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Il Visuale ribelle. Una critica femminista alla produzione di immaginario

 

di ANNA CURCIO

Il corpo nudo di una giovane donna, di spalle, contro un muro: i capelli raccolti sul collo, la testa leggermente inclinata, quasi dimessa, le braccia la incorniciano. Bracciali da gladiatore ai polsi e una frusta di corda nella mano sinistra. Sulla schiena, fissato con dello spago, il fotogramma ingigantito di un uomo nudo anch’esso di spalle: è un vecchio, la testa china, incede mesto verso quello che potrebbe essere lo stesso muro contro il quale è appoggiata la donna. È «Gladiatrice», dell’artista austriaca Birgit Jürgenssen, che Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi hanno scelto come provocatoria immagine di copertina per il loro Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità (ombre corte 2012, pp. 123, euro 13). Un’immagine forte, nella sua ambivalenza, che annulla i confini tra vittima e carnefice, tra aggressività e fragilità. Il corpo femminile, al contempo dimesso e impetuoso, è al centro dello sguardo ma in una visione che blocca la stessa possibilità che il corpo possa essere visto. Vero e proprio schermo del potere, nel doppio significato del suo genitivo, il corpo femminile è insieme corpo che diventa schermo come spazio di esposizione e proiezione, ma anche corpo che si fa schermo ovvero dispositivo che blocca la visione.

Intorno a questa immagine scabrosa e conturbante Gribaldo e Zapperi puntano il fuoco della loro riflessione: vedere ed essere vista, ovvero il nodo vischioso, «instabile e conflittuale», tra immaginario e soggettività. E propongono una lettura della rappresentazione del femminile in Italia che rovescia le retoriche moraleggianti e normalizzatrici che hanno accompagnato gli scandali sessuali nel declino berlusconiano e il dibattito sul sessismo dei modelli di genere nella televisione.

Introducendo in Italia il dibattito femminista internazionale sul visuale, le autrici fanno piazza pulita dei richiami a un femminile autentico da contrapporre all’immagine «degradata» della donna: le «donne serie, professioniste e madri di famiglia» – che sono sempre bianche, di classe media, madri, mogli o sorelle – da una parte e l’immagine dei corpi rifatti e delle veline «disposte a tutto» dall’altra. Non si tratta di opporre reale e artificiale; non ci sono immagini appropriate e immagini sconvenienti del femminile. Gribaldo e Zapperi spiazzano proficuamente questa lettura e spostano l’attenzione sulla produzione dell’immagine e sui rapporti di potere che lo attraversano, insistendo sulla prospettiva della loro sovversione: «i corpi sessuati non sono dei semplici ricettacoli di dispositivi di potere, ma esprimono desideri, affettività, possibilità di trasformazione».

 

Ambivalenza dell’immaginario

L’immagine è un campo di battaglia in cui si scontrano e si definiscono desideri e soggettività, realtà e immaginario, la raffigurazione del femminile gioca un ruolo centrale nella stesa produzione del genere. Il rapporto con il visuale, allora, può essere agito per spezzare il potere dell’immagine sull’oppressione di genere. L’atto di guardare è contraddittorio e ambivalente, pone la spettatrice (in questo caso di fronte al femminile erotizzato) tra lo sguardo degli altri e lo sguardo di sé e la spinge a prendere posto all’interno di determinati rapporti di potere. L’esercizio sovversivo si forma come détournement dello sguardo, come rovesciamento e appropriazione dei dispositivi di potere che attraversano e costruiscono l’immagine.

Le autrici individuano giustamente l’immagine di un femminile erotizzato come strumento di controllo dentro i processi di emancipazione. Allo stesso modo leggono il richiamo alle «donne normali» o «per bene» nel più recente dibattito italiano, come legittimazione di un’analoga funzione di controllo o censura di rappresentazioni sessuali non normative e marginali. L’agire sovversivo si può dare solo come critica a una realtà o verità dell’essere donna, come possibilità di spostare lo sguardo verso una «pluralità radicale». In questo senso, Gribaldo e Zapperi mettono soprattutto a critica lo sguardo universalista di un certo emancipazionismo femmininile. E, dentro il solco aperto dal femminismo postcoloniale, muovono una critica radicale alla nozione di «donna» al singolare che non tiene conto delle differenze e di percorsi soggettivi che sono eterogenei.

Contestualizzare e storicizzare l’essere donna vuol dire anche produrre una lettura materialista della condizione di genere, cogliendo le implicazioni profonde di certi comportamenti e forme di vita. L’analisi della composizione di classe delle «lavoratrici» di Arcore che il volume propone rivela in modo più complessivo cosa può significare essere una giovane donna nell’Italia contemporanea. Non solo viene evidenziata l’instabilità delle linee di demarcazione tra veline e giovani migranti, escort e «ragazze immagine», aspiranti showgirl o pseudo-apprendiste della politica; sono al contempo descritte in modo paradigmatico le coordinate del lavoro contemporaneo, di un modello produttivo che mette al lavoro la vita intera, mobilitando il corpo, l’immagine, la capacità seduttiva e la stessa identità delle donne. E allora, il continuo richiamo a un modello normativo di donna per correggere la rappresentazione di un femminile erotizzato e mercificato risiede, dicono le autrici, anche in un «dato generazionale», cioè nell’incapacità di donne che sono cresciute e si sono formate politicamente dentro il modello di produzione fordista, di cogliere le implicazioni più profonde delle forme di vita precarie.

 

Un lavoro sessuato

Non si tratta di una lettura giustificatoria. È la necessità di calare nella materialità dei rapporti di produzione un discorso sulla gestione della sessualità femminile come trama dell’intreccio tra genere e potere nell’Italia contemporanea. A fronte di una vulgata che insiste sulla consapevolezza delle donne nell’utilizzare la propria sessualità per il conseguimento di fini specifici, ovvero in termini di autodeterminazione, Gribaldo e Zapperi riflettono sullo scambio sessuo-economico come dispositivo per eccellenza della subordinazione femminile. Non dunque una modalità, tra altre, per accedere a benefici di natura economica, politica o di status, ma una forma di relazione profondamente sbilanciata dentro rapporti produttivi segnati dalla precarietà. Più che di sessualità liberata si tratta di lavoro sessuale – e il lavoro è sempre sfruttamento; meri «resti» di una libertà sessuale reinterpretata in chiave neoliberista come attività all’interno del mercato, che svela l’impossibilità di fare coincidere la nozione di scelta con quella di libertà.

La libertà semmai risiede nella possibilità di una proliferazione critica di rappresentazioni che rompono lo sguardo normativo sul femminile e si confrontano con posizioni dissonanti: queer, antirazziste, postcoloniali. Si tratta, detto altrimenti, di bucare lo schermo del potere, oltre l’esposizione di un femminile erotizzato che diventa dispositivo di controllo, facendo al contempo saltare i blocchi che interrompono la visione delle differenze che attraversano il genere. E da qui, agire la sovversione dei rapporti di potere costruiti intorno al genere.

* Pubblicato su “il manifesto”, 3 ottobre 2012.

 

 

 

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