a consumare, esaurendo così in un godimento immediato la loro presunta libertà.

Il lato oscuro del postfordismo

Questa doppia radice, psicoanalitico-lacaniana e postoperaista, permette ai testi di Chicchi di essere particolarmente efficaci nelle analisi dei lati più oscuri della messa al lavoro delle vite nel postfordismo, dalle nuove alienazioni, ai processi di autosfruttamento, sino ai tratti di autentica sofferenza schizofrenica. L’evaporazione del lavoro (e qui il riferimento esplicito è ai lavori sull’evaporazione del «Padre» di Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano tra i riferimenti costanti del volume, di cui ha scritto anche la prefazione), che segna in realtà non la sparizione, quanto l’espandersi del lavoro oltre ogni luogo e ogni temporalità determinabili, è indagata nel suo produrre tutta un’inedita psicopatologia del lavoro cognitivo e precario: un lavoro d’inchiesta prezioso, per il quale Chicchi offre qui un importante inquadramento teorico.

Il fatto che, in quella sussunzione reale compiutamente realizzata che è il biocapitalismo, tutta la vita sia completamente attraversata dai dispositivi di messa a valore, non toglie però che esistano comunque crepe e ambivalenze. Chicchi non aderisce alle descrizione luttuose e cupe del capitalismo biopolitico: il diffondersi capillare del potere, il suo agire in presa diretta sulle soggettività, non significa che siamo sempre necessariamente afferrati nelle sue reti. Percorsi di liberazione possono essere impiantati anche al centro della sussunzione reale: «l’alleggerimento del tono del potere, la mancanza di un suo centro visibile, smarrisce la resistenza, la piega nei suoi molteplici frammenti di vanità eroici, ma non può eliminarla del tutto». Qui però postoperaismo e psicoanalisi sembrano tracciare linee di costruzione della resistenza abbastanza diverse. Chicchi ha il merito di tenersi lontano dalle pieghe più direttamente normative che, a volte, il richiamo a Lacan assume nel dibattito filosofico-politico: «la nostra proposta non vuole iscriversi all’interno di un paradigma senza speranza, o – il che sarebbe ancora più grave – all’interno di una nostalgica richiesta di un programma edipico della civiltà». Non si tratta di predicare, quindi, un ritorno a casa delle soggettività «smarrite» nel postfordismo, di ricondurle alla Legge.
Per rompere l’isolamento e ricreare legame sociale, si dovrebbe, scrive Chicchi, lavorare – anche attraversando il lutto e la perdita, ma senza nostalgie per l’oggetto perduto – per rompere il «delirio narcisistico di libertà» prodotto dalle illusioni neoliberali e riscoprire il senso di un’alterità, di una distanza, l’apertura di un desiderio che non si esaurisca nell’immediatezza del godimento.

L’ambivalenza da sciogliere

Ma se la soggettivazione cui guarda la psicoanalisi mette al centro l’esperienza della separazione, della perdita e del lutto, quella cui guardano le letture postoperaiste si radica su un impianto affermativo di ascendenza foucaultiana e deleuziana e scommette piuttosto sulle risorse generative della ricchezza della cooperazione sociale. Ambedue le linee interrogano l’ambivalenza delle soggettività neoliberali, ed è interessante il tentativo di Chicchi di superare il loro reciproco ignorarsi: ma resta difficile il rapporto tra la riscoperta della norma attraverso la dolorosa esperienza della separazione e della mancanza, cui vorrebbe guidarci la psicoanalisi, e la costruzione di istituzioni che diano forza e continuità all’eccedenza soggettiva, alla potenza espansiva della cooperazione sociale, che il postoperaismo scorge nella resistenza attiva dei movimenti sociali. Difficoltà che comunque segnano una ricerca aperta su possibili istituzioni post-neoliberali: che, come emerge con forza in questo libro, deve affrontare il rompicapo tutto politico di valorizzare la ricchezza di soggettività mobili e plurali, irriconducibili agli spazi, ai tempi e alle identità tradizionali, e, allo stesso tempo, di evitare che quella mobilità e pluralità si disperda attraverso uno spazio troppo liscio, consegnandosi all’impotenza politica. Tutti i confronti e gli attraversamenti che rispondano a quest’urgenza, non possono che essere benvenuti.

* Pubblicato su “il manifesto”, 3 novembre 2012.


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