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Femminismo prêt à porter

 

di CRISTINA MORINI

Ci sono parole, come per esempio “beni comuni”, che assumono nella trasposizione mediatica e nell’uso quotidiano che ne viene indotto, un significato completamente distorto. Vengono abusate, adoperate scorrettamente, corrotte attraverso un impiego fuori contesto. In questo modo si prova a far perdere loro di senso. Svuotarle, indebolirle, addomesticarle vuole dire cambiare la percezione di ciò che evocano. Questo vale anche per la parola “femminismo”, alla quale queste note sono dedicate. Poiché siamo consapevoli di questo problema complessivo, tanto più lucido e solido deve mantenersi il nostro ordine del discorso: “la lingua è anche un luogo di lotta”.

Resistenza sì, marginalità no
bell hooks, molto lucidamente, agli inizi degli anni Novanta individuava un limite nel fatto che la pratica radicale postmodernista, “concettualizzata con grande forza come politica della differenza”, non fosse in grado di incorporare le voci degli sfruttati e marginalizzati, in particolare della black people. “E’ una triste ironia” – scriveva – “che il discorso contemporaneo, che più di ogni altro parla di eterogeneità, di soggetto decentrato, affermando aperture che consentano il riconoscimento dell’Alterità, continui a indirizzare la sua voce critica a un pubblico specializzato che condivide un linguaggio le cui radici affondano nelle narrative padronali che esso dichiara di sfidare”.
A distanza di quasi vent’anni, noi siamo apertamente consapevoli di come l’esperienza dell’Alterità finisca per essere strattonata da tutte le parti, con ciò rischiando non di valorizzarsi ma viceversa di perdere il proprio carattere saliente. Il “femminismo”, doverosamente manierato e mai evocato in quanto tale, piace, è diventato “di tendenza”, perfino chic. Trovati gli opportuni sinonimi (condizione femminile, onda rosa, piazza rosa…) settimanali, quotidiani, newsmagazine riservano editoriali e inchieste alla “politica delle donne” che ha improvvisamente smesso di essere argomento “respinto”, perché “noioso” e “fastidioso”. Su questo fronte si giocano carriere e presenze in tivù, ruoli in politica, nel sindacato, nelle istituzioni (“il ragionevole equilibrio dei sessi”), perfino in campo economico (“le donne manager sono più oculate dei colleghi uomini nell’attività finanziaria”). Tutto si basa su modelli funzionali alla retorica liberale, “democratica”, del potere. I soggetti “Altri” (le donne), vengono tentate dal porsi al servizio di un discorso politico ingannevole, che serve a debilitare la loro forza critica radicale rispetto all’ordine del mondo.
In un certo senso è come se si corresse il rischio di abdicare alla capacità di confliggere, ovvero di trasformare l’ordine costituito della società, esattamente nel momento in cui più diffusamente la presenza delle donne nell’ambito pubblico si fa meno estemporanea e fragile e dunque proprio quando certe potenzialità potrebbero svilupparsi. Un paradosso giocato dal biopotere per contenere eventuali rischi connessi alla novità della femminilizzazione del lavoro e della società. È allora che si pensa di manipolare la potenza delle donne, cavalcandola per farne un uso congruo al comando: che entrino, nel mercato del lavoro, senza rompere le scatole ma diventando anzi esse stesse la miglior incarnazione dell’ideologia del “lavoro totale” contemporanea. Si avvia un processo di celebrazione che è anche un insieme di indignazione e di reclamo di eguaglianza al fine di provare a tacitare ogni possibile ribellione, sottrazione, disobbedienza. Questa strategia è in corso da qualche anno e l’abbiamo vista usare anche le piazze “dignitose” del 13 febbraio scorso come recentemente a Siena, tra la massa, palloncino rosa munita, di “Se non ora quando”.
Lungi dal voler essere una riflessione nostalgica, che rivendica il fascino del passato e dell’emarginazione (luogo di privazione), il ragionamento prova a ricordare brevemente che le sfide in campo sono tante e restano cruciali. Esse si fanno addirittura più sostanziose nell’oggi, nell’espansione del dominio della crisi permanente globale, nelle imposizioni dei mercati finanziari sull’esistenza, nell’esplicarsi del paradigma biopolitico del capitalismo cognitivo. Deve rimanerci chiara l’importanza della costruzione di uno spazio immaginativo alternativo efficace, capace di rafforzare la nostra soggettività e di conquistarci davvero una posizione innovativa (e non prestabilita da altri) da cui poter articolare in autonomia il senso di noi stesse nel mondo. Non basterà la promessa di una quota a seppellire il bisogno di radicalità e di invenzione delle donne di questo Paese.

Classe, genere e desiderio
Se questo vale come premessa, orizzonte in cui il ragionamento si iscrive, tuttavia siamo chiamate ad assegnare significati rinnovati, più adeguati, ad alcune parole – pur conservando con rigore il valore dell’eredità politica di ciò che evocano.
Angela McRobbie in un suo recente saggio Reflections on Feminism, Immaterial Labour and Post-Fordist Regime sostiene che è il silenzio politico-sociale sulla “classe” (in qualche misura si direbbe la crisi del concetto di classe) a permettere al concetto di “genere”di emergere con maggior forza, ottenendo oggi una sorta di autovalidazione. Secondo McRobbie, il concetto di classe ha perso di significato, rispetto al passato, e va reinterpretato, rimodulandolo con il concetto di genere e di razza. Fino a ora il termine “classe” è stato usato come un “metaconcetto” per comprendere tutte le contraddizioni del capitale rispetto al lavoro. Nel declino del concetto di classe intravvisto da McRobbie, c’è qualcosa che ha a che vedere con la radice stessa della fondazione del concetto. Penso che Mc Robbie intenda riferirsi al fatto che esso si è costruito esclusivamente sulla porzione dei lavoratori operai maschi, resa egemonica dal fordismo.
Ciò che scrive McRobbie può metterci, in un certo senso, sulla strada per capire il problema, o meglio gli equivoci, di fronte ai quali ci troviamo. McRobbie ammette: “non ritengo che la “classe” sia un tema irrilevante”, ma pensa anche che esso vada oggi declinato connettendo il senso della potenza e della agency che evoca, con la nozione deleuziana di desiderio. Verrebbe da dire, senza in alcun modo addentrarci nell’analisi di questi testo ma solo usandolo come spunto per precisare alcune cose, che negli anni Settanta il femminismo operaista ha ampiamente ragionato a proposito della relazione complessa tra classe e genere. Andrebbe qui ricordata una lunga storia, forse poco nota, certo conflittuale, che innerva di sé la dialettica complessa che è esistita tra movimento operaio e movimento femminista. Si denunciava allora che le donne venissero viste come soggetti politici solo nel momento in cui svolgevano un lavoro produttivo fuori casa, ovvero solo qualora si trovassero ricomprese all’interno del ciclo produttivo e nel lavoro socialmente organizzato (la classe dei produttori). Questo meccanismo, in un certo senso finiva per contrapporre la lotta delle donne a quella degli operai. Già allora, in sostanza, si affermava che il “metaconcetto” di classe non era sufficiente a parlare anche per/delle donne e a ricomprendere il lavoro riproduttivo.
Lo riteniamo insufficiente, per ragioni uguali ma diverse, anche oggi. La questione è tutt’altro che ignota al pensiero neo-operaista contemporaneo, anzi. Nel momento in cui l’attenzione del capitale si trasferisce sulla riproduzione, come elemento centrale della valorizzazione capitalistica che si esplica trasversalmente e al di fuori delle pareti della fabbrica, nel sociale, dentro la dimensione precaria del bios, evidentemente la nozione di classe (intesa come classe dei produttori) ha necessità di essere aggiornata. Paradossalmente, ora che tutto è produttivo ovvero tutte e tutti siamo infinitamente produttori, siamo tutte e tutti classe? E che percezione ha la presunta classe del proprio essere tale, nella frammentarietà della precarietà? Possiamo parlare di una nascente, frastagliata classe, ancora inconsapevole, dei riproduttori? Può darsi un comune nelle rivendicazioni di questa classe che si dà facendo? Esiste la necessità di un processo di autocoscienza che renda esplicitamente visibile ai riproduttori il valore negato di ciò che svolgono? Può essere, tale processo, propedeutico a un meccanismo di riappropriazione? Queste sono le domande che a noi sorgono spontanee da un po’, nel momento in cui noi usiamo oggi le parole classe e genere. Con i piedi piantati nell’inchiesta, noi ci domandiamo quale sia la sorte dei corpi sessuati che emergono nella precarietà con più forza ancora rispetto al passato nel momento in cui socialità, affettività e sessualità sono diventati espliciti fattori di valorizzazione.
Effettivamente, i termini classe e genere mettono in luce un problema nel momento in cui il primo, da solo, non basta più a fornirci un’unica chiave di lettura delle contraddizioni della composizione sociale del lavoro ma il secondo corre adesso il rischio di essere usato come una rassicurante e consolatoria bandiera “modernista”, senza tenere conto dei nuovi/vecchi campi di tensione che si originano sul tema e quasi rimuovendo il problema connesso alla crescente diseguaglianza del contesto sociale e alla modificazione/intensificazione delle forme di sfruttamento a esso legate. E’ nella dialettica ancora e sempre esistente tra questi due elementi, nei nuovi terreni di scontro che il cambio di paradigma produttivo propone proprio alle donne, che ha senso porsi la domanda sul ruolo del femminismo contemporaneo e della lotta delle donne in generale. In realtà, proprio nell’esplicarsi delle teorie sulla bioeconomia e sull’economia degli affetti, noi siamo i più convinti assertori del fatto che il genere (i generi), come la razza, sia centrale. Poiché pensiamo, a partire da ciò che viviamo, che il genere non rappresenta più solo un elemento di oppressione, ma sia diventato uno dei cardini dello sfruttamento contemporaneo. Così, si può arrivare a ipotizzare che il paradigma bioeconomico finisca per operare quella ricomposizione tra classe e genere che viceversa il fordismo ha impedito dentro la divisione sessuale del lavoro. E se classe è un concetto che non sa rendere conto della nuova complessità della composizione sociale del lavoro, detto che ha sempre taciuto del lavoro riproduttivo delle donne, il ruolo oggi assunto dal genere non è garanzia di emancipazione e realizzazione per le donne, ma presenta taluni lati che andrebbero analizzati dentro la novità della femminilizzazione del lavoro e della lavorizzazione delle donne.
Inoltre, il lavoro emotivo, i lavoratori della conoscenza “adoperati” dal lavoro che fanno, a cui sono legati così come la cura legava le donne al lavoro in famiglia, sono stati una chiave di lettura determinante a farci cogliere l’aspetto intricato (la parte maledetta) dell’immissione del desiderio nella produzione.

La donna a una dimensione?
Tornando alle piazze a cui accennavo nel primo paragrafo, esse sono senz’altro strapiene di donne che di tutti questi processi sono pienamente consapevoli. Sanno bene che il discorso contemporaneo, politicamente corretto, sul “ragionevole equilibrio dei sessi” può essere un discorso di comodo che serve anche a oscurare i problemi. Per parte nostra, la questione non è negare aprioristicamente la possibilità di intrattenere una qualunque dialettica con le istituzioni, il punto è: “per dire che cosa?”. Che visione della vita, delle relazioni tra sessi, dell’ambiente, del lavoro, del sociale, vogliamo esplicitare? Quali possibilità di penetrazione vogliamo riuscire a imporre alle nostre domande, tra loro quelle che sopra elencavo (dei quesiti di Repubblica sulle relazioni tra Berlusconi e le donne ci importa, sinceramente, assai meno)?
La rappresentanza come rappresentazione è un vantaggioso esercizio di governo. Come scrive Nina Power in un libro prezioso, ora tradotto in italiano, La donna a una dimensione (DeriveApprodi) “forse dovremmo occuparci meno della rappresentazione e più dei fattori strutturali e ideologici di fondo. Non a caso di recente la destra si è impadronita dell’idea che donne, omosessuali, membri di minoranze etniche possano accedere a posizioni di responsabilità”. Lungi dal concentrarci sulla valanga di contraddizioni vitali che investono i nostri corpi in modo sempre più violento e s-misurato, “l’idea di donna-emblema (o il nero-emblema o l’omosessuale-emblema) deve essere forzata per rendere conto del fatto che queste donne (o minoranze) “eccezionali” non rappresentano esclusivamente l’inclusione in una posizione di potere: finiscono con il rappresentare il potere in ciò che vi è di peggiore”. La democrazia imperiale nasconde i propri peccati strutturali con uno scopo truccato da rispettabilità rappresentativa. E come specifica Zillah Eisenstein “la manipolazione della razza e del genere in quanto esche democratiche rappresenta la corruttibilità della politica identitaria”.
Così, conclude Power, “questa situazione rappresenta un problema per il femminismo o almeno per quella parte di femminismo che fa un uso problematizzato di questo termine”. Penso esattamente allo stesso modo: la retorica femminista, dicevo all’inizio di questi appunti, è stata, in questi anni, usata da più parti, più volte, per “difendere” le donne nel crescere della paranoia sicuritaria funzionale al controllo delle vite, per espandere i consumi e la pubblicità, per implementare le ideologie del mercato flessibile del lavoro, per indurle a darsi docilmente, anima e corpo, a una logica apparentemente “emancipatoria” che le ha soltanto impoverite, nell’anima e nel corpo.
Questo femminismo di comodo e di apparato, propagandato dai magazine, sottoscritto dai professionisti della politica e della cultura televisiva di ogni sesso, che non vedono l’ora di saltare su un palco, utile per le campagne elettorali, per convincere l’opinione pubblica e gli indecisi, funzionale ad affondare un avversario politico o a enfatizzare la menzogna della meritocrazia precaria, soffoca l’analisi critica e non ci aiuta a liberarci davvero: è esplicazione della sofisticata dinamica oppressiva del biopotere. Sui giornali italiani, tanto sensibili alle problemi delle donne e alle meravigliose sorti e progressive della loro “potenza”, tutto questo non lo leggerete mai.

 

 

 

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