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Fortini/Pasolini: storia di ieri, storia di oggi

 

Pubblichiamo alcuni testi scritti da FRANCO FORTINI in risposta a Pasolini e alle sue prese di posizione sulla polizia (oggi si direbbe sulle “pecorelle”). Sono testi che sembrano un commento dell’attualità. Politicamente, i Saviano di oggi non sono tanto diversi dai Pasolini di ieri, talento a parte.

Richiesto dalla redazione romana di “L’Espresso”, verso la fine di maggio 1968, di partecipare ad una ‘tavola rotonda’ a proposito dello scritto di Pasolini che, contro gli studenti, prendeva le parti della polizia, scrissi, direttamente rivolto a Pier Paolo, questa pagina, proponendomi di leggerla in quella occasione. Mi recai a Roma ma non volli prendere parte alla ‘tavola rotonda’. Il testo che qui si riporta fu in quella occasione letto da me, privatamente, a Pasolini, come quello che sarebbe stato il mio contributo. Durò a lungo, in un locale della redazione romana, la nostra conversazione. Quegli appunti li pubblicai solo due anni dopo la sua morte, nel 1977.

 

Contro gli studenti

Questo articolo della “Pravda” scritto da Amendola e firmato da Pasolini non mi ha stupito. Nel corso degli ultimi dieci anni non mi ero fatte troppe illusioni sulla tua capacità di intendimento politico. Per te la lotta di classe è quasi sempre stata soltanto la lotta dei poveri contro i ricchi e i rapporti fra borghesia e proletariato soltanto un consueto conflitto di razionalità e irrazionalità. Quando il sottosviluppo italiano illudeva ancora, la tua poesia è stata la poesia di quella illusione. Poi quando la realtà ha preso a sfuggirti e tu la inseguivi come un aereo che vuoi spostarsi con la velocità della terra per rimaner sempre nel sole, hai preso a cercare il proletariato, anzi i poveri e la loro bellezza, fuori d’Europa, in Asia e Africa; e anche in America, purché inorganica negativa floreale. Da quando l’oppressione ne ha assunto nuove forme, non hai capito più. Hai ancora diritto all’elegia. Hai perso il diritto al ragionamento, perché non ne hai mai veramente riconosciuto il dovere.

Le immagini di frustrazione, ambizione impotente, snobismi disperati e dissociazioni sessuali che attribuisci agli studenti figli di borghesi, sono miti convenzionali del piccolo-borghese su se stesso. Mentre, presso gli operai, sono anche reali conseguenze dell’oppressione. Ma tu sogni, per operai, degli edili di fresca immigrazione, suppongo.

Come si fa a discutere col tutto e col nulla? In nome della aristocratica libertà di contraddizione, queste pagine disdicono e dicono, parlano di “dualismo fanatico” e di “ambiguità”. Chiamano a gran voce degli snob e dei complici in ascolto.

Rimproverare agli studenti di volere riforme sotto veste verbale rivoluzionaria vuol dire non sapere che gli operai, anch’essi, conducono la lotta politica quasi sempre al coperto della forma sindacale (vedi Francia). Consigliare agli studenti di occupare le sedi Pci è avere un’idea mitico-retorica della lotta politica. E sostanzialmente provocatoria. Gli studenti invasori sarebbero cacciati via come “fascisti” da via delle Botteghe Oscure. Attribuire ai dirigenti del movimento studentesco l’idea di voler fare la rivoluzione con gli studenti è altrettanto falso quanto attribuire a Marcuse la paternità di idee che vengono da quarant’anni di cultura e di lotta politica non solo europea.

Sei prigioniero di una definizione meccanica di “borghese” e di “piccolo-borghese”. Disprezzi tanto la sociologia: ma è l’altra faccia della sociologia, la faccia psicologica, quella che comanda la tua interpretazione. Il fatalismo ideologico e psicologico fornisce lo schema del comportamento piccolo-borghese degli intellettuali (capitolazione ed estremismo) e impedisce di compiere una reale analisi. Con la sociologia e la psicologia si dimentica che in ogni momento storico dato ci sono delle contraddizioni secondarie e delle contraddizioni principali e che in ogni momento dato le contraddizioni si incarnano in questo o in quello strato sociale. L’errore di credere misticamente nei sottosviluppati non deriva dal rifiuto del primato della classe operaia, in astratto; ma dal non capire che i contadini, in una data situazione, possono incarnare, in un paese dato, la massima contraddizione di classe e poi non più; e che non esiste una tipologia statica, sociologica o psicologica, dei contadini, degli operai o degli studenti piccolo-borghesi.

Presente e futuro dei movimenti studenteschi. Tema troppo serio per parlarne qui. Non sono qualificato per farlo. Nel corso dell’ultimo anno sono intervenuto lo stretto necessario. Qui si deve discutere invece di una carta scritta da uno dei maggiori scrittori del nostro paese. Il mio giudizio è di tristezza e di rifiuto. Le ritrattazioni e le civetterie di cui ami disseminare i tuoi testi e quest’ultimo in particolare sono la prova di un tuo profondo disprezzo per un lettore non-borghese. Tu desideri conquistare, insultandoli, proprio quei giovani borghesi intellettuali, proprio quegli scaldasedie di sedie ermetiche, proprio quei giovani che dopo il 1962, a Roma, ti leggevano su “Vie Nuove” come un ‘teorico’ del nuovo comunismo. Perché solo costoro sono capaci di apprezzare la recitazione, i mea culpa, lo strazio eccetera. Dovesse esserci la guerra civile, è improbabile che i giovani ti vogliano al loro fianco. A partire da queste posizioni puoi fare solo l’Evtusenko italiano, il bardo di Kosygin.

Sei confortato dal Pci e dai preti, sei ormai nella ormai certa Grosse Koalition, nella Santa Alleanza nazionale e internazionale. E sai perché? Perché hai peccato di presunzione. Hai creduto di poter cavalcare una dopo l’altra tutte le tigri del potere comunicativo. Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Malaparte. Con l’impeto della tua genialità si possono fare molte e bellissime cose. Ma non si può fare quella sola che permette di uscire dall’estetismo verso la storia e la politica: la rinuncia reale, non verbale, al monologo e ai piaceri del narcisismo.

Confermi la tua vocazione profonda a fare il fiduciario lirico di quello che tu chiami il “povero vecchio togliattiano partito comunista”. Ma quel povero vecchio è come gli operai che “poveretti” studiano il russo la sera; non esiste. È il Pci della tua giovinezza. Te lo lasciano sognare gli attuali agenti ideologici del revisionismo, coloro che hanno contribuito, con coerenza e capacità, a fare della politica coesistenziale la più tragica realtà dei nostri anni e contro cui si iscrive la rivolta internazionale e quella politica (da Cuba a Pechino, da Hanoi a Parigi, da Berlino alla Bolivia): l’unica realtà rivoluzionaria dei nostri anni. Chiedere oggi di credere al comunismo sovietico di Kosygin perché c’è stato il 1917 equivale a chiedere ai garibaldini romani del 1849 di non sparare sui francesi perché la loro bandiera è quella di Valmy.

Il Pci non è un povero vecchio: è un grande partito, con otto o nove milioni di voti, una straordinaria tradizione, una larga partecipazione al potere, una eminente e non sostituita funzione nazionale e internazionale, una politica, ossia una visione organica di quel che si può e, secondo esso, si deve volere. Chi si mette contro una parte di quella politica, deve negare con ogni energia che questo equivalga a mettersi contro il Comunismo. Il Comunismo è ben più grande dei partiti che comunisti si chiamano.

[1968]

 

La “politica coesistenziale”. Il vero e il falso

“Con quella mia frase sulla tragedia della politica coesistenziale pronunciavo, allora, una frase “estremistica” che però, pochi anni più tardi, con le vicende del terrorismo e del consociativismo sarebbe diventata, purtroppo, vera. E il nostro presente l’ha confermata, con il disfacimento della sinistra.

“Quando lessi queste note a Pier Paolo, seduto davanti a me in una piccola stanza della redazione di “L’Espresso”, non potevo sapere che lo vedevo per l’ultima volta. Ero davvero esasperato dal suo atteggiamento; ben più che per il testo a favore dei poliziotti, quel che trovavo insopportabile era di accettare lo sfruttamento pubblicitario, e la inevitabile trasformazione in volgare propaganda, di quel suo scritto. Erano gli ultimi giorni del mese di maggio o i primi di giugno. Dissi ai giornalisti di “L’Espresso” che mi rifiutavo di partecipare alla ‘tavola rotonda’ per non dover sedere accanto a un personaggio del Pci che mi aveva insolentito un anno prima.

“Mentre parlavo con Pasolini, a Parigi, la polizia uccideva uno studente. A sera, a Milano, c’era una lunga battaglia di manifestanti intorno al “Corriere della Sera”. Il mattino successivo (un sabato) ne parlai al telefono con Pier Paolo. Lo persuasi a non insistere con “L’Espresso” che premeva per registrare un suo intervento. Me lo promise. Partì per Milano. Quel medesimo pomeriggio, la redazione lo recuperava, lo registrava, raffazzonava il “pezzo” e pubblicava. Quando poi, qualche giorno dopo, con la tipica cecità giornalistica di ostinato sfruttamento della occasione, quella redazione chiese ad alcuni, e a me, un giudizio sul povero ‘scandalo’ dell’elogio dei poliziotti figli di poveri picchiati dagli studenti piccolo-borghesi, capii che bisognava rompere. Pasolini aveva mentito solo per gusto di esibizione. Dovevo ingiuriarlo. Mandai a “L’Espresso” queste righe:

“Il vero e il falso. È inutile dire che cosa in quelle pagine sia falso o magari ipocrita. L’hanno già detto. Posso aver fatto lo sforzo di indagare le motivazioni di chi per tanto tempo ha recitato la parte di D’Annunzio, sono troppo stanco per cercarle in chi ormai si contenta di imitare Malaparte. Invece sarebbe meglio vedere quel che c’è di vero (ad esempio, la parola “guerra civile”). E un nucleo, tutto fasciato di falso. Ma bisognerebbe portare il discorso fuori dal contesto che s’è scelto nascendo; e a un altro livello. Tenendo presente che, se si vuol parlare seriamente, a Pasolini è meglio dargli qualcosa da leggere o da scrivere perché non disturbi. Per parlare di quel che sta succedendo non servono i politici. Ci vorrebbe una mente di buona educazione marxista o una testa forte di cattolico di destra, come quella di Augusto Del Noce. Leggo di quest’ultimo, sul n. 5 di “Vita e Pensiero”, uno scritto sui giovani che merita molta riflessione; come questo periodo, d’altronde, che conclude un articolo della medesima rivista cattolica, dovuto a R. Quadrelli: “È bene prepararsi fin d’ora, e da sempre sarebbe stato bene prepararsi, alla vera scelta… la scelta che vorrà solo grandi sacrifici per piccoli risultati, e per la quale la legge scritta, tante volte vilipesa e tante volte invocata, non servirà più finalmente”.

“Ma sarebbe davvero ingiusto pretendere dall’”Espresso” di farsi sede di discorsi simili. Come sarebbe inutilmente oltraggioso suggerirne la meditazione alla gente di lettere che di solito fa coro a questi scandali falsi. Si tratta quasi sempre di gente che ha trascorso la vita praticando la riduzione di qualsiasi livello al proprio. Se come critico letterario o ideologo posso sbagliarmi, vent’anni di esperienza di copywriting, cioè di testi pubblicitari, m’assicurano che codesta del Pasolini, come advertising copy, è ottima. È una riuscita carta acchiappamosche. Le mosche sono venute. Ora bisogna buttar via le mosche e la carta.”

“Dopo quella nota, la rottura non aveva nessuna possibilità di venir sanata e non avrei avuto motivo di tornare a scrivere su Pasolini; che invece nel marzo del 1969, nella sua rubrica “Il Caos” sul settimanale “Tempo”, tornò a parlare dei miei versi, in quattro attente pagine; ma non ebbi occasione di leggerle e le conobbi, non senza commozione, solo dieci anni più tardi, quando quelle sue collaborazioni furono raccolte in volume.”

Fortini-Pasolini: vite parallele, idee divergenti

“So che la nostra storia è finita”; “La nostra storia non è mai finita”. La differenza era tutta nel valore di quel “nostra”. Per Pier Paolo era quella dei suoi coetanei e sua, che aveva avuto come luogo centrale l’adesione al popolo, l’antifascismo resistente, la milizia nella sinistra dei comunisti, nel decennio 1945-55. Tale storia era realmente finita. Con estrema penetrazione egli aveva veduto e detto nei versi di Le ceneri la fine di quelle immagini simboliche e patetiche. A differenza di altri che avevano parlato di quella “fine” pochi anni dopo la guerra (Tobino, Arpino, Carlo Levi, Cassola, Saba, Sereni, Bassani) ossia fra 1946 e 1950, Pasolini ne parlò proprio quando un ciclo nuovo si apriva, in Italia, con processi sociali ed economici che avrebbero rapidamente iniziata quella che Pasolini chiamò ‘mutazione antropologica’.

È vero che almeno da due secoli (e forse più) la poesia si alimenta del pathos di quel che scompare e dilegua; ma non fa dubbio che, a partire dal 1956, la società italiana (quale era stata per chi aveva avuto fra i quindici e i venticinque anni presso a poco fra il 1935 e il 1955) andava mutando a precipizio e a vista d’occhio. In questo senso (più ancora che Le ceneri di Gramsci) Il pianto della scavatrice e Una polemica in versi dicono il fatale passaggio del 1956. È vero che lo stridore della scavatrice piange “ciò che muore e ricomincia” e che “in questa melanconia è la vita”, ma da quel momento Pasolini saprà sempre meglio di essere “una forza del Passato” e che quindi, soprattutto dopo Accattone, andrà sempre più scrutando i caratteri degenerativi della trasformazione fino a rifiutare dieci anni più tardi, sebbene in forme contraddittorie, i ‘figli’ del 1967-1968.

Un punto notabile. Oggi è chiaro a molti quel che a parole era chiaro da almeno tre decenni: il tratto di vita nazionale che ha coinciso con la vita di chi scrive e con quella di Pasolini è stato asservito oltre ogni immaginazione, prima e oltre al conflitto delle cosiddette superpotenze, alla volontà politica e militare degli Stati Uniti. I partiti di opposizione, d’accordo con quelli di governo, col ceto imprenditoriale e con i meccanismi della informazione, hanno convenuto nel mantenere il silenzio sul grado di quella subordinazione. Non mi si replichi che non sono mancate menti e analisi che chiarivano la verità. È cosa molto diversa riferire gli avvenimenti ad uno stato di generica dipendenza e invece vederne gli effetti. Per questa vista sono stati necessari la caduta dell’Est europeo e gli avvenimenti mondiali e italiani degli scorsi due anni, 1991-1993.

 

Una polemica in versi

Caro Pasolini,
ti mando questa improvvisazione, che non vuol esser altro. Non ti conosco abbastanza per sapere quale sorta di passione, o di partecipazione, ti muova o quale indifferenza ti preservi; non so insomma se conoscendoti meglio dovrei considerarti di razza fraterna o nemica. Non ti stupisca questa curiosa dichiarazione: quale dovesse essere il risultato di una indagine ravvicinata (e me la riprometto riprendendo tutto quel che hai scritto finora) non muterebbe certo la mia stima per il tuo lavoro. Lavoro cosi prezioso, che appena letta la Polemica in versi mi son sentito rimescolar dentro il bisogno di dirti che, no, non siamo o non sono quel che tu credi, e nei versi e nella nota; ma di dirtelo, per dir cosi, “col cuore in mano”. Poi, scrivendo, la polemica ha preso la mano anche a me e cosi vi ho incluso – e sono quelli scritti in rosso, cioè in corsivo, dei versi che avevo iniziati a replica delle Ceneri di Gramsci. Nota che probabilmente riscriverò completamente questi versi, certo in una forma tutta diversa. Comunque belli o brutti, seri o ridicoli, son destinati a te e te li mando. L’attenzione che porti a “Ragionamenti” e l’entrare in campo in dispute ideologiche mi siano di giustificazione. Penso che una alleanza, tutto sommato, non sarebbe inutile.

 

Al di là della speranza
[Risposta a Pasolini]

Nam neque nos agere hoc patria tempore iniquo
possumus aequo animo…

1.
Non la paura di tornare eguali
a noi stessi, cristiane anime in cenere,
né ritegno di errore ci trattiene
fra gli errori. Dai nostri ultimi mali
altro sangue, non gelo, hanno le vene;
non orgoglio, ma irta carità.
Era dei falsi asceti il falso ardore
che repugnava: univano l’infame
disprezzo per i moti chiusi in cuore
a tutti (la “spontaneità”, la “fame
di storia”!) con l’elogio dei “semplici”. Onore
della ragione, il nostro, non virtù
astratta, non orgoglio.
Questo, almeno, sperato. E se ora chiedi
a me il mio cuore antico, se mi chiedi
chi sono, e quale orgoglio,
io ti rispondo che il mio pianto, vedi,
non si vergogna più.

2.
E anch’io ho saputo in una torma oscura
come la tua, ma a Bologna, una festa
di bandiere rapprese; e poi, fra i resti
dei cori, i vecchi-infanti nella dura
ira del neon… Il socialismo tristi
corpi mi parve, un’altra chiusa età

come la vecchia inascoltata e nera
che usciva dalla livida novena
di incenso e cera e buio, dove la pena
dell’agonia si culla nella sera
dei sensi e tutto è vano
strazio d’infanzia, cieca verità…

Anch’io so, più dite so, che sia questo
orrore della povera speranza
dei poveri, degli ingannati, senza
possibile riscatto; di chi presto
sarà vissuto, misera sapienza
orba di verità.

Ma tu chi sei che di pietà impietosa
dài grazia ai versi dove sono ciechi,
fuor di te, tutti? Nei vicoli biechi
e teneri ti sciogli, dell’afosa
notte di Roma, e poi torni e ti rechi
intatto al verso. Quella libertà

che ti perdoni, ad altri tu la togli
e del nulla sei complice e del male
del tuo popolo. A corte, poi, ti vale
leggere come l’anima disciogli
nei tuoi poemi in limpide querele,
fra chi, come te, sa…

3.
Mi provo ad un non mio discorso, vedi,
credendo che anche a me la rima e il verso
fingano forza ad essere diverso
dai miei vizi. Non credo a quel che credi.
Altre vie dalle tue m’hanno converso
a questa nostra eguale volontà.

La nostra storia non è mai finita.
Quando tu lo chiedevi, io scrissi in odio
alla pietà che ti vinceva, in odio
a chi vanta nel verso tuo la Vita
miele dei morti e del peccato, vischio
che fa dolce la nausea e la pietà:

Non la speranza ti dico, la cagna
affamata che non si sazia mai
e vagabonda ai confini. Tu sai
quanta con lei si celebra vergogna
quanta con lei viltà.
Una volta, sperare era sperare
aria d’amore o d’ozio o di campagna
o d’infanzia risorta o un pianto o un mare
dove spunti una vela, una montagna
bruna per la distanza, una città

dove perdersi in pace. Piano, un passo
dopo l’altro, è mutata, spenti i simboli
ridicoli, quei miti blandi limbi.
E la speranza ora è convulso passo
di bestia, entro di noi, che viene e va.

Sogni fra i corpi e credi alloro sangue
buono a bere, al calore
vile e dolce. Cammini giudicando
non giudicando, intriso
d’altri, per umiliarti e, in fondo, vincere.
Non è la colpa che insapora questo
vagare per le tenebre dolcissime
di parchi, di balconi, d’archivolti,
le notti aride; non è più che un ansito
per ricordare. Sei solo ed e quello
che vuoi…
Anima bella che si frusta! Il fuoco
d’essere abbietto e leccare il calcagno,
lo spasimo in protesi nervi, il roco
grazie e il devoto alito nel lagno
ultimo, tu lo sai bene, non è

se non rovescia furia d’infinito
potere che a sé solo in sogno crede,
quando chi dorme in suo ansito stritola
i denti di suo padre sotto il piede
e d’ombre della carne si fa re…

4.
(Veramente si fu servi delle ore,
veramente si fu servi di stolti,
veramente contriti i nostri volti
veri e tradito il nostro vero amore,
e l’ultima parola che ora ascolti
non fu detta, compagno, per viltà,
non l’ho mai detta, perché era più libera
troppo e più grande di questa esistenza
nostra, ed era menzogna dirla senza
dire anche l’altro, dire anche di no…)

5.
Ma chi spera di leggere domani
una consolazione nelle righe
di piombo dei giornali; e chi le scrive
nell’afa delle redazioni, con mani
di assassini devoti; e chi le nemiche
parole spia per farne scusa a sé,

sono compagni nostri! Che non credono
a nulla più se non alle parole
che hanno insegnato agli operai, parole
che ritornano a loro come fede
stravolta o ira o grido di chi vuole
quel che non ha ma più quel che non sa…

6.
Pure, più forti dei loro brusii, più sottili
dei nostri ragionamenti, più astute
del dolore, ritessono la muta
realtà con le tenaci fila
le forze produttive e si tramutano
in rapporti di produzione, e sta

questa, ‘in ultima analisi’, in rapporto
col ritmo che ti scrivo. Alle officine
di Varsavia i geli di mattine
disperate fra binari, abrasivi, acciai, reparti
di ruggine, odono forse ora la fine
dei nostri tempi nelle cifre che

Gozdzik spezza al microfono su folle
protese e ferme come l’altre, allora,
sui graniti di Pietrogrado; e chi ora
va nei parchi di Buda e guarda le zolle
péste di cingoli e passi, lavora
in suo cuore, poeta, anche per te.

7.
Non ti dico speranza. Ma è speranza.
Questa parola che ti porgo è niente,
la sperde il giorno e me con essa. E niente
ci consola di essere sostanza
delle cose sperate. In queste lente
sere di fumo e calce la città

che mi porta s’intorbida nei viali
sui battistrada di autotreni, muore
fra ponti di bitume, fari, scorie…
Qui sarò stato io vivo; e ai generali
destini che mi struggono, l’errore
che fu mio, e il mio vero, resterà.

[Novembre 1956]

 

 

* Da Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993 in http://www.pasolini.net/ideologia07.htm

 

 

 

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