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Fuori dalla pura politica. Laboratori globali della soggettività

 

di SANDRO CHIGNOLA e SANDRO MEZZADRA

1. Assoggettamento e soggettivazione: decentrare lo sguardo

Porre il problema del soggetto politico significa per noi porre il problema dell’assoggettamento e della soggettivazione. E cioè, spodestare il soggetto dalla sua posizione di fondamento – la posizione che esso mantiene nel discorso «umanista» o liberale – per collocarlo nell’immanenza dei processi che lo producono. Lo Stato e il capitale, nella modernità, sono le due potenze a cui questi processi fanno capo. L’impronta dell’assoggettamento, secondo la lezione di Michel Foucault, accompagna la fabbricazione della soggettività fin da quando una moltitudine riottosa alla disciplina del lavoro viene investita da un insieme di dispositivi di individuazione, per ricavarne soggetti compatibili con l’ordine sociale del capitalismo manifatturiero emergente. Ma questi processi sono accompagnati fin dal principio da pratiche di soggettivazione, che si producono ogniqualvolta la libertà eccede gli schemi pensati per imbrigliarla e obbliga il potere e reinvestirsi altrove, in altre tecnologie o in altri saperi, per recuperare, produttivamente, il controllo su ciò che, sempre di nuovo, gli sfugge. La tensione tra assoggettamento e soggettivazione si inscrive tanto nelle dinamiche e nei concetti politici fondamentali (dalla sovranità alla cittadinanza) quanto nel rapporto di capitale, marxianamente costituito dalla scissione tra forza lavoro e denaro. Criteri essenziali di organizzazione dei rapporti di dominio, quali il genere e la razza, operano su entrambi i terreni per distribuire i soggetti in posizioni asimmetriche. E sono tuttavia essi stessi continuamente rovesciati in basi materiali di processi di soggettivazione.

Agli inizi dell’epoca moderna è la macchina della giuridificazione quella che, addomesticando gli istinti belluini dell’individualismo possessivo, ricava uno spazio politico (ed economico) all’interno del quale il conflitto viene tradotto in concorrenza e l’antagonismo radicale della guerra civile viene politicamente ritrascritto in competizione per il potere. Il soggetto di diritto (la persona giuridica) viene fabbricato a partire dalla centralizzazione degli apparati volti alla produzione e alla riproduzione dei saperi giuridici e il suo destino è strettamente legato alle funzioni di sovranità che rendono il suo diritto esigibile, perché politicamente garantito. Il sovrano fa valere su di un territorio il diritto del quale è produttore monopolistico e può farlo legittimamente in forza dell’autorizzazione che lo investe dal basso a rappresentare il desiderio generale di pace e di sicurezza che si esprime come volontà dell’intero corpo politico. Una parte significativa della storia costituzionale e politica occidentale, quella che riguarda almeno i tre secoli di incontrastata vigenza dello ius publicum europaeum, lavora a questa appropriazione statuale della politica, nella cui cornice si assesta lo sviluppo del capitalismo. La spazialità politica che così prende forma in Europa trova nell’espansione coloniale e imperialistica un suo momento costitutivo, in cui nuovamente convergono la politica di potenza degli Stati e l’espansione delle frontiere del capitale. Lo Stato territoriale moderno, incardinato a un sistema di relazioni internazionali che mette in forma la guerra ridefinendola in uno strumento, per quanto eccezionale, volto al perseguimento di fini giuridici, perimetra, all’interno dei propri confini, uno schema di cittadinanza che abilita i soggetti all’esercizio di diritti politici, che vengono tutelati proprio in quanto non eccedenti il – e anzi, in quanto integralmente commisurati al – dispositivo generale della rappresentanza politica: non c’è diritto se non c’è potere, ma non c’è potere legittimo se il diritto del singolo non vi si ritrova rappresentato. Lo Stato moderno è la macchina che trasforma la libertà in obbligazione, l’obbedienza in diritto. E che, all’interno dei propri confini, assume a sovrana la legge e chi sia incaricato di «farla» rappresentando la volontà di tutti[1]. Questa macchina ci sembra ormai evidentemente inceppata.

Ci sembra inceppata non soltanto per via di un’espansione dei mercati globali che reinveste altrimenti sui dispositivi di sovranità e che li adopera come articolazioni intermedie di una molto più ampia ridefinizione degli spazi e delle istituzioni della politica – per ritagliare zone di attrazione per gli investimenti della finanza internazionale con drastiche operazioni di abbattimento dei sistemi di Welfare, per la canalizzazione e il filtraggio delle migrazioni globali, per la riorganizzazione dei mercati locali del lavoro, ad esempio –, ma anche per l’evidente disaffezione e sfiducia che, dall’interno, investe i meccanismi rappresentativi della democrazia matura, indebolendone ed erodendone le capacità di reazione rispetto ai processi che tendono ad includerli, in posizione subordinata, negli schemi «tecnici» di una governance poststatuale. L’equilibrio, certo instabile ma storicamente efficace, tra la forma Stato e il modo di produzione capitalistico che ha caratterizzato un’intera epoca (appunto la modernità) costituendo la cornice al cui interno si sono dipanate le vicissitudini della soggettività politica, appartiene ormai al passato. Nuovi assemblaggi di potere, per riprendere l’analisi di Saskia Sassen, sono pienamente operativi, al cui interno gli Stati (e sempre più spesso singole strutture statuali) sono riarticolati in funzione di logiche e razionalità che li trascendono[2]. Le forme della governance si coniugano all’interno di questi assemblaggi con effetti di sovranità che è sempre più arduo imputare a precise istanze. La rappresentanza politica e la democrazia sono radicalmente spiazzate dai processi di finanziarizzazione del capitalismo che, come è evidente nella crisi attuale, hanno finito per costruire attorno al capitale finanziario agenzie capaci di esercitare un vero e proprio potere di commissariamento sugli Stati[3].

La nostra impressione, che cercheremo di sviluppare nelle pagine seguenti, è che buona parte del dibattito critico contemporaneo sul tema del soggetto politico non faccia i conti con la radicalità di questi processi e continui ad assumere come proprio riferimento una nozione di politica ritagliata su un’epoca storica ormai tramontata. Ci sembra in particolare che continui ad agire, in questo dibattito, un’interpretazione del neoliberalismo che non ne coglie i caratteri di radicale innovazione rispetto al liberalismo classico, sottolineati ad esempio in modo molto efficace da Wendy Brown sulla scorta delle intuizioni di Michel Foucault[4]. Il neoliberalismo è una formula istituzionale per l’impianto e per l’organizzazione di logiche di mercato capaci di attraversare, condizionandole, le stesse forme della soggettività che esse producono, riflessivamente, come effetto dei processi di impresa e della logica del rischio che caratterizza i mercati finanziari: ne vediamo oggi pienamente il rovescio nell’azione pervasiva del meccanismo del debito come dispositivo di assoggettamento tanto dei singoli quanto degli Stati[5]. Da questo punto di vista, il neoliberalismo può essere inteso, in termini concettuali, come il dispositivo giuridico e politico attraverso il quale si disegna una via di uscita dalla «modernità» – quella legata allo Stato nazionale e al sistema di diritto internazionale che ad esso corrispondeva –, ma anche, e proprio per le caratteristiche globali che lo connotano, come ciò che permette di interrogare criticamente il preteso universalismo delle moderne categorie del Politico; universalismo che in un’altra prospettiva, quella che si dischiude allo sguardo capace di guardare a questi processi a partire dal policentrismo che li caratterizza, si dimostra essere, invece, l’effetto di una lettura alquanto parziale e orientata della storia costituzionale degli ultimi secoli.

Assumere un’immagine del neoliberalismo come quella appena indicata impone un radicale decentramento dello sguardo e della riflessione sul soggetto politico. Come ha scritto Wang Hui a proposito della Cina, quello di neoliberalismo non è un concetto che possa essere costruito «semplicemente sommando le sue caratteristiche a un livello astratto»[6]. Non è cioè un insieme di ricette di politica economica che abbiano trovato applicazione omogenea a livello globale, per via dell’occupazione da parte di interessi capitalistici di una macchina statuale rimasta essenzialmente intatta. È invece un criterio di complessiva riorganizzazione dei rapporti sociali e politici che ha prodotto effetti profondamente eterogenei sulle diverse scale geografiche su cui è stato applicato e che ha tuttavia ovunque determinato un’irreversibile disarticolazione dei tradizionali rapporti tra il pubblico e il privato. È ormai su questa soglia di indistinzione che si giocano tanto i processi di assoggettamento quanto quelli di soggettivazione, a fronte di un capitalismo che si è esso stesso riorganizzato al di là della frontiera tra pubblico e privato – tanto per quel che concerne le dinamiche della finanziarizzazione quanto per quel che concerne una produzione che fa sempre più direttamente leva su potenze “comuni”[7].

La governamentalità neoliberale rappresenta la risposta al problema della non governabilità della democrazia, la fuoriuscita vincente, cioè, dalla crisi che aveva investito, tra la fine degli anni Sessanta e la seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, i processi di formazione e di controllo della decisione politica nel momento in cui essi venivano investiti da un eccesso di claims e di rivendicazioni soggettive che saturavano i canali della rappresentanza e le mediazioni possibili al sistema dei partiti[8]. È a partire da questa consapevolezza, dall’impiego cioè di una nozione forte di neoliberalismo come teoria e come prassi di una radicale ristrutturazione dei dispositivi di potere volta ad ottenere il controllo su processi di soggettivazione politica evidentemente non più imbrigliabili nel compromesso costituzionale “fordista” che aveva segnato in Occidente l’uscita dall’epoca delle guerre mondiali, che impostiamo il nostro confronto con l’attualità: l’attualità di un dibattito filosofico-politico in gran parte irretito dalla nostalgia per il concetto di costituzione – intesa, quest’ultima come macchina di traduzione temporale del potere costituente in sistema di poteri costituiti e come perimetro «naturale», perciò, per il riconoscimento e per l’integrazione dei processi di soggettivazione che si producono ai suoi margini – e l’attualità di uno stato di cose che, per i rapporti che lo articolano a livello globale, obbliga, almeno a nostro avviso, ad assumere una prospettiva meno irriflessivamente eurocentrica di quanto normalmente non accada.

2. Tempo-evento e rarità della politica

Due sono gli assi fondamentali sui quali viene impostato, nel dibattito filosofico-politico contemporaneo, il confronto con il problema della soggettivazione. Da un lato, la nozione di un tempo-evento, retaggio del discorso costituente che indirizza il soggetto all’istituzionalizzazione; dall’altro, l’idea che sia comunque necessario riferire la soggettivazione al dispositivo che, accogliendola, o, in altri termini, traducendola politicamente, la neutralizza. Alain Badiou, per menzionare una delle voci più citate nel dibattito del pensiero critico, costruisce la propria operazione di restaurazione della filosofia[9], sulla mossa «antisofistica» che marginalizza il circuito dell’opinione e di quello che egli – con un significativo rovesciamento di Foucault – chiama l’«inessenzialità del giornalismo» incapace di distinguere tra «fatto» ed «evento»[10]. L’evento non è per Badiou dell’ordine della realtà. Esso non realizza un possibile, ma lo crea[11], facendo il vuoto nella distribuzione tra ciò che esiste e ciò che non esiste secondo l’indicizzazione trascendentale degli enti ad un ordine della «comparsa». Un evento si produce a partire da un intervento, da una decisione aleatoria, in grado di nominare l’elemento sovrannumerario rispetto all’ordine del discorso della situazione e di identificare, selezionandoli tra i molti possibili, gli elementi che ad essa appartengono, determinando, sull’«orlo del vuoto», il fatto che essa sia. Senza la decisione non c’è l’evento, potrebbe dirsi. E senza la «fedeltà» retrospettiva all’evento come precaria composizione politica dei possibili che marca la verità di una situazione, non c’è soggetto.

Ne deriva una duplice conseguenza. Innanzitutto, in aperta rottura «con la sinistra, la rappresentanza, la democrazia»[12], che la politica non è dell’ordine dell’eccesso, ma della rarità. Non c’è un problema di decantazione istituzionale delle istanze sociali, per Badiou, ma solo, e piuttosto, un problema di invenzione (teorica) e di intervento (una scommessa sulla contingenza) capaci di verificare nella risposta che si saranno dimostrati in grado di ottenere (per questo il tempo della politica è il futuro anteriore), il loro aver prodotto un sito, un evento di verità e un soggetto, sulla punta di lancia di una singolarità massimamente intensionale. Le sequenze autenticamente politiche esistono laddove l’inesistente – e cioè la regolarità delle procedure – deve tornare e coincidono, nella storia recente, con irruzioni-ingiunzioni di verità capaci di innescare, forzando una sottrazione radicale rispetto all’ordine delle cose esistente, potenti, ma appunto rarissimi, processi di soggettivazione politica. La seconda conseguenza deriva dalla retrospezione in cui si costituisce il soggetto a partire da quella che Badiou chiama «fidélité intervenante»[13]; ciò che assegna l’evento alla «consistenza» che ne fa qualcosa di più di un immediato. Un soggetto è tale non per la materialità delle pratiche sociali o rivendicative che mobilita, ma per il grado di fedeltà nella risposta che si sarà dimostrato in grado di dare all’ingiunzione dell’evento, organizzandone il potenziale in una durata. Tanto il quadro istituzionale dello Stato moderno quanto la struttura del capitalismo appaiono in Badiou assunti come elementi invarianti, e la soggettivazione politica è del tutto sganciata da un’analisi dalle trasformazioni e dalle tensioni che investono l’uno e l’altra – nonché la forma del loro rapporto[14].

Si tratta di problemi che tornano, per molti versi, in Jacques Rancière. Anche qui, il processo di soggettivazione viene inteso come la produzione di una «capacità di enunciazione» sovrannumeraria rispetto all’ordine amministrato dalla police, latrice di una portata «rivoluzionaria» di riconfigurazione generale del campo d’esperienza, proprio per il fatto che la «parte» cui essa risponde non è compresa, né riconosciuta, dall’anagrafe che identifica, ed organizza, il conto delle parti[15]. Attraverso questo «conto», in cui consiste la prestazione originaria della police, prende forma una precisa economia della visibilità e della presenza, uno schema generale che stabilisce cioè le figure di soggettività legittimate a “comparire” nello spazio pubblico. Politica, per Rancière, si dà soltanto quando una presa di parola non prevista da questo schema, quello che definisce l’insorgere della «parte dei senza parte», scompagina integralmente l’ordine della police. Anche in questo caso, come in Badiou, il tentativo di pensare la democrazia oltre la democrazia – nel caso di Badiou: il comunismo come idea – fa interamente leva sulla «singolarità di un momento politico» capace di «interrompere la temporalità del consenso»[16]. Il tempo della politica appare così consegnato a un assoluto presente: sganciata dai processi materiali che ne determinano la produzione, la soggettivazione finisce per essere pensata nei termini di un evento – al fondo: insurrezionale – che disegna uno stato d’eccezione.

Varrebbe forse la pena di chiedersi quanto Carl Schmitt sia presente – del tutto paradossalmente anche nella polemica di Badiou con la sofistica postmoderna e con la sua identificazione di Wittgenstein con il Gorgia dei moderni[17], per la svolta linguistico-procedurale che accompagna il proliferare del liberalismo contemporaneo – nel pensiero democratico radicale contemporaneo. E quanto questo Schmitt, uno Schmitt sovranista, votato al recupero dell’antagonismo in matrice di un’istituzionalità aperta agli aspetti più crudi e tragici della lotta per il riconoscimento, sia operativo nella stessa definizione laclausiana della politica come gioco egemonico-strategico. «Pensare con Schmitt contro Schmitt» è, in fondo, la divisa di Chantal Mouffe[18]. Siamo qui di fronte, tuttavia, a un diverso atteggiamento di pensiero. Se la riflessione di Badiou e Rancière appare gravitare verso la temporalità puntuale di un evento definito in termini di insorgenza, Mouffe assume come punto di partenza la distinzione schmittiana tra politico e politica per riaffermare l’orizzonte della moderna forma Stato come sostanzialmente non oltrepassabile. Definito nei termini di «una dimensione dell’antagonismo […] costitutiva delle società umane»[19], il politico è assunto come una vera e propria costante antropologica, il cui terreno privilegiato di radicamento è quello delle identità. E «la politica» non può che essere l’insieme delle tecniche, delle pratiche e delle istituzioni approntate per trattare l’irriducibile nucleo conflittuale del «politico». Riconoscimento di questa irriducibilità, trasformazione dell’antagonismo in agonismo e dei nemici in avversari sono, per Mouffe, le determinazioni essenziali della democrazia (radicale). Si potrebbe discutere a lungo la pretesa opposizione al liberalismo di questa teoria della democrazia, ricordando ad esempio come alcuni dei più avvertiti teorici liberali della seconda metà del Novecento (da Raymond Aron a Ralph Dahrendorf) abbiano a lungo insistito sulla produttività del conflitto. Ma il problema che qui si pone è più di fondo. Se l’antagonismo e la scissione caratterizzano la “condizione umana”, è facile capire che la teoria politica, in una ripetizione dell’originario gesto hobbesiano, non potrà che essere ossessionata dall’unità – da quella «costruzione del popolo» in cui Ernesto Laclau individua coerentemente l’«atto politico per eccellenza»[20].

3. Il fantasma dello Stato

Fin dalla pubblicazione, nel 1985, di Hegemony and Socialist Struggle, Laclau e Mouffe hanno esercitato una considerevole influenza nel dibattito teorico-politico internazionale. La critica di ogni «riduzionismo» e di ogni «essenzialismo», che Laclau aveva anticipato già negli anni Settanta sulla base di un confronto con la storia del peronismo[21], si coniugava in quel libro con una rilettura del concetto gramsciano di egemonia e con l’elaborazione di una teoria dell’articolazione. Non è questo il luogo per discutere l’insieme di questa teoria, costruita attorno a riferimenti lacaniani e a un continuo confronto con gli esiti della riflessione novecentesca sul linguaggio. Quel che qui ci interessa porre in evidenza sono le sue conseguenze dal punto di vista del soggetto politico. L’apertura in senso democratico della teoria «socialista» derivava in effetti in Laclau e Mouffe da una riflessione sui limiti di un’immagine del soggetto politico costruita, all’interno dell’ortodossia marxista, sul primato della classe operaia e delle sue lotte. Il «populismo», nell’esperienza latino-americana, sembrava a Laclau porre in termini molto più avanzati (e realistici) il problema della costituzione di una soggettività politica a partire da condizioni di radicale eterogeneità sociale. Nelle condizioni decisamente diverse degli anni Ottanta in Gran Bretagna e in Europa, caratterizzate dalla crisi della sinistra socialdemocratica e comunista e dallo sviluppo dei «nuovi movimenti sociali», Laclau e Mouffe ritenevano di trovarsi sostanzialmente di fronte al medesimo problema.

L’approccio «discorsivo» alla costituzione del sociale proposto in Hegemony and Socialist Struggle muoveva dalla tesi dell’«eterogeneità» e dell’«apertura del sociale» per individuare in una continua «proliferazione di differenze», in un «surplus di senso del sociale», la sfida essenziale a cui le pratiche di articolazione (di costruzione di egemonia) devono rispondere[22]. Questa proliferazione di differenze era intesa anche come proliferazione di soggetti, movimenti, lotte di fronte a cui Laclau e Mouffe ritenevano che fosse possibile soltanto una «fissazione parziale» di senso, attorno alla costruzione di specifici «punti nodali» che funzionassero come “giunture” delle pratiche di articolazione[23]. Il problema politico fondamentale, all’interno di spazi sempre più instabili e a fronte di identità mutevoli e in via di costante ridefinizione, diveniva la ricerca di alleanze e coalizioni che consentissero di valorizzare l’apertura e l’eterogeneità costitutivi del sociale in direzione di più avanzati assetti democratici, rispetto allo schema novecentesco dello Stato-Nazione. Ciò che era in questione, era legare il processo politico ad una potenza di negoziazione aperta tanto verso il basso (in grado, cioè, di trattare con le istanze e le domande sociali), quanto verso l’alto (contrattando con i flussi globali di capitale), aprendo spazi di politicizzazione.

È facile vedere in questo schema teorico un atteggiamento che sarebbe rimasto costante negli anni successivi, soprattutto nel lavoro di Laclau. Molte osservazioni critiche formulate a proposito di Hegemony and Socialist Struggle, del resto, possono essere fatte valere anche a proposito di libri successivi, come La ragione populista. Stuart Hall, ad esempio, pur riconoscendo la suggestione del tentativo di «pensare le pratiche come se funzionassero in modo discorsivo», espresse tempestivamente la sua perplessità di fronte a una prospettiva in cui «non c’è alcuna ragione per cui qualsiasi cosa non sia o sia potenzialmente articolabile con qualsiasi altra cosa»[24]. Emerge qui un problema di decisiva importanza a nostro avviso: la critica dell’ortodossia marxista ha finito per condurre Laclau e Mouffe a rimuovere dal loro orizzonte teorico le condizioni materiali dell’emergenza delle soggettività. La sempre maggiore importanza assunta nel lavoro di Laclau dal concetto di «catena equivalenziale», come dispositivo capace di unificare una «pluralità di domande», non pare risolvere questo problema. Al contrario, come ha recentemente notato José Luis Villacañas Barlenga, lo sposta su un terreno – quello appunto della produzione di equivalenza – su cui il neoliberalismo sembra essersi attestato da tempo con molta maggiore efficacia dei teorici della democrazia radicale e del populismo[25].

Quel che colpisce, seguendo il lavoro di Mouffe e Laclau, è come la mobilitazione di un apparato concettuale estremamente sofisticato finisca per ristabilire, sia pure in un contesto “post-moderno”, la vigenza delle logiche e delle categorie che hanno innervato la storia e la teoria dello Stato moderno. Questo non vale soltanto per l’indiscussa perimetrazione nazionale del «popolo» di Laclau. A un livello più profondo, il fantasma dello Stato accompagna i passaggi teorico-politici più impegnativi della formulazione della teoria dell’articolazione, dell’istituzione del sociale e della catena equivalenziale consegnando la politica a un destino che potremmo definire attraverso un riferimento alla categoria di trascendentale. Una volta affermata l’impossibilità della società come «totalità pienamente suturata», in Hegemony and Socialist Strategy il problema politico fondamentale, ovvero l’istituzione del sociale, viene presentato come «tentativo di costruire quell’oggetto impossibile»[26]. Tutte le lotte, scrivevano Laclau e Mouffe nel 1985, hanno un «carattere parziale». È solo il momento dell’articolazione che «gli attribuisce il loro carattere, non il luogo da cui hanno origine»[27]. Analogamente, vent’anni dopo, è l’«autonomizzazione del momento equivalenziale rispetto agli anelli della catena» (ovvero alle «domande sociali»), per Laclau, a costituire il momento politicamente decisivo. «Il momento equivalenziale non può essere comunque subordinato alle domande, poiché ha il compito cruciale di renderne possibile la pluralità stessa»[28]. L’esemplificazione qui offerta, la politica del PCI negli anni Quaranta e Cinquanta, ci pare significativa di come la simmetria tra forma Stato e forma partito continui a definire la macchina teorica attraverso cui il soggetto politico viene pensato e fissato nella figura del popolo.

Siamo qui di fronte, a nostro giudizio, a una teoria politica che finisce per eludere gli aspetti più significativi e innovativi delle trasformazioni che negli ultimi anni si sono manifestate tanto sul versante istituzionale quanto sul versante dei movimenti e delle lotte. Guardando in particolare all’America Latina, dove Laclau ha conosciuto una notevole fortuna nella nuova stagione dei governi progressisti che hanno radicalmente modificato il panorama politico sub-continentale, il suo discorso si presta a riattivare mitologie (il riferimento ai populismi “storici” latino-americani e alle politiche “sviluppiste” adottate ad esempio dal primo peronismo in Argentina) che appaiono in evidente distonia con gli sviluppi contemporanei[29]. Centrando nuovamente attorno alla figura dello Stato l’insieme del processo politico, non si smarrisce soltanto l’originalità di politiche sociali che almeno in alcuni momenti della storia latino-americana recente hanno tentato (nel Brasile di Lula non meno che nella Bolivia di Morales) di coniugarsi produttivamente con la potenza e l’autonomia dei movimenti che erano stati all’origine del crollo dei precedenti governi neoliberali. Si ripropone anche un’immagine dello Stato come sede della pura politica, come soggetto che, proprio in quanto innervato dalla catena equivalenziale costitutiva del popolo, è strutturalmente altro dalle logiche transnazionali e finanziarie di un’accumulazione capitalistica che continua in realtà a condizionare profondamente lo sviluppo economico e sociale. E si rinuncia dunque a pensare la possibilità di agire “dentro e contro” queste logiche, come ha chiaramente tentato di fare Lula in Brasile, puntando in particolare sull’approfondimento di processi di integrazione regionale per guadagnare un terreno su cui costruire rapporti di forza più favorevoli con il capitale finanziario.

Abbiamo così, sia pure in modo necessariamente assai schematico, alluso a un possibile modello politico innovativo, che ci è parso di intravedere negli scorsi anni all’interno del laboratorio latino-americano ma che potrebbe avere a nostro avviso una validità di carattere più generale. Ne abbiamo identificato alcuni tratti ripredendoli da singole esperienze, consapevoli del fatto che non si è mai presentato in forma pura e che pone notevoli problemi tanto sotto il profilo teorico quanto sotto il profilo politico. Proviamo a ricapitolare[30]. Il confronto con il neo-liberismo si è prodotto in America Latina a partire da momenti di vera e propria insorgenza (si pensi alla Bolivia ma anche all’Argentina del 2001) al cui interno si è espressa una composizione sociale profondamente eterogenea. Ne è risultata una potente affermazione di autonomia, in cui un ruolo fondamentale è stato giocato dai movimenti indigeni ma che è immediatamente tracimata sul terreno metropolitano, e che alcuni governi “progressisti” hanno tentato di assumere come elemento essenziale di nuove politiche sociali – di una governance della libertà e dell’uguaglianza votata a un corpo a corpo quotidiano con la materialità di logiche neoliberali ormai radicate nella società. Fissare costituzionalmente questo dualismo tra autonomia dei movimenti e azione dei governi è diventato tema essenziale di dibattito e azione politica in molti Paesi latino-americani. Contemporaneamente il confronto con il capitale finanziario e con le logiche transnazionali dell’accumulazione capitalistica è stato ingaggiato prima di tutto approfondendo i processi di integrazione regionale, moltiplicando gli scambi e i progetti di cooperazione tanto tra i governi quanto tra i movimenti.

Sia chiaro: questo non è quel che è avvenuto in America Latina negli ultimi dieci anni, è un “modello” costruito estrapolando alcuni aspetti da esperienze eterogenee e complesse, dei cui limiti siamo perfettamente consapevoli. Siamo altresì consapevoli dei limiti di ogni “modello”. Ci pare tuttavia che quello che abbiamo costruito sia non solo più interessante, sotto il profilo di una riflessione sulle figure nuove assunte oggi dal soggetto politico, di quello di Laclau discusso in questo paragrafo. Ci pare anche caratterizzato da maggior realismo a fronte dei processi che negli ultimi decenni, al di fuori dell’Occidente, hanno materialmente disarticolato la figura di quello che viene abitualmente definito lo «Stato dello sviluppo». Si tratta ovviamente, anche in questo caso, di una figura profondamente eterogenea, la cui importanza per una storia della statualità nella seconda metà del ventesimo secolo non può tuttavia essere sottovalutata. Nei Paesi usciti dalla dominazione coloniale, o comunque in condizioni di «dipendenza», lo sviluppo – a cui si puntava con un mix di politiche di piano e di mercato – è stato il criterio fondamentale di legittimazione dello Stato e al tempo stesso la chiave di un progetto di costruzione nazionale. Il desarrollismo latino-americano, che costituisce il riferimento implicito di molti discorsi di Laclau, ha avuto in questo contesto il proprio luogo di origine, individuando nella generalizzazione del lavoro salariato la chiave essenziale per una qualificazione democratica della cittadinanza.

Lo Stato dello sviluppo, tuttavia, si fondava su quella che il geografo James D. Sidaway (sintetizzando una letteratura ormai amplissima) ha definito «un’omologia di fondo tra territorio e l’economia». È la rottura di questa omologia che determina la crisi dello Stato dello sviluppo. Quelle che vengono definite «nuove geografie post-sviluppiste» registrano questa rottura, determinata tanto dai processi di finanziarizzazione del capitalismo quanto dalle logiche transnazionali della produzione e dell’accumulazione, che hanno messo in discussione il principio dell’unità e dell’omogeneità dei territori nazionali[31]. Siamo qui di fronte a sviluppi che si sbaglierebbe a confinare al «Sud globale». Ci pare anzi che per molti aspetti alludano a trasformazioni generali degli spazi politici ed economici, che si tratta di indagare sotto il profilo delle loro conseguenze per i concetti e per le istituzioni politiche. E che aprono in particolare una prospettiva di grande interesse sulla crisi e le trasformazioni di quello Stato che una sezione importante del dibattito contemporaneo continua ad assumere come orizzonte insuperabile per la stessa definizione del soggetto politico.

4. Il «teorema Machiavelli»

Consideriamo un’altra lettura del rapporto tra assoggettamento e soggettivazione dall’interno di un’analisi rigorosa e teoricamente radicale dell’intera storia della modernità politica. In un saggio dedicato a un tentativo di rispondere alla questione posta da Jean-Luc Nancy su che «cosa verrebbe dopo il soggetto», Étienne Balibar ha sottolineato l’ambiguità semantica del termine «soggetto». Tanto in italiano quanto in francese, questo termine confonde polarità attiva e polarità passiva – subjectum e subjectus –, prefigurando una dialettica politica in cui l’ombra dell’assoggettamento non ha mai cessato di accompagnare le avventure del soggetto autonomo e sovrano. Alla visione classica del patriarcalismo politico, secondo la quale tutti gli uomini verrebbero al mondo come «sujets» dei rapporti politicamente ordinati che li includono (Bossuet), la Rivoluzione, figura di una revolutio che ripristina una condizione naturale in cui l’«uomo» viene riabilitato di fronte al «sujet» perché immaginato «libero ed uguale quanto ai diritti», sostituisce la visione dell’uomo come cittadino. Sarebbe dunque proprio il cittadino, il subjectum titolare di diritti, ciò che viene dopo il subjectus, il suddito[32].

Ciò che nella storia della cittadinanza democratica verrebbe progressivamente dipanandosi, per riarticolarsi sulle sue frontiere interne (attorno alla classe, alla razza e al genere), è dunque, di nuovo, il nesso tra assoggettamento e soggettivazione. Il nucleo attivo dell’idea di cittadinanza, il fatto che essa definisca un progetto in qualche modo aperto e volto a scavalcare il solco che la moderna giuridificazione dei diritti scava tra pubblico e privato, tra Stato e società, tra citoyen e homme, innesca un processo di costituzionalizzazione che allarga e implementa la fruizione dei diritti secondo traiettorie costantemente trainate da lotte e movimenti collettivi. Quello della modernità costituzionale è per Balibar un progetto virtuoso perché capace di valorizzare – senza neutralizzarla – l’energetica che è propria alle pratiche di riconoscimento e di compromesso della democrazia: in ultima istanza perché la «politica della costituzione» è un polo soltanto della modernità politica, in costante tensione con una «politica dell’insurrezione»[33].

Quello che Balibar chiama lo «Stato nazionale (e) sociale», che si viene configurando come il protagonista della storia occidentale tra la seconda metà del XIX e il XX secolo, rappresenta in qualche modo il culmine di questo processo, in cui i movimenti sociali vengono produttivamente incanalati ai fini del compromesso costituzionale tra capitale e lavoro. All’interno dello Stato sociale vengono create le condizioni istituzionali per la «normalizzazione» del conflitto tra le classi, togliendo a quest’ultimo la forma di un confronto «nudo» – e in qualche modo prepolitico, se per politica si intende in questo caso la forma di mediazione che l’idea di cittadinanza apporta – senza tuttavia togliere, appunto, il conflitto in sé. Da un lato la «legalizzazione» della classe operaia – fine delle sua radicale esternalità ai circuiti dell’integrazione politica e sociale e disinnesco del potenziale immediatamente rivoluzionario dei movimenti di massa attraverso la loro reinscrizione nella rete di relazioni contrattuali che percorre e che satura l’intero spazio sociale[34] –; dall’altro il riconoscimento da parte dello Stato delle questioni specifiche del lavoro come interessi generali della collettività nel quadro universalista della «Nazione»[35]. Lo Stato sociale democratico novecentesco, in cui come scriveva T.H. Marshall nel 1945 «siamo tutti lavoratori e cittadini e abbiamo finito per attenderci da tutti i cittadini che siano dei lavoratori»[36], è in questo senso la figura compiuta dello Stato nazionale (e) sociale.

Balibar parla a questo proposito di un «teorema Machiavelli» come modello di costituzionalizzazione del conflitto e delle rappresentanze collettive dei movimenti sociali. Riprendendo figura del «tribunato della plebe» che George Lavau, in uno studio dedicato al partito comunista francese[37], impiega per modellizzare, in termini machiavelliani, il ruolo delle organizzazioni operaie nel processo «tumultuario» dello Stato sociale novecentesco, Balibar tematizza l’estremo punto di tensione e di recupero tra insurrezione e costituzione toccato dalla storia politica occidentale. Secondo il «teorema Machiavelli», l’innovazione istituzionale si viene producendo solo nell’istante in cui le lotte di quelli che solo impropriamente, per il punto di incandescenza che viene raggiunto, possono essere chiamati «movimenti sociali», spingono la forma politica al suo limite di rottura, costringendo le funzioni di governo a modificare gli schemi complessivi della propria operatività. La funzione dei partiti comunisti e dei sindacati operai nella storia del Novecento è stata per Balibar una funzione tribunizia capace di istituzionalizzare il conflitto e di renderlo il motore dell’evoluzione costituzionale, senza esorcizzarlo né trattenerlo sul semplice piano sociale. Che le questioni del lavoro siano state imposte come questioni politiche e i diritti sociali siano stati interpretati come diritti di cittadinanza, è il risultato di questo algoritmo machiavelliano che disegna il circuito virtuoso tra soggettivazione, insorgenza e soluzione istituzionale, determinando un regime instabile, e proprio per questo elastico, tra lotte operaie e sistema politico[38].

Quella che Balibar chiama «democrazia conflittuale»[39] costituisce una rielaborazione della dinamica politica che innervava lo Stato sociale democratico nell’epoca dello sviluppo capitalistico che viene solitamente definita attraverso la categoria di «fordismo». L’articolazione della dialettica tra capitale e lavoro fece effettivamente da sfondo a un progetto di complessiva modernizzazione giuridica e politica, agito da precisi soggetti e, per quel che riguarda il movimento operaio, con precisi obiettivi: sindacati e partiti rappresentativi di interessi di classe programmaticamente formalizzati come non eccedenti la misura del negoziabile da un lato, sintesi conquistate come soglie di equilibri sempre progressivi dall’altro. E tuttavia, essa non appare più in grado di rappresentare, all’altezza dei processi materiali di decostituzionalizzazione che segnano la contemporaneità globale, né lo schema attraverso il quale continuare a pensare il rapporto di reciproco incitamento tra resistenza e istituzione[40], né lo scenario all’interno del quale si produca, scandendo virtuosamente il ritmo di una soggettivazione e di un assoggettamento, di un’eccedenza e di un’integrazione, il modello per una cittadinanza postnazionale in grado di recuperare le esternalità e le contraddizioni che ne percorrano margini e confini.

Il problema posto da Balibar, quello di pensare insieme movimenti di insorgenza e trasformazioni costituzionali, rimane fondamentale. Ma quello che ci pare essere venuto meno è l’insieme delle giunture e delle mediazioni – in particolare quelle rappresentative – che hanno consentito di articolare materialmente la dialettica tra i due momenti attorno alla figura dello Stato. La crisi della sovranità statuale come fuoco dell’ellissi costituzionale e la tecnicizzazione della funzione di governo come amministrazione/gestione di processi indicizzati sul mercato e indisponibili alla volontà del sovrano collettivo cui si lega l’idea di cittadinanza democratica: sono questi a nostro avviso i due aspetti dell’attualità che ci obbligano a confrontarci con il problema del soggetto provando a pensarlo al di fuori della scia tracciata dalla dissolvenza dello Stato, quella alla quale resta nostalgicamente legata una parte significativa della teoria politica radicale contemporanea.

Non è probabilmente un caso, che tra i primi a valorizzare le intuizioni di Michel Foucault sulla governamentalità liberale ci siano stati autori che hanno sondato contraddizioni e aporie del processo di costruzione statuale e nazionale nella transizione tra assetti coloniali e nuovi equilibri postcoloniali. Partha Chatterjee, in un libro per molti versi importante, ha posto esattamente il problema della soggettivazione dei governati sul limite, insidioso e sfuggente, tra attivazione e cattura delle istanze di quella che egli definisce immediatamente una «società politica», problematizzando l’interruzione del rapporto tra Stato e «società civile» sulla quale si è costruito, in Occidente, il sistema di mediazioni del sistema rappresentativo[41]. La tesi di Chatterjee è che nella storia politica postcoloniale della democrazia indiana i movimenti e le lotte dei soggetti «subalterni» (immigrati e rifugiati, «fuori casta» e «tribali», contadini senza terra o espulsi dalle campagne, abitanti degli slum, poveri comunque definiti) abbiano trovato forme di riconoscimento «politico» non riferibili all’ambito del diritto o delle procedure puramente amministrative. Specifiche tecniche di governamentalità si sarebbero indirizzate a questi «gruppi di popolazione», aprendo canali negoziali, riconoscendo la legittimità di occupazioni di terreni, approntando la fornitura di servizi in costante eccezione rispetto alle normali procedure legali e agli istituti della democrazia rappresentativa nonché dei diritti di cittadinanza. Il «potere arbitrario del governo», scrive Chatterjee, interviene all’interno della società politica «per mitigare il potere potenzialmente tirannico della legge»[42].

Nulla vi è di limpido nella storia che Chatterjee ci racconta. Nella «società politica» si dispiegano processi di soggettivazione, traiettorie rivendicative, pratiche politiche e sociali che non appaiono traducibili nello schema novecentesco dello Stato nazionale (e) sociale. La profonda eterogeneità di questi processi può certo evocare, per un effetto di “risonanza”, ciò che in altri ordini discorsivi, è stato chiamato «moltitudine». Ma la risonanza, come spesso accade con la teoria postcoloniale (e con la materialità delle condizioni su cui quest’ultima riflette), determina immediatamente uno spiazzamento: per le modalità stesse con cui la «politica dei governati» prende forma e viene svolgendosi, essa si presta a rafforzare meccanismi clientelari di scambio e dispositivi governamentali che gestiscono la povertà assai più di quanto non puntino ad abolirla. Come ha mostrato in particolare Ranabir Samaddar, lo spazio della società politica, nella prospettiva di Chatterjee, rischia di porsi come spazio interamente saturato dalla governamentalità, finendo paradossalmente per negare all’azione dei «governati» quell’autonomia che, come abbiamo visto a proposito dell’America Latina, costituisce l’elemento fondamentale per aprire la governamentalità in direzione della libertà e dell’uguaglianza[43]. E tuttavia l’analisi di Chatterjee ci restituisce l’immagine di processi politici in cui tanto le pratiche di lotta e soggettivazione dei soggetti «subalterni» quanto l’assoggettamento governamentale si pongono oltre la cittadinanza e i meccanismi di mediazione costituzionale. E sottolinea l’urgenza di una rinnovata analisi materialistica dei rapporti di produzione della soggettività contemporanea. Anche in questo caso la nostra impressione è che ci sia molto da imparare dalle esperienze che un tempo avremmo considerato caratteristiche di condizioni di «arretratezza».

5. Per un nuovo materialismo

C’è, a nostro avviso, un evidente limite nella discussione teorico-politica attuale sul tema del soggetto. Non soltanto, come abbiamo cercato di far notare in precedenza, essa continua a pensare sulla scia dello Stato e della sua storia costituzionale, ma tende anche a muoversi nell’orizzonte ristretto di quella che, con Slavoj Zizek, possiamo chiamare, assumendo la drastica, ma irriflessa, elisione dell’economico che si produce all’interno di quel dibattito, «pura politica»[44]. Con il termine «moltitudine», che abbiamo evocato poc’anzi in relazione alla «società politica» di Chatterjee, il cosiddetto post-operaismo ha tentato negli ultimi anni di percorrere una strada diversa, pensando il soggetto politico nel punto di incrocio tra la crisi della forma Stato e le trasformazioni del capitalismo[45]. Questa indicazione di metodo rimane per noi decisiva. Sotto il profilo della concettualità politica, è necessario assumere il debordare dei processi di produzione contemporanea della soggettività dalle figure classiche che la inscrivono nel calco della statualità e della rappresentanza (il Popolo o la Nazione) e guardare piuttosto al soggetto come luogo di contesa; come  campo di battaglia, cioè, tra strategie di assoggettamento e pratiche di soggettivazione che non possono più essere fissate nel «circolo virtuoso» del teorema machiavelliano di Étienne Balibar. Finanziarizzazione del capitalismo ed eterogeneità delle figure contemporanee del lavoro tendono a scindere e a riarticolare in altro modo il rapporto tra il soggetto come titolare di diritti e il soggetto come produttore di ricchezza[46]. L’assetto democratico che si era storicamente sedimentato nella figura del cittadino lavoratore fordista (maschio e bianco) in Occidente, non solo non appare più praticabile con la crisi dello Stato nazionale e sociale, ma non può essere assunto come valido per geografie produttive e per regimi di accumulazione che, in altri spazi, hanno conosciuto diverse modalità di rapporto con lo Stato, «costituzionalizzando» altrimenti sviluppo e lavoro. Alludendo alla necessità di un «nuovo materialismo» per impostare la questione del soggetto politico intendiamo perciò sottrarre quest’ultima al terreno della «pura politica» su cui si muove una parte consistente del dibattito critico contemporaneo. È una traccia marxiana quella che si tratta a nostro giudizio di riprendere e seguire. Come ha mostrato in un libro recente Ranabir Samaddar, la specificità della riflessione di Marx sul soggetto consiste precisamente nella combinazione di un’analisi dei processi che lo costituiscono all’interno di specifici rapporti di produzione con un’attenzione costante alle pratiche di lotta, insorgenza e mobilitazione che attraversano e tengono in tensione questi stessi rapporti, senza esaurirsi – come se ciò rappresentasse il loro esito naturale – in istituzioni «politiche» di conio statuale[47]. Pensare la politica significa per noi innanzitutto immergere i suoi concetti nella materialità delle pratiche: pratiche che, in quanto tali, non possono essere astrattamente riferite a categorie sovrastoriche e generali. La storia del soggetto «esige una spiegazione dal basso», per riprendere la felice formula di Michel Foucault[48].

Quella che proponiamo è perciò, innanzitutto, un’indicazione di metodo; l’indicazione che ricaviamo da quelli che, in questa sede, abbiamo riconosciuto come i limiti della discussione contemporanea sulla politica e sul soggetto. Decentrare lo sguardo dai meccanismi di assoggettamento e dalle forme di soggettivazione che si sono ingranate nell’evoluzione dello Stato moderno, significa per noi essenzialmente due cose. In primo luogo, non trattare il neoliberismo come una semplice protesi delle tecnologie di governo classicamente adoperate per organizzare la mediazione tra movimento sociale e istituzioni (rappresentanza politica, lessico degli interessi nazionali, statizzazione di istanze e snodi di integrazione tra interessi di classe e sfera pubblica); e, in seconda battuta, porre il problema di una composizione sociale e politica che appare irriducibile alle formule rappresentative classiche dello Stato o del partito. Nuove gerarchizzazioni, nuovi regimi di impiegabilità differenziata, nuove modalità di rapporto tra percezione di sé e pratiche collettive attraversano oggi la composizione di un «lavoro vivo» che si dimostra tanto più segnata da una profonda eterogeneità, quanto più lo sviluppo del capitalismo tende a fare del lavoro la sostanza stessa dell’attività umana.

Le politiche neoliberali, lo abbiamo sostenuto all’inizio di questo intervento, tendono a far sfumare le distinzioni che il liberalismo classico assumeva tra la sfera economica, quella privata e quella politica. Esse tendono perciò a dis-integrare, per riarticolarlo altrimenti, il sistema di mediazioni costitutive all’origine della moderna nozione di soggetto. Proprio per questo, ci sembra, esse predispongono un terreno completamente diverso da quello che la teoria politica ha sinora conosciuto come il terreno sul quale affrontare la sfida posta da forme di soggettivazione non più riferibili ai concetti e alle categorie del suo ordine del discorso: si tratti delle migrazioni nella crisi del fordismo o delle rivendicazioni di genere o ad apparente desinenza culturale di movimenti sociali significativi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Da un lato, le politiche neoliberali compromettono definitivamente l’autonomia del politico e l’identificazione di quest’ultimo con lo Stato. Dall’altro, la finanziarizzazione dell’economia fissa nodi del comando esterni alla costituzione e al dispositivo di regolazione che le è stato proprio. Si tratta, crediamo, del definirsi di un irrecuperabile spiazzamento complessivo delle categorie del politico che deve essere assunto e pensato nella sua radicalità.

Se è vero, come ha notato Wendy Brown, che la governamentalità neoliberale rappresenta un «progetto costruttivista»[49], e cioè una coerente strategia per la riorganizzazione dell’economia e della politica che attraversa in profondità la produzione del soggetto inseguendo e provocando attitudini singolari e risposte collettive, è altrettanto vero che è su questa soglia che deve attestarsi la riflessione critica. Si tratta di una conclusione provvisoria e, certo, ancora insoddisfacente. Ci sembra comunque utile consegnarla intanto al lettore o alla lettrice di questo nostro intervento come punto di partenza per ulteriori ricerche e approfondimenti.



[1] Si veda, tra i molti testi che si potrebbero citare, C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001.

[2] S. Sassen, Territory, Authority and Rights: From Medieval to Global Assemblages, Princeton, Princeton University Press, 2006.

[3] Si vedano a questo proposito le provocatorie considerazioni di J. Kraube,  Die absolutistische Demokratie,  «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 27 settembre 2011. Sui processi di finanziarizzazione del capitalismo, cfr. A. Fumagalli – S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Verona, ombre corte, 2009 (in particolare il saggio di Christian Marazzi).

[4] W. Brown, Edgework: Critical Essays on Knowledge and Politics, Princeton, Princeton University Press, 2005, pp. 37-59 («Neoliberalism and the end of liberal democracy»).

[5] Sulla necessità di integrare l’interpretazione foucaultiana del neoliberalismo con un’analisi delle funzioni della finanza e del debito, cfr. M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Paris, Éditions Amsterdam, 2011.

[6] Wang Hui, China’s New Order: Society, Politics, and Economy in Transition, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2003, p. 44.

[7] A. Negri – M. Hardt, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010.

[8] Cfr. S. Chignola, In the Shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a c. di), Governance: oltre lo Stato?, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. 117-141.

[9] A. Badiou, Conditions, Paris, Seuil, 1992, pp. 57-58.

[10] A. Badiou, Peut-on penser la politique?, Paris, Seuil, 1985, p. 67.

[11] A. Badiou, La Comune di Parigi, Napoli, Cronopio, 2004, p. 66.

[12] Ivi, p. 68.

[13] A. Badiou, Peut-on penser la politique?, cit., p. 77.

[14] Cfr. in particolare A. Badiou, Le réveil de l’histoire, Paris, Lignes, 2011, pp. 17-27.

[15] J. Rancière, La Mésentente, Paris, Galilée, 1995, p. 59.

[16] J. Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, Paris, La Fabrique, 2009, pp. 7-9.

[17] A. Badiou, Conditions, cit., p. 61: «il sofista moderno tenta di sostituire l’idea di verità con l’idea della regola. È questo il senso più profondo dell’impresa, del resto geniale, di Wittgenstein. Wittgenstein è il nostro Gorgia, e a questo titolo lo rispettiamo». Si veda anche A. Badiou, L’antiphilosophie de Wittgenstein, Caen, Nous, 2004.

[18] Ch. Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 16.

[19] Ivi, p. 10.

[20] E. Laclau, La ragione populista, Roma – Bari, Laterza, 2008, p. 146.

[21] Cfr. in particolare Id., Politics and Ideology in Marxist Theory. Capitalism, Fascism, Populism. London, New Left Books, 1977.

[22] E. Laclau – Ch. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics (1985), London – New York, Routledge, 2001, p. 96.

[23] Ivi, pp. 111-113.

[24] S. Hall, On Postmodernism and Articulation. An Interview, in «Journal of Communication Inquiry», X (1986), pp. 45-60, p. 56.

[25] J.L. Villacañas Berlanga, The Liberal Roots of Populism. A Critique of Laclau, in «CR: The New Centennial Review», X (2010), 2, pp. 151-182, in specie p. 165. Sulla «catena equivalenziale», cfr. E. Laclau, La ragione populista, cit., pp. 68-73.

[26] E. Laclau – Ch. Mouffe, Hegemony and Socialist Struggle, cit., p. 112.

[27] Ivi, p. 169.

[28] E. Laclau, La ragione populista, cit., p. 122.

[29] Si veda ad esempio, particolarmente a proposito dell’Argentina dei coniugi Kirchner, il recente articolo di Miguel Mellino, Il kirchnerismo come governance post-neoliberista, in https://uninomade.org/.

[30] Diamo di seguito alcuni riferimenti bibliografici, necessariamente parziali, che abbiamo tenuto presente: Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberismo, Roma, DeriveApprodi, 2003; Á.G. Linera, La potencia plebeya. Acción colectiva e identidades indígenas, obreras y populares en Bolivia, Buenos Aires, Prometeo, 2008; R. Gutiérrez Aguilar, Los ritmos Pachakuti. Movilización y levantamiento indigena-popular en Bolivia, Buenos Aires, Tinta Limón, 2008; G. Cocco, MundoBraz. O devir-mundo do Brasil e o devir-Brasil do mundo, Rio de Janeiro – São Paulo, Editora Record, 2009; S. Rivera Cusicanqui, Ch’ixinakax Utxiwa. Una reflexión sobre prácticas y discursos descolonizadores, Buenos Aires, Tinta Limón, 2010. Si vedano anche i materiali pubblicati nella rubrica «Laboratorio America Latina» nel sito https://uninomade.org/, in continuo aggiornamento.

[31] J.D. Sidaway, Spaces of Postdevelopment, in «Progress in Human Geography», XXXI (2007), 3, pp. 345–361, p. 350. Il tema è ampiamente affrontato in S. Mezzadra – B. Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, di prossima pubblicazione per Duke University Press.

[32] É. Balibar, Citoyen, Sujet at autres essais d’anthropologie philosophique, Paris, PUF, 2011, pp. 42 e ss.

[33] É. Balibar, Le frontiere della democrazia, Roma, Manifestolibri, 1993, p. 89.

[34] Si vedano i classici: L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale (1958), trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1976; P. Michel, Les barbares, 1789-1848: un mythe romantique, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 1981.

[35] É. Balibar, Le frontiere della democrazia, cit., p. 68.

[36] T.H. Marshall, Lavoro e ricchezza, in Id., Cittadinanza e classe sociale, a cura di P. Maranini, Torino, Utet, 1976, pp. 179-198, p. 182.

[37] G. Lavau, A quoi sert le Parti communiste français?, Paris, Fayard, 1981.

[38] É. Balibar, L’Europe, l’Amérique, la guerre. Réflexions sur la médiation européenne, Paris, La Découverte, 2003, pp. 125-134.

[39] Avvalorando una linea di ragionamento che muove dal presupposto che la democrazia non abbia fondamento e che essa sia, perciò, pensabile solo come mobile orizzonte di provvisorio e sempre revocabile riconoscimento tra le parti e i soggetti che materializzano uno spazio di politicità antagonistica (Lefort, Laclau, Badiou, Zizek). Sul tema cfr. O. Marchart, Post-Foundational Political Thought: Political Difference in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Edimburgh, Edimburgh University Press, 2007.

[40] In un altro libro recente Étienne Balibar lo richiama come il programma ancora incompiuto, e dunque possibile, di una composizione tra quelle che definisce provocatoriamente le due più grandi teorie politiche del secolo scorso, quella di Lenin e quella di Gandhi, cfr. Violence et civilté. Wellek Library Lectures et autres essais de philosophie politique, Paris, Galilée, 2010.

[41] P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, Roma, Meltemi, 2006.

[42] P. Chatterjee, Lineages of Political Society. Studies in Postcolonial Democracy, New York, Columbia University Press, 2011, p. 17. Si veda anche K. Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico. Accumulazione originaria, governamentalità e capitalismo postcoloniale: il caso indiano, Firenze, La Casa Usher, 2010.

[43] Cfr. R. Samaddar, The Materiality of Politics, London – New York – Delhi, Anthem Press, 2007, 2 voll., in specie vol. II, pp. 107-137.

[44] S. Zizek, The Ticklish Subject, The Absent Centre of Political Ontology, London, Verso, 2000, pp. 171-244.

[45] Cfr. in particolare, M. Hardt – A. Negri, Impero, Milano, Rizzoli, 2002 e P. Virno, Grammatica della moltitudine, Roma, DeriveApprodi, 2003.

[46] J. Read, The Micro-Politics of Capital: Marx and the Prehistory of the Present, Albany, NY, SUNY Press, 2003, p. 153.

[47] R. Samaddar, Emergence of the Political Subject, New Delhi, Sage, 2010, p. xxviii.

[48] M. Foucault, «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France (1975-1976), édition établie, dans le cadre de l’Association pour le Centre Michel Foucault, sous la direction de François Ewald et Alessandro Fontana, par Mauro Bertani et Alessandro Fontana, Paris, Gallimard / Seuil, 1997, p. 46.

[49] W. Brown, Edgework, cit., p. 38.

* Pubblicato su “Filosofia Politica”, aprile 2012.

 

 

 

 

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