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Il comune rubato – un non diritto per un non luogo?

Posted By Gigi On April 13, 2013 @ 2:00 pm In Articoli,Italiano | Comments Disabled

di PINO DA BEGATO

L’interessante invito che il professor Mattei ha formalizzato a UniNomade si rivela denso di spunti e volto ad aprire un dialogo tra realtà, che afferma meno distanti di quanto possa apparire. Invero, la differenza è grande ed estranea alla, superata dai fatti, controversia circa la persistente validità della costituzione repubblicana.

1) Peraltro, per correttamente impostare la questione, appare indispensabile procedere proprio da quello che è stata la costituzione italiana -non negli studi, pure approfonditi (li pagano) dei commentaristi- ma, in concreto, nella vita di chi c’era nei giorni tristi e bui della costituzione nata dalla resistenza (meglio, dalla morte di essa).

La costituzione è opuscolo delle libertà, senz’altro. Ma pur vigente si dovranno attendere gli anni ’80 per potere considerare legittimo lo sciopero politico. Il documento si dice scritto (anche, ma molte pagine profumano di sacristia) dai reduci del CLN, ma ancora nel ’79 c’era, tra i costituzionalisti chi auspicava la messa fuori legge del PCI (con la scusa dell’MSI). C’era libertà di manifestare… e chi lo racconta ad Ardizzone?; di pensare… lo dite voi a Braibanti?

C’era soprattutto la funzione sociale della proprietà (così entro nel vivo della questione). Se qualcuno avrà voglia e tempo (perso, come per ogni atto di un giudice) di leggere le decisioni della Corte Costituzionale sull’argomento, resterà spiazzato (laddove formatosi su libri che ci narravano dell’apporto socialcomunista alla compilazione) dalla granitica difesa dell’assetto proprietario, tanto da intendere la ridetta funzione non un limite di indirizzo ma una clausola di salvaguardia del diritto dominicale (come dire, ma se consente la “funzione sociale” la proprietà è doppiamente sacra… e comune veramente “utile”).

Quello che voglio dire è che la costituzione materiale dell’operaio massa sorse nonostante il testo formale vigente, usato sino ad allora per fini unicamente repressivi attraverso un’interpretazione tanto corretta quanto fascista. In parole povere (anzi poverissime) senza “l’autunno caldo” l’art. 36 sarebbe stato parametro di miseria (quella vera, affitti alti e salari bassi; magari con livelli produttivi altissimi per la gioia di Togliatti) e non avremmo mai potuto salire sulla 124 fiat (con buona pace di tanti costituzionalisti di ieri e di oggi che magari avevano l’Appia…e senza scioperare).

Poco importa se la costituzione si presti a struggimenti tardo socialdemocratici di aspiranti tornitori [che, poi, almeno ci riuscisse di vedere, anche per pochi secondi, Cofferati alla catena, di montaggio ovviamente (data l’età non riesco più a sognare tanto ardito da immaginarlo alla gogna)] se forse, con tortuose argomentazioni si riuscirà ad estendere la tutela possessoria ad artisti occupanti spazi esausti (e solo per il tempo in cui saranno tali, mai avere troppa fiducia nella difficoltà di prova della rivendica, ogni buon kulak lo sa), se un’azienda municipalizzata resterà tale e non finirà “in mano ai privati”, che tanto il privato farà eleggere suo cognato e questi da buon assessore gestirà il tutto con i criteri d’impresa (ma quali?) e l’acqua resterà putrida e costosa, la rumenta bruciata continueremo a respirarla noi, i camion correranno veloci ed invisibili sopra le nostre teste anche domani…

La costituzione italiana si risolve nel suo uso -come ogni altro strumento (la vedete la chitarra di Jerry Garcia in mano a Fumagalli?)- da parte del potere giudiziario (quello dei malori attivi, dei calcinacci volanti) e questo uso, non mi piace, tanto da disgustarmi, anche, il mezzo utilizzato.

Concludendo questa prima parte, se è vero che i ricchi son di destra e anche illuminati rimangono soltanto fascisti mascherati, è altrettanto vero che le loro leggi (tutte, in quanto dei ricchi e in quanto leggi) sono fasciste (e Pertini resti a salutare Juan Carlos).

2) In tutto questo parlare di comune, però c’è qualcosa di più profondo (e pericoloso) che trascende la costituzione e i discorsi (come i miei) da bar. Esiste una sola costituzione ed è quella dettata dalla finanza e che vincola il vero suddito globale: l’uomo indebitato. Questa costituzione pulsa nell’espropriazione della vita da parte del capitale, nel regolare i comportamenti umani degradandoli a scommessa da valutare sui mercati (come le vendemmie, le variazioni climatiche, i debiti degli enti pubblici).

Il comune degli uomini è oggetto di captazione da parte del capitale che si è dato una costituzione viscida e gelatinosa, ma valida ed efficace (si tratti di lex mercatoria, di interventi à la Fornero, di Belen che ci installa l’impianto telefonico, di Napolitano che -parafrasando Ciaureli- ci ricorda l’indimenticabile 1976) e soprattutto oppressiva e disgregatrice di quello che le moltitudini creano, attraverso la costante messa a valore. Ecco perché il “comune” è importante per il capitale, ecco perché in tanti se ne interessano (ed è ovvio che non mi riferisco all’estensore delle note in esame).

In Riv. Trim. Dir. Proc. 2012, 1061, l’argomento dei beni e del dualismo pubblico-privato è trattato da Paolo Grossi (i beni: itinerari tra “moderno” e “pos-moderno”) in modo ampio e coinvolgente, riuscendo a svolgere il passaggio epocale (oggetto della nota) con chiarezza e dovizia di particolari. Soprattutto (pg. 1069), a proposito di Enrico Finzi si afferma ai suoi occhi aveva grande rilievo l’attenzione per la produttività di una cosa, l’incremento e la tutela della produzione….è scontata la sua conclusione:sono i beni che si mettono in primo piano, è la loro utilizzazione, la loro destinazione, la loro organizzazione che appare immediato oggetto della disciplina giuridica, talchè si pongono logicamente come un prius rispetto al cittadino cui spettano. L’attenzione è per il bene quale protagonista della dinamica economica, perché il proprietario è identificato soprattutto in un produttore, in un imprenditore.

Fondamentale è come si pervenga alla smitizzazione dell’odiata e fuorviante funzione sociale: ora nel clima post-moderno del pieno novecento, si insegna che la proprietà ha delle funzioni, che è essa stessa una funzione (e Finzi, ci spiega lo stesso autore non era Giovanni Pesce).

Ma cosa accade quando è la vita ad essere messa al lavoro, quando la produzione cessa e si risolve nell’apprensione del flusso dell’esistenza? Il bene si dissocia dalla cosa per divenire un’entità simbolica, mentre si attenua fino a vanificarsi il raccordo tra una teoria dei beni e teoria della proprietà, si dissocia per incarnare un valore in sé e rinviare a situazioni di tipo non reale. É vero, ma non basta.

E non basta neppure quanto rende (in ciò, meritoria) Cass. S.U. n. 3665 del 14.02.2011 che pone l’emergere dell’esigenza interpretativa di guardare al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale proprietaria per approdare ad una prospettiva personale collettivistica… là dove un bene immobile indipendentemente dalla titolarità risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico destinato alla realizzazione dello Stato sociale, detto bene è da ritenersi al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominus romanistica e della proprietà codicistica, comune, vale a dire … strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini.

E prosegue il commento: l’aspettativa dominicale della tipologia del bene in questione cede il passo alla realizzazione di interessi fondamentali indispensabili per il compiuto svolgimento dell’umana personalità.

Ma come conciliare questa visione legata, comunque alla materialità della cosa (pur funzionale al compiuto svolgimento della personalità) alle esigenze di chi, cosa tra cose, cede il pulsare della vita al capitale?

Perché procedere a revisione (delle) categorie proprietarie e anche delle categorie dei beni, mirando ad arrivare ad un risultato giuridicamente ed eticamente ragguardevole che consisterebbe nel diritto del cittadino a non essere escluso da altri dal godimento di alcuni beni essenziali alla sua esistenza, quando il desiderio è non essere escluso (espropriato) dal godere di sé stesso in quanto moltitudine?

A spiegazione della (mia) pretesa, sovviene appunto Mattei (Beni Comuni. Un Manifesto, pg. IX) che ci invita a superare quell’atteggiamento -dominante fino ad oggi- che tende a considerare il comune come luogo del non diritto per eccellenza.

Penso che qui stia l’equivoco (ovviamente tutto mio). Occorre il diritto (e soprattutto questo diritto) per pervenire al riconoscimento del “comune”?

3) Il rischio di appiattirsi sui “beni” comuni facendo evaporare il senso del “comune” come prodotto degli uomini, comporta un altro rischio: quello di invocare leggi, normative e provvedimenti atti a regolamentare (e quindi a mettere a valore) il comune (i beni comuni).

Scrive Cesare Salvi, recensendo sulla Rivista di Diritto Civile (2013, 210 ss.) un noto libro (Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni) che più un’entità politica è piccola, e quindi direttamente controllabile dai cittadini, più sono ridotti i suoi ambiti di sovranità. E infatti la stessa Ostrom ha riconosciuto, in alcuni campi (come il cambiamento climatico) l’esigenza di una normativa, nazionale ed internazionale, per tutelare l’atmosfera, common globale. Ed è possibile una regolazione globale di questo tipo senza una regolazione globale della produzione?

****

Regolare il “comune” degli uomini è come voler regolare un assolo di Peter Brotzmann; un conto è regimentare l’uso del bagno in un dormitorio, diverso è rifiutare l’espropriazione della ricchezza prodotta in comune da parte del capitale.

L’uomo impresa indebitata che ha come unica normativa vincolante quella dell’impresa (per ora, purtroppo soltanto in negativo), non può che dolersi della propria vita e dell’usurpazione della stessa. Immerso nel capitale finanziario, nel welfare del debito (consistente nel potere accedere al credito, ove concessogli e non per beneficio suo) l’uomo impresa indebitata affoga in ogni caso; la regolamentazione anche globale, anche della produzione (sarebbe simpatico riprenderci le fabbriche ora che non ci sono più, magari ce lo lasciano fare) resta ostacolo alla vita, ne condiziona l’espressione e parametra ogni comportamento al capitale che la assume e ce ne spoglia.

Senza più stato, senza più padroni (perlomeno evidenti, risulta difficile assaltare il palazzo d’inverno dello spread) restiamo servi, anche potendo godere, tutti insieme di un litorale, dell’acqua e del vino bianco.

Il problema del comune sta proprio qui: nel rifiuto alla partecipazione allo sfruttamento, alla produzione indotta e gestita in opposizione a quanto vorremmo. Occorre porci il problema dell’organizzazione non delle leggi (o dei regolamenti). Occorre farci banca di noi stessi, invocare la moneta comune [non perché di tutti (che pure non sarebbe male, ma se i miei 5 euro sono di tutti, chi li spende?, probabilmente qualche assessore) ma perché -come attualmente la moneta è creata dalle banche senza alcun limite- la moneta del comune (dei comunisti) creata dalle moltitudini deve essere unica unità di misura ammessa -e ottenuta “illegalmente”- della produzione in comune operata dalle moltitudini, trascendendo dalla legge del valore], l’accesso al credito garantito e illimitato (e quindi una rendita incondizionata svincolata da alcun obbligo lavorativo altrimenti coattivo).

Penso che il problema sia questo; una differente individuazione del comune, che (per me ovviamente) resta presa d’atto dell’attuale sistema di produzione e riproduzione della nostra vita attraverso un orizzonte che, nonostante ogni tutela e garanzia, resta e resterebbe  quello proprietario (anche senza proprietà, infatti gli immobili cartolarizzati sono forse rappresentati da un titolo immateriale ma chi non li “possiede” resta sotto la pioggia) della finanza che travolgendone il senso, lo ha ridotto a distinzione credito(merito)/debito(fannullonecomunistascansafatiche), perpetuando lo sfruttamento.

Rivendicare il comune significa, prima di tutto rivendicare la vita deturpata e impedita dalla continua appropriazione da parte del capitale, e quindi opporsi al lavoro e al mito del miglioramento delle proprie condizioni attraverso lo sfruttamento. Rivendicare il comune importa, anzitutto, sottrarsi alla legge del valore.

Appare urgente dislocare l’insorgenza soggettiva del comune in luoghi che liberino i flussi di vita evitando la soppressione della soggettività nello scambio e nella concorrenza, luoghi che potremmo chiamare “Camere del comune e del non lavoro”.

In fondo se il comune è il luogo del non diritto per eccellenza, c’è necessità del diritto in un non luogo?


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