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In fuga dai nomi. Movimenti migratori e spazio metropolitano

 

di SANDRO MEZZADRA

1. Quando il padrone aveva un nome

L’anonimato Ë in fondo inscritto fin dalla sua origine nella forma della metropoli moderna. A Georg Simmel (Die Groflstadt und das Geistesleben, 1903) dobbiamo una delle analisi pi˘ suggestive del carattere impersonale degli incontri tra ìestraneiî che costituiscono il tessuto sociale della ìgrande citta’. La natura pervasiva dei rapporti sociali organizzati attorno alla mediazione del denaro, la divisione e la parcellizzazione del lavoro, la sincronizzazione dei tempi di vita producono uno spazio sociale sostanzialmente indifferente alla specificit‡ e all’individualit‡ dei ìnomiî, respinti nel dominio privato e domestico. Uomini e cose, scrive Simmel, sono trattati nella metropoli in base a un atteggiamento di ìmera neutralit‡ oggettivaî, un atteggiamento in cui ìuna giustizia formale si unisce spesso a una durezza senza scrupoliî.

Il saggio di Simmel Ë stato all’origine di molta letteratura critica sulla metropoli moderna, non di rado di orientamento schiettamente reazionario: basti pensare alle pagine dedicate al tema nel Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Lungi dal ìrendere liberiî, come voleva l’antico adagio tedesco (Stadtluft macht frei), l’ìaria della citt‡î pare piuttosto consegnare l’individuo, nella modernit‡ pienamente dispiegata, al dominio di potenti dispositivi di ìspersonalizzazioneî, riconducibili in ultima istanza al tratto oggettivo della mediazione dei loro rapporti operata dal denaro. Paura, opportunismo, cinismo sembrano sostituirsi alle tonalit‡ emotive ìcaldeî, agli incontri ìfaccia a facciaî che regolavano la vita sociale nelle comunit‡ ìtradizionaliî, per lo pi˘ ubicate nelle campagne.

Un altro grande protagonista della stagione della sociologia classica tedesca, Max Weber, aveva tuttavia avvertito nei primi anni Novanta dell’Ottocento (nei suoi studi sulla questione agraria nei territori prussiani a est dell’Elba) che, ad esempio, dietro il ìcaloreî delle relazioni personali tra il lavoratore agricolo e il suo padrone si celava lo spettro di una forma ìpatriarcaleî di dominio. E che questa forma patriarcale di dominio soffocava la soggettivit‡ del lavoratore, ne controllava in modo minuzioso ogni movimento, si infiltrava perfino nella sua casa e nella sua famiglia. Tanto che, a decine di migliaia, i lavoratori agricoli fuggivano dalle campagne, migravano verso le citt‡ o verso le Americhe, preferendo evidentemente la ìdurezza senza scrupoliî della metropoli alla dura scrupolosit‡ del signore terriero, il carattere ìoggettivoî del rapporto salariale e del dominio capitalistico alla personale ìresponsabilit‡î e all’arbitraria ìgenerosit‡î del padrone rurale.

Libert‡ andavan cercando, quei lavoratori agricoli che contribuirono potentemente con la loro migrazione alla configurazione e all’espansione dello spazio metropolitano moderno. E se pure, come Weber non mancava di rilevare, la ricerca di libert‡ si sarebbe mostrata ìillusoriaî (nel senso che la fuga da condizioni di dominio ìpersonaleî li avrebbe condotti a esporsi alle condizioni di dominio impersonale che costituiscono il modo di produzione capitalistico), quella fantasia di libert‡ sar‡ pur sempre una conquista, segner‡ la produzione di una nuova soggettivit‡ e potr‡ perfino essere, per citare ancora lo scienziato sociale tedesco, ìil primo inizio della mobilitazione per la lotta di classeî. A Weber, decisamente influenzato da Marx (sachlich Ë il termine che entrambi utilizzano per designare l’impersonale ìoggettivit‡î delle moderne relazioni di dominio, inscritte ìnelle cose stesseî), faceva cosÏ eco nel 1899 il giovane Lenin, nella sua polemica con i populisti: noi, si legge in Lo sviluppo del capitalismo in Russia, ìad onta della teoria populista, affermiamo che le ‘migrazioni’ di operai non solo presentano dei vantaggi ‘puramente economici’ per gli stessi operai, ma devono altresÏ essere considerate come un fenomeno progressivo in generale. [Ö] I contadini sono attratti all’emigrazione da ‘motivi d’ordine superiore’, cioË dalla vita apparentemente pi˘ progredita e pi˘ raffinata del pietroburghese; cercano d’andare ‘dove si sta meglio’î.

2. Spazi eterogenei

Possiamo assumere questo movimento di fuga da rapporti sociali improntati alla logica ìpersonaleî del patriarcato (nel senso assegnato al termine da Weber) come chiave interpretativa di una parte almeno delle motivazioni soggettive alla base dei moderni movimenti migratori? Ho spesso sostenuto questa tesi, a partire dal mio libro del 2001, Diritto di fuga. Si puÚ qui aggiungere che, per una parte consistente delle donne e degli uomini protagonisti delle migrazioni, la fuga in questione deve essere interpretata anche come fuga dai nomi che organizzano attorno a identit‡ fisse e prestabilite (appunto nominabili) il sistema dei ruoli e l’esperienza sociale. Per quanto potenti siano gli elementi di coazione, di cieca violenza, all’origine degli spostamenti di popolazione, la migrazione Ë comunque un campo ambivalente, in cui eterogenee pratiche di soggettivazione nutrono la ricerca di spazi ìanonimiî di libert‡ e di uguaglianza. Ancora, dunque, la migrazione si indirizza ìconcettualmenteî verso la metropoli, indipendentemente da quale sia la sua effettiva destinazione, Ë una potente forza soggettiva che produce metropoli (cosÏ come, del resto, nessuna metropoli – Barcellona o Buenos Aires, Londra o Kolkata – puÚ essere produttiva prescindendo dalla migrazione).

Le migrazioni contemporanee, con pi˘ forza rispetto al passato, producono continuamente nuovi spazi sociali e culturali, determinano anzi, per riprendere i termini utilizzati nel 1991 dall’antropologo Roger Rouse, una ìcartografia alternativa dello spazio socialeî. I tratti solitamente indicati dai sociologi per caratterizzare la peculiarit‡ e la novit‡ dei movimenti migratori di fronte a cui ci troviamo oggi – la molteplicit‡ delle direzioni seguite dai flussi, la femminilizzazione e diversificazione della loro composizione, la moltiplicazione dei modelli migratori, la distribuzione su una molteplicit‡ di spazi del senso di appartenenza dei migranti – convergono tutti nel produrre una profonda destabilizzazione del ìsenso del luogoî e contribuiscono ad accelerare il processo di rivoluzionamento delle coordinate geografiche che costituisce uno dei tratti precipui della ìglobalizzazioneî. I circuiti ìtransnazionaliî delle migrazioni svolgono ruoli essenziali nella circolazione a livello globale di cultura, merci, servizi: sono ben lungi dall’essere ambiti di cui si possa dare un’immagine idilliaca e ìromanticaî (al loro interno circolano anche corpi in ceppi, dispositivi di sfruttamento e modelli di dominazione), ma rappresentano comunque una ìrisorsaî attraverso cui una quota crescente di popolazione subalterna organizza oggi la propria esistenza – e talvolta le proprie forme di resistenza. Sono parte integrante, in ogni caso, della forma contemporanea della metropoli.

Lo spazio metropolitano, considerato attraverso il prisma dei movimenti migratori, si presenta dunque come profondamente eterogeneo. Ma al primo fattore di diversificazione che abbiamo menzionato (la continua produzione di spazi da parte degli stessi migranti), ne va aggiunto un secondo: la proliferazione di confini che dividono il territorio della metropoli, costituendo il segno (a volte visibile, a volte no) della disseminazione di dispositivi di sfruttamento, dominio e controllo. La rendita immobiliare e finanziaria produce continuamente no go areas per chi non ha la pelle del colore giusto e asseconda processi di ghettizzazione dal punto di vista abitativo; zelanti poliziotti si incaricano di presidiare i confini della cittadinanza, controllando documenti e costringendo a percorsi a ostacoli chi non li ha; centri di detenzione sorgono minacciosi, a ricordare a migliaia di abitanti della metropoli che vivono in una condizione di ìdeportabilit‡î; solerti ispettori vigilano sui confini che, in base alla nazionalit‡ o allo status di immigrazione, organizzano il mercato del lavoro.

L’esperienza sociale all’interno delle metropoli contemporanee – e in primo luogo l’esperienza degli uomini e delle donne migranti – Ë sempre pi˘ segnata da questo processo di moltiplicazione dei confini, che interviene a dividere lo spazio comune per organizzare i territori dello sfruttamento e della valorizzazione del capitale. Anche questo processo, comandato in primo luogo dalla rendita finanziaria e immobiliare, presenta tratti ìanonimiî, vorrebbe apparire come inscritto ìnelle cose stesseî. In ultima istanza, tuttavia, esso opera attraverso una logica identitaria, predispone cioË un sistema di incasellamento in identit‡ fisse corrispondenti ciascuna a un nome: in primo luogo, nelle metropoli occidentali, cittadini ìbianchiî (al cui interno vanno distinti i cittadini per bene e i marginali, categoria che ben si presta a comprendere in sÈ ìpoveriî e ribelli) e non; migranti ìlegaliî e ìillegaliî; ma poi subsahariani e maghrebini, senegalesi e marocchini, etc.

3. Movimenti del comune

Sotto il profilo dell’esperienza migratoria, tre momenti essenziali di costruzione dello spazio metropolitano sono stati fin qui identificati: in primo luogo, la spinta soggettiva che ho definito ìfuga dai nomiî configura la metropoli come spazio ìanonimoî di libert‡ e uguaglianza; in secondo luogo, la ìcartografia alternativa dello spazio socialeî prodotta dai movimenti migratori inscrive all’interno della metropoli processi di transnazionalizzazione e di diversificazione sociale, economica, culturale; in terzo luogo, il processo di moltiplicazione dei confini imprime il segno dello sfruttamento e del dominio sull’eterogeneit‡ dello spazio metropolitano, secondo una logica in ultima istanza identitaria. Va da sÈ che questi tre momenti vanno analizzati congiuntamente, rendendo conto cioË del loro operare simultaneo e delle tensioni che ne derivano: la logica identitaria sottesa alla moltiplicazione dei confini, ad esempio, si appoggia indubbiamente (in modo selettivo) ai processi di produzione e riproduzione di strutture comunitarie e di forme di appartenenza che caratterizzano il secondo momento identificato. Ma anche la spinta soggettiva alla ricerca di libert‡ e uguaglianza puÚ valersi (anche in questo caso selettivamente) di alcune di quelle strutture e di quelle forme, volgendole contro la moltiplicazione dei confini (per fare l’esempio pi˘ banale, quando reti di solidariet‡ ìetnicaî o ìparentaleî sono utilizzate come risorse che consentono di far fronte alla condizione di ìillegalit‡î).

A me pare che lo schema qui proposto possa render conto di alcune delle pi˘ significative tensioni – e dei pi˘ rilevanti fattori di ambivalenza – che contraddistinguono oggi il rapporto tra movimenti migratori e spazi metropolitani. CiÚ vale in particolare per quanto attiene ai piani dell’ìidentit‡î e della ìculturaî, a cui una riflessione sulla categoria di ìanonimatoî necessariamente riconduce. E’ nota la fortuna che negli ultimi anni, su questo terreno, ha avuto il termine ìmulticulturalismoî: filosofia politica, antropologia e sociologia sono venute accumulando una gran mole di ricerche teoriche ed empiriche attorno a questo termine, mentre proprio lo spazio urbano Ë stato assunto in molti casi come ambito privilegiato di sperimentazione di politiche ìmulticulturaliî. Va da sÈ, tuttavia, che il termine stesso assume significati molto diversi a seconda dei contesti e degli orientamenti teorici. Per semplificare, proporrei di distinguere un significato descrittivo e un significato normativo di ìmulticulturalismoî, aggiungendo che il primo mi pare assai pi˘ interessante e promettente del secondo. L’affermazione secondo cui viviamo oggi in una societ‡ (o in una citt‡) multiculturale, nel porre in evidenza il banale dato di fatto per cui all’interno di una stessa societ‡ (o citt‡) vivono donne e uomini di lingue, costumi e religioni diversi, porta una sfida al perdurante dominio di una determinata lingua, di determinati costumi, di una determinata religione – di una determinata cultura. Si colloca cosÏ, per riprendere il nostro schema, tra il primo e il secondo momento in precedenza richiamati, e apre un campo al cui interno l’analisi e la costruzione di pratiche di multiculturalismo ìvernacolareî (Paul Gilroy) possono porre le condizioni per una nuova libert‡ e una nuova uguaglianza, incardinate materialmente in processi di quotidiana esposizione al carattere incerto e aleatorio di ogni ìidentit‡î. Inteso come teoria normativa, ad esempio nelle proposte di filosofi politici come Will Kymlicka e Charles Taylor, il multiculturalismo si presenta invece come ricco di insidie, e in particolare Ë sempre costretto a rispondere a una domanda che lo spinge in pericolosa prossimit‡ con il terzo momento del nostro schema: ovvero, quali sono i confini che perimetrano l’appartenenza alle singole culture a cui dovrebbero essere attribuiti diritti?

A presidiare questi confini tra culture (a venerarne ossequiosamente il nome) possiamo trovare focosi imam, grigi notabili ìetniciî o volenterosi amministratori democratici: ma la loro (voluta o non voluta) alleanza non potr‡ che consolidare altri confini e altre gerarchie, attribuendo loro una qualche legittimit‡ ìcomunitariaî. Tanto pi˘ in un momento di crisi, come quello che stiamo vivendo, in cui Ë forte, per molti e molte migranti, la tentazione di cercare riparo dal razzismo dilagante e dalle difficolt‡ economiche nelle ìcaldeî reti comunitarie. Il prezzo di questo riparo, tuttavia, Ë troppo spesso la rinuncia alla ricerca di quella libert‡ e di quella uguaglianza ìsenza nomeî che continua a vivere nella trama soggettiva dei movimenti migratori. Solo la continuit‡ di un movimento di disidentificazione puÚ rimanere fedele a questa ricerca: ma non Ë compito che possa essere attribuito solo ai migranti quello di costruire le basi materiali di questo movimento, a partire da una reinvenzione e da una riappropriazione delle condizioni comuni della cooperazione e della vita sociale.

* Pubblicato in spagnolo in «Metropolis. Revista de información y pensamento urbanos», Num. 79, Verano 2010.

 

 

 

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