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Identità in movimento

Posted By Anna On April 12, 2013 @ 8:59 am In Interviste,Italiano | Comments Disabled

Intervista a ROBIN KELLEY di IVAN BONNIN, ANNA CURCIO e LEONARDO ZANNINI

La straordinaria e controversa esperienza del Black Power, la capacità di organizzare e di mettere a valore la cooperazione sociale, di creare nuove istituzioni, e poi la rottura potente del femminismo nero, i nodi irrisolti dei percorsi politici costruiti sul terreno delle identità, il tema spinoso della solidarietà e l’eredità di quell’esperienza nei movimenti contemporanei. Questi i temi al centro di un’intervista con Robin Kelley in Italia nelle scorse settimane. Un materiale pensato soprattutto per il nuovo ciclo di Commonware: Stili della militanza. Dal movimento operaio a Occupy. Con Kelley, eclettico studioso e militante, figura di spicco del radicalismo nero in America, che ha attraversato da protagonista diverse stagioni di attivismo politico, compresa l’esperienza di Occupy, abbiamo voluto innanzitutto discutere la genealogia di quel movimento e l’eredità del Black Power.

Cosa del Black Power c’è in Occupy?

Vorrei cominciare col dire che dobbiamo pensare a due movimenti paralleli. Il movimento Occupy, per come si è sviluppato a New York, ha avuto una presenza  significava di persone di colore, anche se questo non è stato riportato dai media. La narrativa di Occupy prodotta dai media mainstream è quella di ragazzi di classe media, iscritti al college e che soffrono i processi di mobilità sociale verso il basso. Esclusivamente queste dinamiche sono percepite come responsabili  della rabbia contro le banche e il mondo della finanza. In questo modo, però, sono stati cancellati tutti i processi organizzativi degli ultimi venti o trenta anni. Ma Occupy, in realtà, non ha rappresento un origine, piuttosto il prodotto delle reti sociali. Tornare a quegli anni fa però paura, perché sono stati anni in cui  crescevano le organizzazione su base multirazziale intorno alle questioni del lavoro, della povertà, della criminalizzazione,etc. Se non fosse stato per queste forme di organizzazione, non si sarebbe data la mobilitazione anti-globalizzazione del 1999, né tutte quelle che hanno preceduto e reso possibile Occupy.

In ogni caso, rispetto al movimento nero non vedo una linea diretta che unisce il Back Power ad Occupy, e ci sono tre ragioni principali. La prima è che il Black Power è stato distrutto negli anni settanta dalle incarcerazioni di massa, dal controspionaggio del FBI e dalla cooptazione, nel senso che alcuni dei principali leader del potere nero sarebbero poi divenute figure centrali del panorama neoliberale di oggi. Non i figli o le figlie, ma proprio loro stessi! In un certo senso il Black Power era una sorta di miscela interessante, priva però di una vera coerenza logica. E’ stata una combinazione di tre o quattro movimenti diversi. Da una parte un movimento che proveniva della classe operaia industriale, ovvero la classe dei lavoratori neri rivoluzionari, quelli che individuavano nell’ambito produttivo il luogo privilegiato della lotta e che credevano in un socialismo a guida nera. Non il socialismo per i neri, ma un movimento guidato da neri organizzato attorno alle loro motivazioni. Dall’altra, un tipo di nazionalismo culturale che vuole esclusivamente sottrarsi al sistema e creare una sorta di società di maroon. Una movimento autonomista basato su un tipo di sciovinismo culturale e sul nazionalismo, ma con l’obiettivo di costruire uno spazio per la creazione e lo sviluppo di quella cultura nera all’interno degli Stati Uniti o altrove. E poi la terza corrente di nazionalismo nero o Black Power che è l’idea di sviluppare dentro il modello capitalistico un processo di empowerment, esperienze di imprenditorialità e più in generale di occupare posizioni di potere all’interno dei governi locali. Così Black Power diventa elezioni del sindaco, uomini per il Congresso, apertura di attività imprenditoriali con lo slogan: il colore del Black Power è il verde, cioè fare soldi che ovviamente non è un bene. Si tratta dunque di ideologie differenti e contrapposte.

Il Black Panther Party rappresenta sia i peggiori che i migliori elementi di queste ideologie contrapposte, non è mai stato una formazione del potere nero. Anche se negli Stati Uniti si tende a pensare le Pantere Nere dentro il più complessivo movimento del Black Power, queste erano un’organizzazione socialista di portata multinazionale. Il loro obiettivo era la lotta internazionalista, i loro alleati le lotte anticoloniali nel mondo. Questo si è dato con la prima Raimbow Coalition di cui fu artefice Fred Hampton a Chicago, non Jassie Jackson come si dice. La Raimbow Coalition organizzava portoricani e altri lavoratori lationos. Moltissimi bianchi seguivano Fred Hampton e questo non si è mai saputo. Si è saputo che alcuni bianchi furono assassinati ma ci furono anche moltissimi esponenti della classe operaia che si erano organizzati nel gruppo di Fred Hampton. C’erano lavoratori italiani e altri organizer di origine asiatica, tutti dentro la Raimbow Coalition.  Quindi se c’è una linea diretta con Occupy è con la Raimbow Coalition, che è stato un movimento socialista.

Alcuni dei membri del Black Power,  quelli che non sono diventati neoliberisti, hanno organizzato nuovi movimenti, ponendo le basi per Occupy. Posso darvi qualche esempio concreto. A Los Angels c’è un’organizzazione chiamata Labor Community Strategies Centre, fondata da neri e bianchi europei, che discende proprio dal Black Power. Vi chiederete: com’è possibile? Bene, tutto inizia con un ragazzo della working class newyorchese che diventa membro del Congress Observation Equality, un’organizzazione del Black Power nata dopo il 1966 che organizza soprattutto i poveri bianchi e gli afroamericani a New York e poi si unisce ai Weather Undergound. Come membro dei Weather Undergound viene arrestato e rimane due anni in prigione dove scrive un libro su Jassie Jackosn, quando esce di prigione decide di fare quello che facevano i neri: andare a lavorare nelle fabbriche e organizzare i lavoratori.In realtà la cosa non ha funzionato  nel modo in cui tutti credevano, ma ha produce il Labor Community Strategies Centre un’istituzione profondamente multirazziale e multietnica, la cui politica è attenta a questioni come quella dei servizi, della lotta contro le agenzie di trasporto che hanno politiche razziste e che si batte per avere i mezzi di trasporto pubblico a prezzi accessibili.Il Labor Center però è in prima linea anche nella lotta contro la criminalizzazione dei giovani neri e latinos. Così, quando Occupy è scoppiato a Los Angeles, è stato una delle le più importanti strutture di mobilitazione, in cui si poteva contare su 25-30 anni di organizzazione.

Questa è una delle cose principali che voglio sottolineare.Anche se il movimento è stato smantellato e i suoi leader sono stati incarcerati, l’impatto politico e gli insegnamenti lasciati da quell’esperienza sono stati così potenti da influenzare le successive generazioni di attivisti, compresi quelli che hanno contribuito a creare l’architettura di Occupy, anche se poi non sono quelle che si vedono in tv. In Tv vediamo soprattutto giovani, ma non vediamo le altre generazioni di militanti che hanno contribuito alla formazione politica di questi.

 

Possiamo allora dire che la presenza afroamericana dentro Occupy, tema controverso e ampiamente dibattuto, è legato alle strutture multirazziali presenti sui territori?

Il problema è che il movimento Occupy a New York e Los Angeles ha eliminato dall’agenda politica il tema della razza, nel senso che non ha una critica radicale al razzismo negli Stati Uniti. Ed è per questo motivo che non attrae un grosso numero di afroamericani. Okland rappresenta invece una differenza perché esiste una working class nera organizzata e sindacalizzata. E non è un’eccezione isolata. C’è un movimento parallelo a Occupy guidato da afroamericani. Avete mai sentito parlare di Occupy the Hood? Nasce a Detroit e si diffonde in tutto il paese. Un movimento guidato da afroamericani che si concentra principalmente sui pignoramenti delle case,  già prima che la questione dei pignoramenti esplodesse con la crisi.  Gli attivisti e le attiviste di Occupy the Hood sono stati tra i primi a concentrarsi sul fatto che i neri venivano buttati fuori, perché non potevano pagare i debiti contratti per acquistare le loro case, debiti cresciuti in modo predatorio con la crisi finanziaria.  Questo fenomeno ha colpito neri e latinos molto più degli altri, nel senso che la maggior parte dei neri e dei latinos che ha contratto un debito per la casa, sono finiti poi in bancarotta.

Voglio fare un esempio concreto: una coppia di neri che a Detroit, per la casa,  contrae un mutuo di 40 mila dollari riceve una telefonata in cui gli viene detto che il tasso d’interesse del muto sta crescendo, viene così avanzata la proposta di un altro muto di 45 mila dollari, con tasso d’interesse basso, il che permetterebbe di ripagare il vecchio debito e avere degli altri soldi per le tasse universitarie e  qualche investimento. La coppia accetta e in 4 anni un muto a tasso variabile di 45 mila dollari ha raggiunto i 190 mila dollari. L’aggravante razzista è che l’agenzia di intermediazione finanziaria non ha dato le giuste informazioni sul mutuo, giocando sulla necessità economica di poveri o persone di colore. Questo è ciò contro cui Occupy the Hood sta combattendo. Si è cioè creato come una sorta di binario parallelo, che ha coinvolto le persone interessate dal pignoramento delle case e dai prestiti predatori che è confluito nel movimento Occupy. Allora si può pensare ad Occupy come un processo che corre su binari paralleli. In cui c’è il binario del pignoramento delle case ma anche quello dell’incarcerazione e criminalizzazione del popolo nero. Su questo, anche se non direttamente dentro Occupy, esiste un lavoro di organizzazione in difesa dei prigionieri politici che ha poi coinciso con la difesa degli attivisti incarcerati e con la critica più generale all’industria carceraria. È quello che fa Critical Resistance, la principale organizzazione negli Stati Uniti sul tema carcerario. Ha tra i fondatori Angela Davis che tutti sanno è stata in carcere come detenuta politica e quello che stanno facendo è una critica complessiva alle politiche di detenzione, oltre la mera critica sociale dell’incarcerazione come prodotto della povertà.

 

C’è in questo un altro dei punti di contatto con le pratiche del Black Panther Party: la capacità di agire contemporaneamente su piani differenti …

Credo che la chiave sia nei processi di organizzazione delle comunità e  all’interno dei quartieri. Sul finire degli anni sessanta, nel movimento afroamericano in particolare a Detroit, c’è stato un grosso dibattito su dove organizzare, ovvero su quale fosse il luogo per dar vita ad un processo organizzativo. Un parte del movimento individuava come centrale il posto di lavoro. Il film Finnaly got the news? E’ sicuramente il miglior documento, prodotto in maniera del tutto indipendente nel 1971 da lavoratori neri rivoluzionari. E’ un video straordinario, che descrive la trasformazione del capitale e dell’automazione  in relazione all’imperialismo americano. È molto crudo, si parla di automazione come ”niggamation” cioè attraverso l’eliminazione degli afroamericani del posto di lavoro. Per tornare al dibattito: un’altra parte del movimento individuava la centralità nelle comunità nere. La strategia di Eric Mann era quella di combinare queste due linee: la migliore strategia sul posto di lavoro è una strategia dentro le comunità nere. Le università, negli anni sessanta e settanta, hanno rappresentato in qualche modo la convergenza tra l’organizzazione sul posto di lavoro e quella interna alle comunità. Alla Columbia University nel 1968 si da’ la forma di sciopero più interessante: una critica complessiva su più piani. In una sola lotta si combatte contro i processi di gentrification che l’università avvia verso il vicino quartiere di Harlem oltre il Morningside Park, contro le collaborazioni militari dell’università, per l’istituzionalizzazione degli  “ethnical studies” e cambiare i curricula universitari. Tutto questo in una sola lotta. Non si stava semplicemente tentando di riformare l’Università ma si stava portando dentro la lotta la comunità. Non si stava semplicemente difendendo la popolazione di Harlem, la si stava portando in una lotto dentro e contro l’università.

Questa è sicuramente un’enorme differenza rispetto al modo di pensare l’attivismo dentro Occupy. Gli attivisti pensano di andare dentro ai ghetti e di aiutare le persone ma dai ghetti rispondono: “no! saremo noi ad aiutare voi!”. E questa è anche un modo differente di pensare rispetto al movimento nero. La forza della cultura nazionalista stava nella ritirata, ma non era una ritirata con l’interesse di creare un conflitto rivoluzionario per tutti. Il capitalismo nero non voleva trasformare il sistema, ma prendersene un pezzo per sé. Questa invece era la prima corrente che diceva che il progetto delle lotte nere rivoluzionarie è la fine di tutte le forme di oppressione per tutte le persone del mondo. Non solo per   neri, non quindi per un gruppo di interesse. I neri sono l’avanguardia di un movimento che deve essere globale nel suo scopo e deve vedere tutte le forme di oppressione. Questa è stata la visione dei neri rivoluzionari.

 

E quindi torniamo alle  differenti sensibilità, i diversi modo di intendere l’identità nera?

Le Black Panthers in alcune delle sua componenti hanno giocato sull’enfasi di una identità radicale forte. Culturalmente il nazionalismo è fondato sul formarsi di un orgoglio, di un’identità che è stata degradata, così come la negritude.  È  una sorta di riscrittura: noi non siamo neri degradati, noi dobbiamo esaltare il nostro essere neri. Quei corpi riflettono una luce criminale, sono considerati pericolosi e portano con se l’eredità della schiavitù. Eppure è proprio quell’eredità che rovescia il capitalismo razziale che domina la vita di tutti. Ed è per questo che alcune delle più accese battaglie non sono tra il potere nero e lo Stato, ma dentro le stesse correnti del Black Power dove si combatte per cosa deve essere la nostra identità e soprattutto per cosa deve essere la nostra politica, ovvero quali aspirazioni di cambiamento e quali strategie e tattiche mettiamo in campo. E’ una  politica di trasformazione e di cambiamento radicale. A volte la politica può incarnarsi nelle forme concrete di partecipazione elettorale, a volte si concretizza nell’organizzazione sul posto di lavoro, altre volte può essere semplicemente il modo in cui si parla della lotta per raggiungere degli obiettivi e di quali sono gli obiettivi. Questa in qualche modo è la nostra politica, ma se la politica non contesta il potere, è semplice parlare.

 

Proprio intorno al tema dell’identità e al senso della politica si è prodotta una delle più radicali e produttive rotture dentro il Black Power, quella del femminismo nero …

È interessante perché le femministe nere, tutte senza eccezioni, provengono dal Black Power ed quello il contesto da cui viene fuori la loro presa di parola politica. Erano leader del movimento che hanno visto sistematicamente messe a tacere le loro critiche alla politica di genere. Nello stesso tempo hanno prodotto una critica del femminismo bianco, anche se questa espressione non è corretta perché in particolare le femministe socialiste hanno esplicitamente combattuto il razzismo e poi molte femministe di seconda e terza generazione si sono ispirate al Black Power. Detto questo però resta il modo in cui le femministe nere hanno espresso una critica particolarmente radicale, che si è rivolta al genere e all’oppressione patriarcale di classe, al razzismo e alla sessualità. Era in gioco contemporaneamente l’identità come donne, come persone di colore, come destinatari degli aiuti di Stato. La radicalità non stava semplicemente nella posizione che occupavano come soggetto ma nel modo in cui era pensata la critica e il tipo di impegno che l’accompagnava. Quindi non è un caso rintracciare la nostra genealogia indietro e di nuovo in avanti.

Negli anni ‘90, anni di un vero e proprio assalto al movimento nero da parte di Bill Clinton, che si trattasse della lotta contro la Milion Man March della Nation of Islam o delle lotte contro gli attacchi al welfare, le donne di colore erano al centro delle lotte e ciò ha creato una sorta di crisi nella politica del movimento nero: gli uomini che si vedevano come i veri portavoce del movimento erano stati messi in discussione. Non abbiamo mai parlato abbastanza di questo e anche sul tema dell’anti-imperialismo, la più lucida critica afroamericane all’impero Statunitense è arrivata da donne come Angela Davis, Gina Dent e Barbara Smith non da Cornel West. Apprezzo Cornel West, è sempre stato lì, ma la maggior parte erano donne, donne nere, in particolare nere provenienti dal femminismo nero. E in qualche modo chi, come Cornel West è vicino al femminismo nero, trova in questo la forza della sua critica.

 

Un’altra delle preziose intuizioni del femminismo nero è la critica alla solidarietà dentro meccanismi più complessivi di vittimizzazione …

Si tratta di capire in che termini parliamo di solidarietà. Il modo migliore di parlarne per me è quello del femminismo nero che diceva: noi possiamo “vincere” senza solidarietà. La solidarietà è stata sempre definita come rapporto con un gruppo che ha un identità, come nel caso della classe operaia che ha una sua identità, molto problematica, che viene rivendicata con l’obiettivo di migliorare la propria posizione dentro le gerarchie capitaliste; o il caso della competizione che si è instaurata tra messicani, afroamericani e donne di colore. Questa non è solidarietà, è identità. I nativi americani, le donne nere,  la classe operaia afroamericana, tutti questi soggetti hanno sempre spinto per politiche di solidarietà, ma basate sulla demolizione di regimi razziali, del patriarcato e dello stato di cose che ci opprime. I lavoratori bianchi negli Stati  Uniti non hanno mai capito che il razzismo riguarda anche loro. Non vedono che la loro emancipazione come bianchi è legata alla distruzione del regime razziale. Loro non lo vedono, i neri si, anche se non tutti,  ovviamente, solo coloro che sono attivi nelle lotte. Anche tra i bianchi c’è una lunga lista di chi, radicalmente da dentro ai movimenti,  ha sempre visto la distruzione del regime razziale e del razzismo come essenziali all’emancipazione della classe operaia: penso a radicals bianchi, come Erick Mann e altri. Se voi foste venuti da un altro pianeta, e aveste attraversato gli USA nel 1969, nel 1979, nel 1989 anche nel 1999 e avreste chiesto di entrare nella casa dove questa forma di organizzazione della politica stava prendendo piede, spingendo alla distruzione del razzismo, alla fine dell’oppressione razziale e alla sostituzione del capitalismo con qualcos’altro, che fosse una prospettiva anarchia, o di socialismo o di qualsiasi altra cosa, bene, non avreste trovato  mai e poi mai solo  afroamericani o solo bianchi. Ci sono sempre stati bianchi che hanno seguito le lotte rivoluzionarie dei neri.

Per tornare alla questione della solidarietà: io credo che la solidarietà sia essenziale. I credo che la vera questione sia come costruire solidarietà attraverso quelle che crediamo identità fisse.  Alcuni sostengono la necessità di abolire le identità, io dico di no, e lo dico da un punto di vista storico. È necessario riconoscere che la solidarietà dipende dall’identificazione con le lotte di altri soggetti. Lotte che forse non sono tue nell’immediato ma possono esserlo nel lungo periodo. Senza  identificazione – alcuni la chiamano empatia ma io credo sia un termine problematico – non puoi costruire solidarietà. Per fare un esempio molto concreto: nel 1980, una delle più grandi lotte costruite a Los Angeles, è stata quella per i rifugiati politici che scappavano dagli squadroni della morte in Salvador, Guatemala e altri paesi dell’America latina e venivano negli Stati Uniti per avere asilo. Nel Sanctuary Movement (la campagna a sostegno dei rifugiati politici centroamericani negli anni ’80) molti di noi, come afro-americani coinvolti in un movimento politico, avevano capito quello che dovevano fare: combattere le politiche a sostegno dei regimi dittatoriali e offrire asilo politico a chi, se rispedito in patria, poteva essere ucciso. Nessuno di noi aveva mai mi visto in faccia uno squadrone della morte, nessuno aveva mai vissuto in Salvador, avevamo però realizzato che era ciò che dovevamo fare e non perché volevamo nuovi alleati ma perché era giusto, corrispondeva alla nostra visione della politica. Ci vuole un salto d’immaginazione per realizzare che questa era anche la nostra lotta, che i diritti delle popolazioni indigene erano anche i nostri e che con loro dovevamo costruire connessioni. Questo è essenziale per la solidarietà. E, se si guarda alla storia dei lavoratori neri negli USA, si trova più solidarietà di quanto non sia stato per i bianchi che, ad esempio, spingevano per marginalizzare i cinesi, che invece venivano difesi proprio dai neri ai quali non si chiedeva di fare altrettanto (perché ovviamente uno si aspetta che sia naturale), né loro avevano mai chiesto di essere difesi.

Il problema è che oggi i processi politici in America sono tutti basati sugli interessi e le identità si sono istituzionalizzate “dall’alto”. Pensate ai gruppi di interesse che hanno slogan tipo: “Se i lavoratori si organizzano tutti assieme, oltre le linee razziali, questo potrebbe innalzare i nostri salari ed essere di beneficio a tutti”. Il senso è questo: sei un lavoratore bianco, dovresti combattere il razzismo perché così ti aumentano il salario ed è per questo che ti riguarda. Ma questa non è solidarietà, è sbagliato!  E costituisce parte della nostra battaglia oggi: come costruire solidarietà in una società in cui le identità sono imposte dall’alto e sono usate per strutturare le forme della politica non attorno al potere ma semplicemente attorno ai gruppi di interesse. In questo modo il potere della solidarietà viene svuotato.

 

Come pensi allora che si possa sfuggire alla gabbia ideologica che il concetto di identità inevitabilmente produce?

La verità è che abbiamo identità dinamiche che vengono sempre spinte a diventare statiche. Negli Stati Uniti c’è stato un tipo di critica, fatta dei liberal bianchi, che ha accusato donne, persone di colore, disabili e poveri in genere di mettere in discussione le conquiste rivoluzionarie degli anni ’20 e ’30. La colpa è sempre dell’altro, mentre loro, privi di alcuna identità, non hanno alcuna colpa. Questa è, ed è stata, la questione centrale. In opposizione a questa idea voglio dire che quello di cui stiamo parlando sono identità e sistemi di razzializzazione che creano gerarchie di potere, sistemi di autorità patriarcale che creano gerarchie di potere. Non è che un giorno ti svegli e dici sono orgoglioso di essere nero o donna. No, questo è sempre il prodotto della razzializzazione, dell’autorità patriarcale, e di altri sistemi di dominazione che devono essere distrutti. Non possono però essere distrutti finché si pensa che queste identità siano il problema, un ostacolo. Piuttosto le identità devono essere parte di un processo dinamico in cui l’identità diventa una risorsa per le persone che occupano quell’identità e per tutte le altre con cui stanno in relazione. Per esempio, non whiteness senza black o senza brown. E quindi l’abolizione del concetto di bianchezza, dell’identità bianca, l’identità del privilegio, è il primo passo verso una forma profonda di solidarietà.

 

Per restare in tema di identità: qual è il ruolo di Obama all’interno della black community. Continuano a sostenerlo benché siano ormai tramontate le speranze che tante e tanti afroamericani avevano riposto in lui …

Si potrebbe dire che è un segno della trasformazione della politica americana in spettacolo. È lo spettacolo quello con cui abbiamo oggi a che fare. Poche persone hanno capito davvero che negli ultimi 40 anni abbiamo assistito ad una coerente politica neoliberalista da parte del governo federale degli Stati Uniti da cui nessuno ha preso le distanze. Non lo ha fatto Clinton, né Carter e certamente non Obama che è tra i peggiori Democratici. In qualche modo il potere della politica spettacolo ha reso impossibile condurre una critica collettiva e di massa ad Obama e soprattutto ha reso realmente difficile discutere di razzismo. Le elezioni di Obama hanno reso possibile credere, a quanti vogliono crederlo, che il razzismo è finito, ma in realtà hanno messo in moto più profonde divisioni razziali.

Obama, come presidente nero, vuole essere il presidente che non fa differenze di tipo razziali. Ma è anche il presidente che ha deportato il maggior numero di lavoratori senza documenti, che ha intensificato gli attacchi di droni e, nonostante la sua popolarità, i requisisti di base della democrazia sono stati erosi sotto la sua presidenza. Ma questo negli Stati Uniti viene rigettato. La risposta è sempre “non criticare il nostro presidente”. Così la madre di mia moglie un giorno che criticavo l’amministrazione Obama: “devi smettere di parlare male di Obama, è il presidente, ha dei segreti e sa cose che noi non possiamo sapere”. Per questo dunque non dovremmo criticarlo.E questo in anni in cui Bradley Manning è in prigione per aver divulgato segreti americani e il National Defence Authorization Act sancisce (come misura contro il terrorismo) l’autorità piena del presidente, senza il ricorso ad alcuna autorizzazione, di uccidere cittadini americani. Anche se solo dicessimo che Obama ha dei segreti che giustificano le scelte politiche, non sarebbe un problema? Non è un problema che ha dei segreti che non conosciamo? Siamo così abituati alla logica neoliberale che non ce ne rendiamo conto. E quello che è successo con mia suocera è tipico di molti afroamericani. Ma non tra gli attivisti. Tutti quelli impegnati in Occupy the Hood, nello Strategic Center o semplicemente come organizer sono molto critici riguardo ad Obama. Sono ciò che resta della tradizione radicale nera ma non hanno una piattaforma. Non ne parlano con nessuno.

Anche prendendola alla lontana non c’è, per essere onesti, un solo movimento negli Stati Uniti che abbia mai coinvolto la maggioranza del popolo americano. Non è mai successo. Non con il movimento abolizionista, non con il movimento per i diritti civili, non con quello femminismo. Non è mai la maggioranza, sempre una minoranza. Quindi non mi stupisce che la stragrande maggioranza della popolazione nera voglia acriticamente sostenere Obama anche se si riduce il controllo su di lui, il salario sociale scompare, c’è sempre il rischio di essere arrestato, di finire in manette e essere messo in prigione. Questa è la realtà. Quello che cerco sempre di enfatizzare con i miei studenti è che non è mai un fatto di pelle. Non si impara niente dalla pelle.E non impari niente nemmeno da un calcio nel sedere da parte della polizia. Non è questa la lezione. La lezione da comprendere è come costruire un terreno di condivisione. Bisogna chiedersi perché ci sono persone hanno il salario minimo? Perché ci sono persone in carcere? Perché le persone vengono buttate fuori dalle loro case? E perché i ricchi banchieri stanno facendo più soldi che mai? È questa la critica da fare. Ed è per questo che combatto con i miei studenti perché loro pensano di sapere tutto per il solo fatto di essere neri o latinos. Ma non è  così. Si tratta invece di

leggere, criticare, impegnarsi, mettere in discussione, sostenere, discutere e produrre un’analisi che sia dinamica e mai statica. E questo ancora più oggi che lo spettacolo ha reso quasi impossibile entrare in contatto con la formazione critica. Oggi non potrei mai avere una conversazione come quindici anni fa. Le persone sono ossessionate dallo spettacolo. C’è stato un cambiamento anche nei mass media. I mass media tradizionali una volta avevano una sorta di giornalismo investigativo, con persone che facevano veramente ricerca e lavoro di denuncia. Oggi non più. Ciò che conta non sono le conoscenza, i dati o le evidenze ma le opinioni. Se il proprio parere è elevato al di sopra della prova, ciò significa che è necessario solo dire: “bene, io credo che Obama sia un uomo buono e non voglio sapere altro”. Questa è la cultura oggi.

 

 

Quale è o può essere, allora, il senso e l’importanza dei media di movimento in questo contesto?

Credo siano assolutamente necessari. Senza media alternativi tante cose non si vedrebbero. Un ottimo esempio in questo momento è Brooklyn, che è in rivolta. Sappiamo solo dai social media che c’è stato un omicidio e che c’è una protesta, i media ufficiali non c’erano. È stata la gente a scattare foto, fare filmati e pubblicarli. I media alternativi non sono necessari solo per conoscere la verità, ma anche per costruire la solidarietà. Perché una sana solidarietà richiede il non essere soli. Vuol dire che quel tipo di atrocità non riguarda sono solo te o i tuoi vicini. Durante un intervento pubblico, subito dopo l’elezione di Obama, parlavo della guerra ai giovani. Il discorso era sugli Stati Uniti, ma poi ho detto di fare un passo indietro, di chiederci chi sono i nostri giovani? Sono solo i bambini che vivono a New York o nel Bronx? Oppure anche questi sono i nostri giovani? E ho mostrato le immagini di bambini in Afghanistan e Pakistan uccisi dai droni; dei bambini attaccati dalle forze israeliane in Palestina, di bambini che lavorano nelle fabbriche ad Haiti e nel Sud-Est asiatico. E ho detto: “questi sono i nostri figli”. I giovani neri con cui abbiamo a che fare sono figli di tutti. Le madri palestinesi dovrebbero prendersi cura di questi bambini neri e noi dovremmo fare lo stesso con i loro figli e per le altre persone.

* Una sintesi di questa intervista è stata pubblicata sul Il manifesto del 12 aprile 2013.


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