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Dopo il cenacolo del Matese: l’esodo dalla crescita

 

di FRANCO PIPERNO

La crescita economica come “ragione d’essere” della società capitalistica è un idolo pubblico relativamente recente; infatti, è venuto diffondendosi nell’opinione dopo la crisi del 29, con l’affermarsi della politica economica di tipo keynesiano e del contemporaneo emergere del PIL come misura dell’accumulazione capitalistica. Proprio perché in quegli anni la crisi capitalistica ha luogo in presenza di un mercato rivale, sottratto agli scambi capitalistici – ovvero, l’Unione Sovietica – proprio per questo, dicevamo, l’accumulazione di capitale s’incentra sul cittadino consumatore; e cioè, in ultima analisi, sul reddito pro-capite.

Questo modello entra in crisi già negli anni 70 del secolo appena trascorso, per ragioni che qui sarebbe lungo elencare in dettaglio, ma che possiamo riferire, per brevità, a quell’indimenticabile ondata di lotte operaie e studentesche che ha caratterizzato quell’epoca.

La prima manifestazione politica di questa crisi è il tentativo della Thatcher nel Regno Unito e di Reagan negli Usa di smantellare i dispositivi keynesiani a favore di una finanziarizzazione dell’economia.

Possiamo dire che la fase inaugurata dal duo Thatcher–Reagan s’incentra questa volta sul debito, con tutti gli attributi ideologici che una permanente “condizione umana debitoria” porta spontaneamente con sé: l’introduzione spasmodica di continue innovazioni di prodotto create dall’attività di ricerca tecnico-scientifica messa al servizio dell’accumulazione, la fiducia superstiziosa nel nuovo, il farsi carico di nipoti ancora non nati, il privilegio sentimentale accordato al futuro remoto, quando saremo tutti morti.

Nel decennio che ha chiuso il XX secolo, questa seconda fase della crescita capitalistica senza alcun giubileo che abbia rimesso i debiti ha fatto sì che il valore di scambio si autonomizzasse dal valore d’uso; e ciò, come era inevitabile, ha portato al susseguirsi di una serie di enormi bolle speculative, in particolare quella relativa alle tecnologie informatiche e poi quella del settore edilizio; bolle, che hanno rivelato la debolezza delle istituzioni politiche nella funzione critica di garantire il debito – una prova decisiva di questa diagnosi ci sembra sia il fatto che la Comunità Europea, che ha le istituzioni politiche più deboli è anche quella che risulta più profondamente intaccata dalla crisi, pur possedendo il mercato di consumo più ricco del mondo. Ma il venir meno del futuro concepito nella dimensione provvidenziale della crescita, intacca alla radice il consenso in occidente alla formazione sociale capitalistica; e libera variegati comportamenti antagonistici delle moltitudini. Da qui l’urgenza, per il ceto politico del capitale come per quello del movimento operaio, di assicurare al più presto la ripresa della crescita, ovvero, l’aumento del PIL.

A questo proposito sembrano emergere in occidente due vie strategiche, per alcuni versi tra loro incompatibili; nonché uno stretto sentiero che può essere considerato una linea di fuga. La prima strategia è promossa da quel segmento di capitale costituito dall’industria dei beni durevoli, e trova l’adesione affannosa dei sindacati e di tutta la sinistra, tanto quella con radici quanto quella senza radici- come dire, dalla FIOM a IDV.

Essa punta ad una ripresa dell’accumulazione tramite la riproposizione di politiche neokeynesiane; e tuttavia, appare evidente che questa è una via senza uscita giacché la produzione di beni durevoli in occidente è, nel medio periodo, definitivamente bloccata nel suo sviluppo dalla saturazione merceologica provocata dall’industria dei paesi emergenti, i BRIC per intenderci.

La seconda via, invece, è incentrata proprio su quello stesso meccanismo che ha portato alla crisi: la finanziarizzazione dell’economia con il gonfiarsi abnorme dell’indebitamento al consumo, ovvero, la scommessa  sui “beni futuri”. E però anche questa via appare senza sbocco dal momento che, come già osservato, per essere affidabile dovrebbe disporre di una precondizione impossibile: una sorta di stato con una sovranità planetaria. Ma accanto a queste due grandi vie, tese a salvare la società della crescita infinita, v’è un sentiero stretto percorrendo il quale l’accumulazione assume l’aspetto della cura dei luoghi e delle forme di vita che li abitano. Si noti che questo tipo di accumulazione, proprio perché si tratta di merci e servizi per i quali produzione e consumo avvengono nello stesso luogo, non richiede grandi concentrazioni industriali e non è caratterizzata dal ritmo vorticoso della riproduzione allargata. In questo senso è una forma d’accumulazione che fuoriesce dal predominio dell’economia; e questo perché, in ultima analisi, si basa sull’informazione che per sua natura non può essere ridotta a merce in quanto è immateriale, non deperibile e abbondante; e perciò stesso sfugge a ogni diritto proprietario.

D’altro canto la cura dei luoghi è una consuetudine etico-politica che va diffondendosi spontaneamente tra le moltitudini di esseri umani nel Sud d’Italia come nel Nord, tanto in Occidente quanto in Oriente – a livello del pensiero critico ne sono testimonianza gli studi post-coloniali e la riflessione meridiana.

Per paradossale che possa sembrare, queste insorgenze urbane riprendono il programma marxiano della crescita dell’interiorità, ovvero, della “coscienza enorme”; intendiamo con questo l’autoformazione dell’individuo sociale, cioè di una forma di vita in contatto consapevole con il genius loci e proprio per questo in grado di manifestarsi come coscienza del genere.

Sembra, quindi, delinearsi una possibilità di alleanza tra questi segmenti di capitalismo maturo e i movimenti di risarcimento dei luoghi; e questa strana alleanza è, come è accaduto altre volte nella storia, il segno che forse una grande trasformazione dei luoghi comuni è in corso di farsi – infatti è meno faticoso mutare le nostre idee sul mondo che cambiare il mondo.

 

 

 

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