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Il magistrato e lo scriba

Posted By Anna On February 23, 2012 @ 7:55 am In Articoli,Italiano | Comments Disabled

di GIAN LUCA PITTAVINO

…e Pippo Pippo non lo sa, che quando passa ride tutta la città…

Un bel gioco estivo continuato fino ai giorni nostri sul web (# E’ tutta colpa dei NO-TAV) consisteva nel pensare e nell’addossare tutte le colpe più improbabili ai notav, messi alla pubblica gogna per la loro determinazione nel non accettare un’opera inutile e dannosa sul proprio territorio. Lo scherzo (i notav sanno ridere e sono ben lontani dai toni plumbei con cui li si vuole rappresentare, ridono anche quando li sbattono in galera) ha avuto talmente successo che è diventata una pagina facebook in cui ognuno può mettere alla prova la sua inventiva ironica.

Certo nessuno avrebbe mai immaginato di pensare una nuova colpa per i notav: camorristi… e simil-stupratori. Ci ha pensato il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli (lui sì un uomo triste e incapace di non prendersi sul serio), infastidito dalle contestazioni che lo seguono in ogni parte d’Italia (perfino oltre, l’hanno contestato anche in Svizzera) in occasioni delle sue pubbliche uscite.

Dopo l’ennesima contestazione avvenuta a  Milano (neanche il tempo di lamentarsi che di lì a poche ore veniva contestato anche a Genova) il super-magistrato si sfoga, indispettito, ad un benevolo Giovanni Bianconi:  “sostenere che la nostra inchiesta criminalizza il movimento è come dire che chi persegue uno stupro criminalizza il sesso: la protesta e la violenza sono due cose diverse, esattamente come il sesso e lo stupro. E solo chi viene da un altro pianeta può pensare che io sia al servizio di qualche potere forte”.

 

La logica del magistrato lascia senza fiato. Non solo perché tradisce l’indispettito umore di chi non è abituato ad essere contestato (ed è questo il vero nocciolo del problema, bello lo striscione genovese: “baciamo le mani”) ma anche per le ombre e i fantasmi che ne agitano il discorso. Partiamo dalla prima impressione (che per il senso comune è quella che non tradisce) che ci suscita la lettura. Non possiamo non percepirvi un tono sessuofobico. Perché quest’accostamento, perché far riferimento alla sessualità (che rimanda al gioco, allo scambio, all’affettività)  alla violenza che ne è in fondo la negazione? De te fabula narratur direbbero i latini. Il paragone macabro che Caselli istituisce può ben essere rappresentato con le proporzioni che ci insegnavano a scuola. Per Caselli,  violento (notav) : notav (buono) = stupratore : sesso. Il sottinteso infame che suggerisce l’accostamento ci dice in sostanza che proprio per non rischiare d’infettare la sessualità sana con la violenza sessuale che ne è la negazione, il movimento notav  dovrebbe isolare e staccarsi dalla parte “violenta” e infettante. La linearità di questa logica inquirente sostiene l’impalcatura di questa operazione e di tante altre approvate dal procuratore capo e la ritroviamo senza soluzione di continuità  anche nel discorso di quanti, tra i giornalisti che difendono l’autorità morale del super magistrato, ci tengono a presentarsi come “amici dei notav”. Ora non soltanto il movimento notav non accetta questa separazione tra buoni e cattivi, riconoscendo in questo un proposito interessato della contro-parte che punta a dividerlo. Su un piano del discorso ulteriore non può neanche riconoscersi nei presupposti di quel ragionamento. Ragionamento che chiede in sostanza ai notav di disconoscere i propri detenuti, anzi peggio vederli bollati con la peggiore delle infamie. Dovremmo quindi pensare a Giorgio, Luca, Gabriela e tutti gli altri come degli “stupratori” della parte sana del movimento ?!? Semplicemente impossibile…

 

La mentalità inquisitoria del magistrato è portata a leggere e interpretare le dinamiche conflittuali, i processi politici che attraversano il corpo sociale, i divenire che li attraversano in termini esclusivamente clinici, patogeni. Per i Caselli (e i Travaglio) c’è sempre una profilassi da fare, i movimenti non dovrebbero far altro. Ma è nella natura del movimento invece l’essere trasformante e in trasformazione, preso in un divenire che muta gli atteggiamenti sul mondo, le priorità dell’esistenza, la scala di valori e la capacità d’azione degli uomini e delle donne che li fanno vivere. La sociologia li chiama processi di soggettivazione (collettivi, aggiungiamo noi).

Ci sembra che queste allusioni, il linguaggio adoperato, questo sguardo sul sociale tradisca proprio un approccio pesantemente sessuofobico. E’ una sensazione che attraversa le righe del testo e colpisce chi legge. Ovunque proliferano sommovimenti sociali, soggettività che si aggregano modificando il proprio status precedente (i “buoni” che se la fanno coi “cattivi”), raggruppamenti che pongono questioni e bisogni nuovi, questi signori vedono sempre e solo una minaccia esterna che attenta all’integrità dell’io sociale. La dichiarazione di Caselli tradisce questa paura e questa identificazione tra corpo individuale e corpo sociale. I movimenti che turbano la governabilità del sistema sono come le pulsioni, vanno normati e divisi tra buoni e cattivi, come quelle in sane e malate. Forse si tratta solo di una dichiarazione infelice. A noi sembra invece che la metafora sessuale usata dal Procuratore Capo riveli invece molto della sua mentalità e della sua cultura politica. Del resto non siamo i primi a individuare nella pratica giudicante una forma particolare di libido accoppiata al potere (il godimento di punire e giudicare) . Uno come Kafka ci ha scritto un romanzo grandioso (“il Processo”) e ne ha fatto uno dei punti forti della sua scrittura.

La sortita del Magistrato è stata ovviamente accompagnata da una serie di commenti di “grandi firme”. Le esternazioni di un Pier Luigi Battista sul Corriere della Sera non le prendiamo neanche in considerazione. Troppo scontata e chiara la sua posizione in merito alla questione notav. Per lui la vicenda della contestazione a Caselli è solo un’occasione di comodo per attaccare un movimento forte e radicato. Ci sembra invece più necessario ed urgente una risposta a Travaglio, perché il suo discorso pretende di situarsi dalla stessa parte delle ragioni dei notav. Travaglio e il suo giornale non hanno mai nascosto la loro contrarietà alla grande opera ed effettivamente il Fatto Quotidiano porta avanti un lavoro di contro-informazione capillare e puntuale sull’assurdità del Tav (hanno persino pubblicato l’ottimo libro di Ivan Cicconi sull’argomento). Le critiche che dobbiamo muovere a Travaglio sono di due ordini. La prima, più generale, lo accomuna ai tanti che fingono di “rispettare” i notav purché non travalichino i confini della legalità (avete notato quanta cautela paternalistica nel rivolgersi ai notav “buoni”?). Lo sfondo di questa argomentazione è la cultura liberal-governamentale per la quale i movimenti e le istanze che nascono nel corpo sociale sono buoni e accettabili fintantoché non mettono in discussione gli equilibri di riproduzione dell’esistente, fin quando restano movimenti d’opinione. Non appena incrinano questi equilibri (non appena si fanno politici) sono da confinare a una delle tanti varianti della criminalità, quindi della penalità. La dialettica conflittuale legalità-legittimità resta impensabile per un Travaglio. Come i suoi colleghi Sitav Travaglio può ammettere solo movimenti che educatamente dicono quello che pensano e altrettanto compostamente si ritirino dalla scena. Travaglio presuppone movimenti armati di buone ragioni e al contempo impegnati nell’auto-mutilazione della propria forza, delle proprie possibilità. Questo atteggiamento, che si potrebbe superficialmente archiviare come ingenuità politica tipica del liberalismo, nasconde invece la faccia più autenticamente politica di questo (questa può essere cosciente o meno in chi se ne fa portatore, questo è di secondaria importanza). L’essenza di questa cultura ci dice che oltre certe soglie non si dà più politica, perché la politica trova il proprio campo (solo ed esclusivamente) nella composizione e mediazione dei conflitti tra interessi contrapposti. La politicità dei movimenti è invece quella di portare allo scoperto contraddizioni, posizioni irriducibili e interessi di parte che trovano la propria ragion d’essere proprio nel porsi conflittualmente sulla scena della società, che è poi la scena dell’azione storica. Chiedergli di rinunciare a questo attributo significa pretenderne l’uscita di scena, l’auto-annullamento.

Queste considerazioni ci portano alla seconda obiezione che dobbiamo muovere a Travaglio. Nel suo editoriale di oggi sul Fatto Quotidiano il fustigatore della casta costruisce un efficace espediente retorico, il “facciamo finta che”. “Facciamo finta per un momento” – ci dice Travaglio  – “di non sapere che Gian Carlo Caselli vive sotto scorta da 40 anni” etc, etc. Propone quindi di chiamare Caselli “Pippo” e di qui procede alla disamina del comportamento impeccabile del procuratore-Pippo che procede nel suo lavoro “in perfetta osservanza della legge”. L’argomentare di Travaglio fila liscio come l’olio, a patto ovviamente di condividere con Caselli (e Travaglio) il giudizio – non discutibile – sulla legittimità del sistema vigente. “In realtà di Caselli ce n’è uno solo”  [e su questo siamo perfettamente d’accordo con Travaglio] “quello che, davanti ad una notizia di reato, procede come gli chiedono la Costituzione  e il Codice Penale senza guardare in faccia nessuno”.

Mentre ci chiede di far finta che Caselli non sia Caselli, Travaglio ha costantemente bisogno di appellarsi alla sua figura e alla sua autorità morale per legittimarne l’operato, oggi sottoposto a critica su più fronti. Per Caselli vale l’ipse dixit, la parola dell’autorità. La sua figura, il suo giudizio non sono passibili di critica. L’espediente funziona perché conferma quel che fa finta di denegare. L’identificazione della persona con la sua funzione di potere, e di questa con l’istituzione massima è pressoché completa. Caselli fa quello che gli chiede lo Stato. In fondo, si postula inconfessabilmente, Caselli è lo Stato. E’ probabile che lui ci creda in tutto il suo essere. Ad ognuno le sue perversioni.

 

Questa maniera di argomentare fatta propria da un Travaglio nelle due obiezioni che gli muoviamo sottintende una cultura politica di fondo da battere, nemica dei movimenti e dei soggetti che si pongono sul piano della trasformazione. In fondo, quello che a Travaglio e Caselli dà fastidio è la pretesa dei movimenti di farsi soggetto attivo, l’avere mire e fini propri, il pretendere di essere protagonisti della trasformazione senza delegare il loro dire e soprattutto il loro fare agli specialisti del giudicare e dell’argomentare, rifiutare la condizione intellettuale come attività separata, per riappropriarla come capacità collettiva. E’ così che il nemico della mafie e del terrorismo e il fustigatore delle caste si trovano uniti nel difendere le sole due caste (effettive, reali, queste sì, incontestabili) che non ammettono di essere criticate perché si presuppongono neutre, necessarie, ineliminabili, quella del Magistrato e quella dello Scriba.


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