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Geografie rivoluzionate. Tunisia, due anni dopo

 

di MARTINA TAZZIOLI

I martiri della rivoluzione tunisina e i migranti tunisini dispersi del 2011: sono le famiglie dei “figli della rivoluzione” a prendere la testa del corteo di apertura del Social Forum mondiale a Tunisi. Le prime, quelle dei martiri, avanti a tutti come previsto dagli organizzatori, le seconde in testa e basta, come hanno deciso di fare, dopo che il governo tunisino non ha saputo rispondere a quella domanda che genitori e parenti dei dispersi da due anni rivolgono alle loro istituzioni: “dove sono i nostri figli?”. Adesso lo chiedono attraverso un appello all’Unione europea, all’Italia e alla Tunisia, domandando che venga istituita una commissione d’inchiesta di cui facciano parte anche tecnici esperti scelti dalle famiglie e rappresentati delle famiglie stesse. La Tunisia tenderebbe peraltro a dimenticare, come l’Italia fin dall’inizio, quelle vite “scomparse” nel mare Mediterraneo e il dolore dei loro familiari, che invece ogni volta fanno costringono le istituzioni a guardarli, con le loro “rumorose” presenze. Cosi, a poco più di un mese e mezzo di distanza dall’assassinio del leader del Front Populaire Choukri Belaid, comincia il Social Forum mondiale nella Tunisia “rivoluzionata”, che risponde tuttavia solo in parte alla presenza dell’evento: nonostante siano in molti gli abitanti di Tunisi a sapere della cinque giorni mondiale e a definirla una manifestazione importante a due anni dalla caduta di Ben Ali, di fatto la collocazione dei workshop – il campus universitario di El Manar – e l’accesso a pagamento hanno indubbiamente contribuito a rafforzare il “recinto” del Forum. All’interno, un numero spropositato di seminari in simultanea che funzionavano più da tribuna che non da spazio per una effettiva riflessione teorico-politica.

La contestazione delle logiche verticistiche del forum e la sua distanza dalla realtà delle lotte arriva questa volta dai sans-papier di Bruxelles, bloccati al porto di Tunisi dopo che l’armatore della nave partita da Genova aveva avvertito il governo tunisino di non poterli riportare in Europa, pena la sanzione prevista per tutti i conducenti che trasportano “clandestine” a bordo. Uno di loro riesce comunque ad arrivare al Campus di El Manar per dire, durante uno dei tanti workshop sulle migrazioni, che la libertà di movimento é agita in quel luogo solo al livello dei discorsi; e che la disconnessione tra le pratiche di lotta di chi quella libertà deve conquistarsela e  i movimenti di attivisti, impedisce che da eventi come quello del Forum possa uscire un’azione o una proposta concreta per incrinare o inceppare il funzionamento delle politiche migratorie: “Noi sans-papier quella mobilità e l’attraversamento di frontiere lo esercitiamo in continuazione, come ieri per arrivare qui e per poi essere bloccati, senza che il Forum prenda poi ufficialmente posizione rispetto a quanto avvenuto”. E se per la delegazione dei sans papier il Forum aveva previsto una presenza ufficiale, ben diversa e’ stato lo spazio occupato dai rifugiati del campo di Choucha, venuti fino a Tunisi per cogliere l’occasione dei riflettori mediatici puntati sull’evento mondiale in modo da rendere ancora più visibile la loro attuale impasse giuridica ed esistenziale: una parte di loro ufficialmente riconosciuti da Unhcr come rifugiati ma che non verranno reinsediati in un Paese terzo, gli altri invece “diniegati” dallo stesso Alto Commissariato per i rifugiati. Diniegati non solo dello status di rifugiati ma di ogni tipo di protezione e dunque di fatto migranti “illegali” in Tunisia, o migranti economici come preferiscono definirli le agenzie governamentali. A loro, dallo scorso ottobre Unhcr non fornisce più viveri né assistenza medica, e la loro invisibilità giuridico-politica sul territorio tunisino si accompagna però di una mobilità altamente controllata, visto che nello spazio tunisino non possono circolare liberamente. Difatti per arrivare a Tunisi hanno dovuto tentare il viaggio due volte i ragazzi di Choucha, dopo essere stati bloccati dalla polizia nella cittadina di Ben guerdane e ancora una volta senza che la direzione del Forum mondiale né l’associazione tunisina del Forum des droits economiques et sociaux denunciasse il fatto, visto che peraltro il Ministero della Difesa aveva concesso loro un permesso speciale per raggiungere Tunisi. “We all fled from the Libyan crisis, give us back our lives”, recitano i loro striscioni all’ingresso del Forum mondiale, con cui chiedono un’uguaglianza di trattamento per tutti coloro fuggiti dal conflitto libico. I rifugiati non reinsediati hanno deciso di intraprendere uno sciopero della fame a oltranza, di fronte alla sede di Unhcr, che per voce della rappresentante Ursula Aboubcar ha sarcasticamente commentato “l’Alto Commissariato non é un’agenzia di viaggi, dove chiunque può scegliere dove andare”.

Tra i movimenti più interessanti attualmente in Tunisia, e presenti anche al Forum, vi sono i gruppi di mobilitazione contro il debito, particolarmente attivi in questi ultimi mesi da quando lo scorso novembre il governo tunisino ha firmato un accordo con la Banca Mondiale per ottenere un prestito pari a cinque milioni di dollari che si sono aggiunti ai due milioni concordati con la African Development Bank e ai cinquecento milioni arrivati questa settimana dal Fondo Monetario Internazionale. Tra questi, il Raid Attac Tunisia di Fathi Chamki costituisce senza dubbio quello che attualmente coagula più persone: “in Tunisia, fin dagli anni di Ben Ali e senza che niente sotto questo fronte sia cambiato, il 51% del settore industriale e dei servizi é sotto controllo diretto del capitale mondiale, con una netta predominanza degli investitori francesi e a seguire gli italiani”. Il Front Populaire, tramite il suo leader Hamma Hammami, si è pronunciato a più riprese da inizio anno affinché la Troika non firmi ulteriori accordi con il Fondo Monetario Internazionale e la Tunisia non paghi il debito accumulato finora (20 miliardi di euro il debito esterno, secondo il dato del 2011). Una scena, quella tunisina, che secondo alcuni si avvicina per l’assenza di una sovranità monetaria, a quella cipriota.

Uno dei fenomeni più interessanti da analizzare a due anni dalla caduta di Ben Ali in questo momento di forte crisi economica che coinvolge anche la Tunisia – dove il tasso di disoccupazione si attesta intorno al 30% – sono i riorientamenti delle pratiche di mobilità e in particolare delle labor migrations. Infatti, nonostante le partenze verso l’Europa non si siano arrestate, la percentuale dei tunisini che hanno fatto rientro in Libia dopo la fine della guerra o che per la prima volta hanno optato per cercare là un impiego nel settore alberghiero o delle costruzioni si aggira attualmente intorno al 40% tra coloro che erano residenti in Libia prima della caduta del regime. La maggioranza dei tunisini che all’Europa preferiscono il mercato libico sono migranti con qualifiche professionali, anche se non un livello elevato di educazione, e spesso con anni di esperienza lavorativa alle spalle. Del resto, che lo spazio europeo non sia più la principale meta per chi cerca lavoro é evidente se si considerano anche coloro che si sono diretti verso gli Stati del Golfo, primo tra tutti il Qatar, “generoso” finanziatore attuale dello stato tunisino. Ma la ricomposizione delle geografie migratorie va esaminata anche in altre direzioni, sicuramente meno prevedibili: basta digitare su google “offer d’emploi tunis italiens” che compaiono decine di offerte di lavoro, prevalentemente nel settore delle telecomunicazioni, come operatori di call center, per italiani residenti a Tunisi o a Sousse e Sfax. La paga mensile si aggira intorno ai 900 dinari, circa la metà in euro; alcuni di loro sono laureati e con l’aumento del carovita in Italia hanno deciso per il momento di trasferirsi sull’altra sponda. Nel frattempo, Unione europea e Tunisia stanno definendo i termini per il partenariato di mobilità che stabilirà le nuove condizioni e canali di mobilità selezionata e, insieme, la politica dei visti.

Quanti e che tipo di finanziamenti sono arrivati alla Tunisia dall’Europa dopo il 14 gennaio 2011 resta una questione a cui é di fatto impossibile rispondere. Se da un lato fioriscono e proliferano le associazioni tunisine finanziate da progetti europei, così come il numero di organizzazioni non governative presenti sul territorio tunisino in nome della “transizione democratica” e dell’esportazione di “best practices”, la maggior parte dei progetti di sviluppo europei che sulla carta avrebbero dovuto moltiplicarsi sul territorio tunisino sono in realtà registrati nelle sedi dei governatorati affiancati da una cifra che parla chiaro: zero. A Siliana é il segretario dell’Ugtt – il principale sindacato tunisino – a mostrarci il registro della contabilità: progetto per la realizzazione di un gasdotto, progetto per favorire l’integrazione delle donne nel lavoro agricolo, progetto per lo sviluppo dell’agricoltura biologica: niente per ora é partito. Siliana, cittadina dell’interno dove a novembre gli abitanti hanno protestato contro la disparità di trattamento in termini di possibilità d’impiego e di investimenti rispetto alle zone costiere, organizzando un sciopero generale, con blocco di tutte le attività economiche; sciopero che si é concluso con un esodo simbolico dalla città, per ribadire che “se volete continuare a governare a queste condizioni non ci governerete, governate su una città deserta”. 300 sono stati i feriti, dopo gli scontri con le forze dell’ordine proseguiti per cinque giorni.

Blocco della produzione e esodo: sono due delle forme di lotta attualmente più diffuse, o che comunque riescono per qualche momento a fare inceppare gli ingranaggi della governabilità, o se non altro a sottrarsi alla sua presa. 7 gennaio 2013: gli abitanti della cittadina di Ghardimaou nel governatorato di Jendouba  lasciano la città, in una sorta di esodo collettivo verso la frontiera algerina per protestare contro la disoccupazione nelle zone rurali. Qualche mese prima, il 10 settembre 2012 gli abitanti di El-Fahs, centro abitato a un’ora dalla capitale, si auto-organizzano provocando un blocco totale delle attività produttive e della rete stradale dopo il naufragio di un’imbarcazione di migranti avvenuto il 6 settembre nei pressi dell’isola di Lampedusa. 6 dicembre 2012: sciopero generale in quattro importanti regioni della Tunisia – Kasserine, Sidi Bouzid, Sfax, contro il governo di Ennhada; sciopero che avrebbe dovuto estendersi alla Tunisia intera il 13 dicembre ma che all’ultimo minuto l’Ugtt ha fatto saltare negoziando con esponenti della Troika.

Una molteplicità di rivolte locali che tuttavia stentano a trovare linee di ricomposizione comuni, e che tendono a spegnersi in breve tempo, di solito dopo scontri violenti con le forze dell’ordine. Anche dopo l’assassinio di Choukri Belaid, del resto, la mobilitazione ha resistito tre giorni, in cui peraltro al di là del partecipatissimo funerale, solo una piccola minoranza degli abitanti di Tunisi é scesa per le strade: trovandomi  nella capitale tunisina proprio in quei giorni per seguire la campagna dei migranti tunisini dispersi, posso dire di aver visto la Tunisi “in attesa”, ovvero quella estesa parte della città in cui in parte le attività proseguivano regolarmente seppure nello shock generale per quanto accaduto, e in parte le persone attendevano notizie di cosa stava avvenendo nella Tunisi che protestava, quella dell’Avenue Borguiba dove il 6 marzo si sono riversate circa 10.000 persone. Molte, in un certo senso per la Tunisia, non così tante però rispetto a quanto si potrebbe immaginare in seguito all’uccisione di uno dei leader politici più popolari.

Una delle questioni che sta avendo più risonanza sulla sponda nord del Mediterraneo é indubbiamente l’avanzata del salafismo e della corrente wahabita in Tunisia e, più in generale, sul fondamentalismo islamico. Dibattito che in Tunisia si é acceso in particolar modo a partire da settembre scorso, con l’ondata di attacchi alle ambasciate italiane in molti Paesi musulmani. E tuttavia si tratta di un problema difficile afferrare anche solo nei suoi contorni e nei suoi aspetti più elementari rimanendo esterni a un panorama politico nazionale decisamente instabile e mutevole. In ogni caso, un occhio attento ai conflitti interni che si stanno sviluppando (anche) attraverso declinazioni religiose ci fa ricordare che per comprendere ciò che é stata la rivoluzione tunisina non si possa prescindere dal radicamento  della religione islamica nel tessuto sociale tunisino e nelle pratiche di vita quotidiana. Quello che é importante notare é come le analisi su salafismo e islamismo sono spesso articolate e inserite in un contesto di riflessione più ampio che va dal coinvolgimento di combattenti tunisini tra le milizie siriane al traffico di armi con l’Algeria, con cui la Tunisia ha appena concluso un accordo per operazioni di controllo congiunto alle frontiere. L’altro tema caldo su cui attualmente sia in Tunisia sia nell’Europa che guarda alla Tunisia si concentra il dibattito é quello della violenza sulle donne, con due casi su tutti che hanno fatto moltiplicare il dibattito: lo stupro di una ragazza tunisina da parte di due poliziotti, nel settembre scorso, e quello di una bambina di tre anni nel mese di marzo a opera dell’educatore dell’asilo nido in cui la bambina si trovava. Oltre a quello della violenza, sono i diritti delle donne e la loro costituzionalizzazione, a essere stati al centro anche dei molti seminari del Forum organizzati da associazioni femministe. Anche in questo caso però non bisogna amplificare in maniera troppo sbrigativa la diffusione del problema in Tunisia: difatti, molte delle notizie che giungono sulla sponda nord in tema di violenza sulle donne, diritti e parità dei sessi ci arrivano  perlopiù da associazioni tra cui la più nota e influente é indubbiamente quella delle Femmes Democrates, di chiara matrice francese e dunque laica. Una elite intellettuale, vale la pena sottolinearlo, all’interno del contesto tunisino. In effetti, anche senza restare su questa sponda e andando di persona sull’altra, é molto facile per quanto si cerchi di evitarlo, finire per entrare in contatto con una parte di mondo tunisino che ci parla facilmente, senza costringere a mettere in crisi fino in fondo i nostri consueti framework politici: quello degli attivisti e dei blogger, degli atei-universitari e delle donne impegnate in politica. Un mondo non poi così distante e diverso, per chi lo guarda invece dalle banlieue di Tunisi o dalle cittadine dell’interno, da quello delle mille associazioni che in questo momento vedono nella Tunisia, come noi, un terreno fertile e interessante di sommovimenti politici. Si pensi al velo – indubbiamente elemento che salta agli occhi appena si arriva a Tunisi – e a come sia ormai diventato metro di giudizio per testare il livello di “democraticità” della Tunisia rivoluzionata e dei “contro-effetti” del processo rivoluzionario. O alle discussioni sulle “derive” islamiste da cui la Tunisia deve guardarsi, o infine al “deficit democratico” che preoccupa gli osservatori esterni di fronte al persistere della corruzione e di certe continuità a livello istituzionale. Quello che sembrava, agli occhi di molti, un esperimento politico a cui guardare con attenzione sembra essere stato ripiegato, da noi che osserviamo, nel cassetto delle rivoluzioni da passare al vaglio della storia, a seconda del suo successo o meno; arrivando perfino a mettere in dubbio che qualcosa come una rivoluzione sia avvenuto.

 

 

 

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