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Il diritto del comune. Per proseguire la ricerca

 

di SANDRO CHIGNOLA

Appunti dopo il seminario di Torino.

1. Perché collocarci sul terreno del diritto? La risposta può essere data immediatamente, dopo il seminario di Torino (IUC-UniNomade 2.0, Il diritto del comune. Globalizzazione, proprietà e nuovi orizzonti di liberazione). Da un lato, perché il lessico del diritto e dei diritti si è fatto debordante ed è diventato anche la lingua dei movimenti. Dall’altro, perché la scienza del diritto si è fatta, nella crisi della forma Stato e della rappresentanza politica, lo schema per mezzo del quale vengono costruiti, resi intelligibili e «governati» i rapporti globali.

 

Il monolinguismo giuridico, ed in particolare, la sintassi del rule of law, reinscrive la pertinenza del termine «democrazia» e, per renderle accettabili o «ragionevoli», vincola la traduzione dei claims e delle rivendicazioni, compatibilizza i processi di soggettivazione, de-limita il raggio delle aspettative.

 

Quella del diritto è la «matrice anonima» (per riprendere la definizione di Günther Teubner, con cui ci siamo produttivamente confrontati a Torino) che attraversa i mondi vitali, riduce la complessità dell’ambiente, abbassa la soglia di rischio per i flussi della finanza globale territorializzandoli in spazi protetti colonizzati dal diritto. Ed è sempre il diritto, specie nella forma del diritto privato internazionale, del diritto commerciale, del diritto dei brevetti e di proprietà intellettuale – un diritto sempre meno riferibile alla sistematica dell’ordinamento – quello che spinge processi di State-building imperiale; quello che lavora all’«enclosure» e alla cattura del comune della cooperazione; quello che garantisce la trasformazione del profitto in rendita.

 

Strategico diventa perciò assumere questo terreno come terreno di battaglia. Per opporre la «potenza giuridica» (Rudolph von Jehring) del comune, la sua eccedenza, alla macchina di traduzione/compatibilizzazione normativa che la affronta.

 

2. Il rapporto tra norma e realtà è segnato dalla crisi sin dal primo Novecento. Ora, quella crisi è diventata l’eccezione permanente sulla quale si incardina la regolazione. Siamo ovviamente lontani dal concetto di Politico di Carl Schmitt: il fatto cruciale è che allo stato di eccezione non segue alcuna neutralizzazione sovrana, alcun ordine. L’eccezione si spalma piuttosto sull’intero ordinamento (Toni Negri).

 

La crisi (eccedenza e normalizzazione; debordamento e tenuta; deterritorializzazione e riterritorializzazione dei quadri normativi) diventa l’algoritmo con cui lavora la matrice giuridica; la modalità che risponde alla differenziazione e alla frammentazione delle sfere sociali, all’irriducibile mobilità del soggetto; al rischio di istanze difficilmente assegnabili. Ciò che segna il passaggio dall’ordine della rappresentanza politica (la decisione pubblica come legittima in quanto autorizzata dal basso) alle tecnologie di governance (la decisione come ciò che emerge da un processo decentrato e partecipato incorniciato da un soft law in cui sfumano gli aspetti di comando ed esecutività) è il farsi indisciplinabile del processo sociale; il suo trasmettersi attraverso nodi di autovalorizzazione che eccedono i perimetri della fabbrica e dello Stato; che obbligano il comando all’inseguimento di linee di fuga tendenzialmente ingovernabili.

 

E’ esattamente questa ambivalenza – l’ambivalenza tra autonomia e cattura, tra indipendenza e cooptazione nelle reti della decisione partecipata, quella che si tratta di forzare: sul piano teorico, smantellando le dicotomie dello schematismo giuridico; sul piano politico, affermando in termini irrecuperabili autonomia e indipendenza. Elaborando, cioè, in termini materiali e organizzativi gli aspetti istituzionali della «potenza giuridica» della moltitudine.

 

3. Sono tre le dicotomie che il diritto ha posto ad architrave della propria grammatica nell’epoca moderna.

 

La prima è la dicotomia tra pubblico e privato. Essa ha storicamente rappresentato lo schema trascendentale attraverso il quale si è prodotta la formalizzazione del soggetto di diritto. Il «pubblico» rappresenta la forma di composizione degli «interessi privati». E cioè della proprietà. Da questo punto di vista, quella che si organizza come «pubblico» è fondamentalmente la reciproca «separazione», e dunque la tutela, degli interessi privati (stabilmente organizzati attorno alla proprietà), come ci ricorda il giovane Marx della Questione ebraica. E tuttavia: è pensabile, all’altezza della contemporanea composizione del lavoro, la valorizzazione giuridica di questa separazione? E’ questa una delle poste in gioco. Il lavoro vivo valorizza immediatamente la cooperazione. Ed è il comune della cooperazione, non la muta immediatezza della natura, ciò che marca l’emergenza (e l’eccedenza) dei commons (reti produttive, circuiti della logistica, flussi di informazione) come ciò che sfida e mette in crisi gli ordinamenti privatistici internazionali. «Bene comune» è ciò che viene organizzato nell’autonomia e nell’indipendenza del lavoro vivo, non ciò che può essere feticisticamente ricomposto dalla sua scomposizione.

 

La seconda è la dicotomia tra società civile e Stato. La sua sopravvivenza, oggi per molti versi spettrale, designa uno dei principali meccanismi di cattura con i quali lavora il diritto. Da un lato, valorizzando i dispositivi di cooptazione e di filtro per mezzo dei quali può essere ristrutturata la legittimità del comando capitalistico. Il transito della nozione di governance dal management di impresa alla scienza politica è a mio avviso estremamente emblematico, da questo punto di vista. La società civile può così essere identificata come il luogo di espressione di istanze, agenzie, competenze e soggetti da reclutarsi alla funzione di governo e come il campo sul quale la funzione di governo ritorna con decisioni «legittime» perché, almeno in qualche modo, concertate o negoziate.

 

La «pubblicità» rappresenta la soglia che abilita o che disabilita i soggetti; che riconosce o che disconosce le organizzazioni; che sceglie che cosa tutelare o che cosa non tutelare, selezionando nella società civile istanze attivabili, oppure non attivabili, alla funzione di governo. Riprodurre questa dicotomia, anche nel lessico dei movimenti e soprattutto a partire dalla postura difensiva che resuscita il «pubblico» contro le «privatizzazioni», significa far girare il dispositivo di traduzione giuridica; rinsaldare le autorità cui si indirizza la richiesta di tutela dei diritti; resuscitare l’idea di un rapporto virtuoso tra organizzazioni della società civile e Stato ormai messo inesorabilmente fuori gioco da processi di soggettivazione che fanno saltare quella dialettica.

 

La terza, è la dicotomia tra soggetto individuale e soggetto collettivo. Il nome «moltitudine» esprime esattamente il concetto di classe relativo ad una composizione tecnica e politica del lavoro che fa letteralmente saltare il dispositivo di unificazione comune alla fabbrica e alla rappresentanza politica (autentica fabbrica giuridica, quest’ultima, della moderna nozione di soggetto). Se è vero che il concetto di «individuo» singolarizza il soggetto legandolo alla proprietà (e non solo: un soggetto proprietario non è solo quello il cui lavoro gli appropria, come in Locke, la res communis, ma anche il soggetto appropriato e, cioè, maschio, bianco e proprietario, come ideale del cittadino) è altrettanto vero che questo individuo astratto, la cui proprietà chiede di essere separata dale rivendicazioni altrui, viene immediatamente inclinato ad una ricomposizione politica formale nell’unità che rappresenta la garanzia e la tutela di quella separazione (popolo, nazione, volontà generale). All’Uno del collettivo corrisponde l’uno della singolarità individuata: la proprietà privata.

 

Ma allora: è ancora possibile parlare in questi termini, e cioè di un rapporto lineare tra soggetto individuale e soggetto collettivo, tra pubblico e privato, tra società e Stato, quando la cooperazione non può più essere comandata, organizzata dall’alto, in un’unica filiera produttiva; quando il lavoro vivo valorizza immediatamente sé stesso; quando il capitale fisso sono le caratteristiche ontologiche dell’uomo (il linguaggio, gli affetti, la capacità di relazione) in quanto animale sociale? E’ ancora possibile supporre di poter rappresentare, e cioè di poter riportare all’astrazione dell’Uno, ciò che si afferma valorizzando il molteplice puro dei nodi e delle connessioni?

 

4. Gran parte della produzione normativa contemporanea non è di origine statuale. Ciò che lo Stato ha perduto, a cavallo tra il Novecento e il Duemila, è il monopolio della decisione e la capacità di ordinare gerarchicamente il processo esecutivo. Sempre maggiore centralità acquisiscono linee di giuridificazione non statuale e forme di regolazione irriferibili al sistema delle fonti tradizionali del diritto. Si tratta, in gran parte, di un meccanismo di risposta all’«eccedenza costituente» del lavoro vivo, alla sua mobilità, alla sua imprendibilità.

 

E’ a quest’altezza, e cioè nell’agencement tra singolare e comune che si determina come forma della cooperazione del lavoro vivo, che sfuma definitivamente la capacità di tenuta della dicotomia tra singolare e collettivo, tra pubblico e privato, tra Stato e società. Se è vero che la norma è sempre altro da ciò che viene normato, differente dalla realtà di ciò che avviene, all’altezza dei processi in atto, la «pressione» sul sistema giuridico è tale  (per chi la legga dal basso), da far saltare la frontiera che separa ordinamento e realtà, proprio perché ad un ordinamento frammentato corrispondono, su tutti i suoi punti di soglia, istanze costituenti che non chiedono di essere giuridicamente «tradotte», ma che esprimono un’autonoma potenza di affermazione.

 

Il problema del diritto del comune è il problema della produzione di norme giuridiche non statali per regolare la vita comune. Il problema di istituzioni che permettano l’autonomia e l’indipendenza della moltitudine. Il problema di forme in grado di organizzare e di difendere la cooperazione.

 

E, in questi termini, il problema di un attraversamento strategico – e non solo tattico o difensivo – dell’orizzonte del diritto. Della trasformazione e dell’oltrepassamento degli scenari di cattura. Quello dell’affermazione di processi di soggettivazione in grado di trascrivere in termini costituenti la propria eccedenza.

 


 

 

 

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