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Il futuro sacrificato sull’altare del debito

 

Intervista a JASON READ – di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

Nel profondo Maine, ora governato da un aggressivo rappresentate del Tea Party, ci sono almeno una ventina di Occupy. Tra questi, l’occupazione della University of Southern Maine, in cui insegna ed è politicamente attivo Jason Read. Il suo importante libro The Micropolitics of Capital (uscito nel 2003), che ha al proprio centro la questione della produzione di soggettività, cerca di far dialogare il post-operaismo con l’apparato concettuale althusseriano, pur nei diversi e spesso contradditori rivoli in cui si sono dispersi gli allievi del maestro francese. La conversazione con Read parte dai motivi che l’hanno mosso nella sua ricerca.

“Sono arrivato all’operaismo dall’anarchismo diffuso nei college americani e soprattutto attraverso la pubblicazione del testo sull’autonomia di Semiotext(e): capii che dovevo leggere Marx. Credo che sia possibile comprendere il capitalismo, teoricamente e politicamente, solo afferrando la produzione di soggettività nel duplice significato del genitivo: il pensiero althusseriano permette di elaborare un discorso su come i soggetti sono costituiti, l’operaismo ha invece colto l’altra parte, cioè la formazione del soggetto autonomo. É necessario mettere in relazione e in tensione queste due letture, per porre a critica l’idea dominante secondo cui tutto è strutturato dal capitale.”

Come questo duplice concetto di produzione di soggettività può spiegare da un lato le politiche neoliberali e la loro crisi, dall’altro le lotte e il movimento Occupy?

“La cosa più semplice che si può dire del neoliberalismo è che produce una soggettività completamente individualizzata, presunte figure autoimprenditoriali private di ogni identificazione collettiva. Se il capitale fisso si soggettivizza, il capitale deve gestirlo e governarlo, rendere le soggettività isolate, competitive e incapaci di articolare le proprie relazioni. Credo che il movimento Occupy stia creando un significato della dimensione collettiva, producendo una soggettività politica ma in assenza di un linguaggio che articola questa soggettività. É necessario comprendere le nuove forme in cui la ricchezza è estratta e permea l’intera vita, dal debito alla privatizzazione dei servizi. Lo sfruttamento non è limitato al lavoro: dobbiamo allora approfondire questi processi per capire le soggettività e le differenti forme di resistenza allo sfruttamento.”

Qual è lo spazio per questi temi nel dibattito teorico e politico americano, dentro e fuori l’università?

“Questi temi non si trovano necessariamente nei contesti in cui ce li aspetteremmo. Prendiamo l’esempio del lavoro affettivo, che connette la teoria degli affetti a partire da Spinoza, il contributo del femminismo e le trasformazioni del lavoro. Questi differenti lati sono limitati dai confini disciplinari e mai completamente articolati. Vi è poi, politicamente, una discussione sul lavoro affettivo rispetto al lavoro di cura, ma uno dei maggiori problemi è, almeno negli Stati uniti, il reciproco isolamento di politica e teoria: solo la loro interazione è in grado di produrre una reale trasformazione. Chi è interessato a questi temi dal punto di vista teorico li considera questioni accademiche, sconnesse dall’attualità politica.

Tuttavia, esistono le possibilità di superare questo reciproco isolamento. Molta della produzione teorica di Occupy, ad esempio, ha preso corpo innanzitutto attraverso i video, i blog, i siti: è avvenuto tutto troppo velocemente per essere compreso o catturato dal meccanismo dell’accademia. É però necessario creare degli spazi all’interno di Occupy per la riflessione teorica: finora sono stati riempiti dai discorsi delle “celebrità”, come Žižek o Butler. Penso invece che già stiano prendendo corpo i luoghi della discussione e dell’autoformazione, ma devono crescere e determinare continuità.”

Il reciproco isolamento di pratica teorica e pratica politica rischia di consegnare la prima ai meccanismi dell’accademia e la seconda a un attivismo che fa difficoltà a costruire prospettiva. Quali sono i tentativi di costruire quella che hai chiamato un’articolazione tra produzione di sapere e organizzazione politica?

“Ci sono varie esperienze in questa direzione. La sfida è andare oltre all’evento spettacolare: Occupy ha bisogno non di domande, perché ciò presuppone qualcuno che vi risponda e le legittimi. Diciamo allora che ha bisogno di articolare le proprie prospettive. C’è una resistenza da questo punto di vista, che è parte della pluralità delle lotte. Ma a un certo punto bisogna scegliere tra la completa trasformazione della struttura economica e sociale, oppure la semplice limitazione legale dell’azione delle banche: se non si costruisce un confronto critico tra queste differenti prospettive, la semplice pluralità rischia di bloccare l’azione politica.”

É qualcosa che sta avvenendo oppure è un’indicazione da costruire?

“Ogni movimento deve produrre il proprio sapere. Occupy ha portato a galla ciò che già esisteva – come la privatizzazione e la militarizzazione degli spazi urbani, o la criminalizzazione degli homeless – ma che era passato senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Molte delle leggi usate contro Occupy sono, ad esempio, quelle contro i senza casa o chi dorme in un parco. Penso che l’autoformazione del movimento debba muoversi verso la critica dell’economia politica. Per ora, infatti, uno dei limiti di Occupy è il modo di pensare la produzione e la circolazione della ricchezza. É quindi di strategica importanza la questione del debito. Essendo un dispositivo di moralizzazione e individualizzazione, visto come una forma di dipendenza da nascondere, è difficile costruire azione collettiva. Il debito da consumo riguarda l’uso della carta di credito, ma anche l’esternalizzazione dei costi dei servizi sociali e le forme di produzione della propria esistenza: viene così mistificato il passaggio dal pubblico al privato. La questione del comune in Occupy è qui, benché per ora si sia innanzitutto incentrata sugli spazi e sull’idea che la politica debba riguardare le persone e non le imprese. Il passaggio è comprendere il comune come ciò che viene prodotto collettivamente. Perciò la produzione di ricchezza è una questione teorica centrale per andare oltre il dispositivo di moralizzazione e individualizzazione del debito.”

Il debito studentesco è anche una forma di canalizzazione delle scelte di studio e di vita, in un certo senso è un regime di controllo dei comportamenti futuri. Il debito è dunque un dispositivo di produzione di soggettività…

“Esatto, questo è il punto: il debito forza continuamente lo studente a sacrificare il presente per il futuro. Gli studenti che si indebitano per andare all’università non si chiedono a cosa sono interessati o quali sono i loro desideri, ma semplicemente qual è lo spazio per un futuro nel mercato del lavoro. É terribilmente vincolante ed agisce dall’alto e dal basso. Dall’alto c’è uno spostamento dei costi dell’università dal pubblico al privato. Nelle università pubbliche americane due terzi dei costi della formazione erano pagati dallo Stato e un terzo dagli studenti: ora il rapporto è rovesciato, e i costi a carico dello studente stanno ulteriormente crescendo. C’è una trasformazione dell’università pubblica in università del debito. Dal basso, produce un soggetto costretto a essere interessato solo ai programmi e ai saperi che offrono la possibilità di ripianare il debito, come medicina, giurisprudenza, business e così via. Diminuiscono invece le domande per filosofia, sociologia, arte, le humanities in generale. Ai docenti di queste discipline non viene detto che non possono insegnare, ma che non ci sono domande; così filosofia viene trasformata in etica medica. Dunque, la ristrutturazione sembra venire dal basso, dai supposti bisogni della sovranità dei consumatori, però si tratta di consumatori indebitati, le cui domande sono prodotte dall’università stessa.”

Tutto ciò mentre l’università cessa di essere un ascensore per la mobilità sociale e il valore delle lauree è una bolla ormai esplosa…

“C’è una discussione negli Stati uniti proprio sulla bolla delle lauree dequalificate: il debito, ad esempio, ha prodotto molti più avvocati di quanti riuscissero a trovare un lavoro. C’è dunque un’inflazione di ciò che si immagina essere spendibile sul mercato del lavoro; molte figure altamente specializzate non riescono a trovare un’occupazione nel campo per cui si sono indebitate. Per tanti anni in questo paese si è detto che le scienze di programmazione informatica avevano un alto valore, nessuno pensava che il lavoro potesse essere esternalizzato in India a una forza lavoro meno costosa. La mercatizzazione della specializzazione crea da un lato problemi di sovrapproduzione, dall’altro una massa di studenti che non possono ripianare il debito e quindi devono cercare lavori che non hanno nulla a che fare con quello che hanno studiato.

Poi c’è la retorica secondo cui quello che viene richiesto ai lavoratori sono competenze generiche e non specializzate, la capacità di pensare criticamente, l’intelletto in generale e non le sue specifiche forme. Nessuno più ci crede. La specializzazione è quindi esclusivamente una forma di disciplinamento dei lavoratori, che ti rende pronto ad accettare tutto.

Inoltre, se le lauree diventano sempre più iperspecialistiche è perché vi è una stretta parternship tra gli interessi economici locali e le università: se il settore assicurativo o quello finanziario o l’ospedale hanno un ruolo importante in una città, i programmi universitari saranno costruiti di conseguenza. Così, ti devi indebitare per la tua specializzazione, per il tirocinio, per aggiornare le tue competenze che diventano rapidamente obsolete.”

Il debito, in particolare quello studentesco, sta diventando una questione importante nel movimento Occupy, soprattutto con la campagna Occupy Student Debt. Quali prospettive vedi?

“Sul sito di Occupy Wall Street le persone descrivono la propria condizione economica, i debiti contratti e quanti lavori fanno, mostrando il gap incolmabile tra debito e salario e una certa frustrazione. Quando dentro Occupy si parla di debito c’è la preoccupazione che si possano creare divisioni: altre generazioni sono andate a scuola dentro differenti regimi finanziari, dunque c’è il problema di articolare la solidarietà tra queste diverse esperienze di debito studentesco. Credo che ciò sia possibile solo comprendendo come il debito abbia permesso la diminuzione dei salari reali. Il debito ha consentito agli americani di percepirsi ancora come classe media, è stato un enorme strumento di pacificazione. Puoi avere la casa, la macchina, mandare i figli al college e finché dura, pur nella stagnazione salariale, ti senti rappresentato e soddisfatto dalla società. Adesso che tutto ciò è collassato, il problema è come produrre una soggettività politica del debitore, in grado di andare oltre l’individualizzazione e costruire il comune.”

Quali sono, in generale, le prospettive del movimento Occupy a partire dalla May Day?

“Una grande sfida nei prossimi mesi sarò di rimanere separati dalla scadenza elettorale, soprattutto perché il Partito democratico sta cercando di ringiovanirsi attraverso Occupy. Il movimento si è identificato nella tattica dell’occupazione, centrale e necessaria, capace di comporre e mobilitare figure e spazi che vivono in una condizione di frammentazione e precarietà. Allo stesso tempo bisogna creare altre tattiche, come hanno fatto ad Oakland bloccando il porto. Come organizzare uno sciopero di massa dei debitori? Come agire senza spazi di centralizzazione? Un movimento deve essere capace di auto-sostenersi, per tirare fuori le persone che sono state arrestate durante gli sgomberi, creare reti di solidarietà che consentano di avere cibo e supportare chi sciopera. Bisogna pensare a forme di redistribuzione e riappropriazione, creare davvero un’istituzione del comune: non una semplice protesta, ma un processo costituente.”

* Pubblicata su “il manifesto”, 4 maggio 2012.

 

 

 

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