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Interstizi di praticabilità politica dell’immagine

 

di SIMONA DE SIMONI

Recensione a Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi (ombre corte 2012, pp. 123).

Di fronte alla mole impressionante di immagini femminili stereotipate e iper-sessualizzate che ogni giorno riempiono quotidiani, rotocalchi, tv, siti web, etc… etc… si provano sentimenti contrastanti. Spesso, tuttavia, le reazioni mainstream a questo stato di cose suscitano altrettanto sconcerto. La parabola politica di Berlusconi, conclusasi con gli scandali sessuali di palazzo e la formazione del movimento snoq ha esasperato quel malessere. Da un lato, infatti, l’esibizione parossistica del sessismo ordinario made in Italy e, per altro verso, il rinsaldarsi di un atteggiamento critico espunto di ogni radicalità teorico-politica e, talvolta, smaccatamente opportunistico. Ci si è trovati con le barzellette squallide da una parte e i paginoni pruriginosi di Repubblica dall’altra; con le dichiarazioni spiazzanti delle donne coinvolte nelle vicende di Arcore contrapposte alle parole d’ordine altrettanto problematiche degli appelli siglati snoq. Si è assistito al declino di un impero di volgarità e brutalità e alla sua istantanea redenzione attraverso la formazione di un governo del rigore e dell’austerity. Come a dire, Minetti e Carfagna vis Fornero e Cancellieri e il gioco è fatto. Le cose, ovviamente, non stanno così. Ma dal rifiuto della semplificazione all’articolazione di un discorso alternativo, al contempo potente e rigenerante, c’è un bel salto da compiere. Lo schermo del potere di A. Gribaldo e G. Zapperi fornisce lo slancio necessario!

 

Lo schermo del potere propone una riflessione articolata sul rapporto che intercorre tra cultura visuale in senso lato e genere. L’analisi prende le mosse dal contesto italiano senza tuttavia limitarsi alla reazione d’emergenza, esplicitando – al contrario – esigenze teoriche e politiche di portata generale, non riducibili a una situazione emergenziale. Il punto d’attacco della riflessione si può ricondurre a una presa di distanza nei confronti di un discorso diffuso e consolidato che considera la rappresentazione volgare e mercificata del corpo femminile semplicemente come falsificazione della realtà. Nel contesto italiano attuale questo paradigma si è imposto specialmente attraverso la rete snoq e trova una sorta di formulazione canonica nel documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne. Ridotto all’osso il teorema è il seguente: l’immaginario televisivo di matrice berlusconiana è una delle cause principali delle condizioni femminili in Italia poiché popolato soltanto da figure che nulla hanno a che vedere con le vere donne italiane. Su questo assioma – ampiamente discusso e problematizzato nel testo – si costruisce un discorso che accolla all’immagine caratteristiche esclusivamente negative, mentre il presunto referente reale si configura come un polo di pura positività rimossa.

Questo impianto discorsivo risulta tuttavia molto problematico. Le autrici, infatti, si soffermano sulla rilevanza epistemica e politica dell’immagine, sottolineandone la centralità nei processi di costituzione della soggettività: non esiste un soggetto come dato semplice e immediato, corredato di caratteristiche originarie e stabili, a cui l’immagine si sovrappone come copia fedele o infedele. L’immagine, piuttosto, è un elemento costitutivo nella formazione di ciò che rappresenta o che si auto-rappresenta. La posizione del problema nei termini vero/falso, dunque, viene presentata come del tutto inadeguata e politicamente minacciosa. Come mostrano ampiamente Gribaldo e Zapperi, infatti, la diade epistemica trascina con sé una contrapposizione normativa molto marcata tra un “reale buono” e un “fittizio cattivo” che rischia di confermare gli stereotipi piuttosto che metterli in discussione. La regressione in cerca del sostrato reale dell’immagine vera non può che tradursi nel conio di una presunta immagine femminile originaria, quale referente ultimo di verità e ammissibilità etica. La ricerca di un’immagine femminile autentica da contrapporre alla contraffazione mediatica non può che tradursi – di fatto – in una regressione all’infinito verso un’essenza del femminile esclusiva ed escludente. Lo mostrano chiaramente gli appelli snoq in cui la critica si riduce all’introduzione nel discorso pubblico di un secondo stereotipo, quello delle “donne italiane” presentate come un aggregato uniforme e fortemente normato e normalizzato: donne bianche, eterosessuali, di classe medio-alta e “monogenerazionali”. Se è certo che qualcuna possa riconoscersi in quest’immagine, è altrettanto certo che altre non possano e non vogliano farlo. Al contrario, come suggeriscono le autrici: «riconfigurare l’esperienza individuale all’interno di una dimensione collettiva (che è al contempo storica, sociale, specifica) potrebbe costituire un’alternativa possibile per lasciare da parte la questione di sapere quale sia una corretta rappresentazione delle “donne italiane”, e rivendicare invece proprio l’eterogeneità del femminismo – i cui soggetti non sono riconducibili né alla categoria “donna” né tanto meno a quella di “donna italiana” – come forza produttrice di differenza» (p. 69).

 

Seguendo lo schema argomentativo del testo, la critica a una concezione dell’immagine come copia e norma risulta propedeutica alla reimpostazione del problema tramite il riconoscimento del valore produttivo delle immagini stesse nella materializzazione del genere. Chiamando in causa alcune tra le maggiori teoriche femministe, le autrici riconducono l’immagine alla categoria più ampia di “tecnologia del genere”, fattore produttivo di soggettività in cui si intersecano diversi assi della differenza quali, ad esempio, genere, razza e classe. L’operazione consente di collocare il problema della rappresentazione in un terreno attraversato da rapporti di potere ben definiti entro cui si muovono i soggetti: l’immagine femminile – lo schermo del potere evocato dal titolo – si rivela così essere uno spazio ambiguo su cui le gerarchie si riflettono e in cui, al contempo, possono venire capovolte e ridefinire. In questo modo la dinamica binaria tra “donne vere” e “immagini false” risulta sopravanzata e sostituita dalla considerazione di relazioni molteplici tra soggetti, desideri, bisogni e rappresentazioni calate in un contesto politico e sociale determinato. Cosa vogliono le immagini da me? Questa, infatti, la domanda che segna il mutato punto d’attacco della critica e  interpella i soggetti non solo in qualità di oggetto della visione altrui, ma in quanto portatori di uno sguardo proprio.

La tensione tra il guardare e l’essere guardata costituisce il nocciolo dell’esperienza visuale femminile che Gribaldo e Zapperi ricostruiscono anche in prospettiva archeologica. Grazie a quest’operazione, vengono riconosciute alcune strutture discorsive ricorrenti nella cultura visuale occidentale. Il nesso donna-merce, ad esempio, è ricondotto al cuore della modernità capitalistica quando un “femminile pietrificato” viene mobilitato per accendere il desiderio e direzionarlo sulla merce a cui il corpo ha ceduto la vita. Allo stesso tempo la peculiarità dell’immagine femminile viene messa in relazione con la genesi di una “tecnologia della visione” di matrice coloniale e positivistica che si approccia alle differenze in modo puramente tassonomico, allestendo una sorta di “zoo delle differenze” dai forti connotati razzisti e sessisti. In questo processo di produzione dello sguardo, l’alterità in quanto tale va costituendosi come posizione subalterna rispetto a un “io-vedo” posto in posizione rigorosamente normativa. Lungi dall’essersi esaurita, la marca di questo sguardo viene rinvenuta nel multiculturalismo contemporaneo che procede per conservazione-marginalizzazione di differenze pietrificate le une sulle altre. Per dirla con le autrici, «le differenze sono accettate nella misura in cui sono ricondotte nell’alveo loro assegnato da precisi rapporti di potere» che, alternativamente, le confina nel regno dell’esotico o della minoranza ammessa (p. 43).

 

L’approccio archeologico consente di approfondire i nessi tra gli stereotipi, le immagini e la  produzione gerarchizzante e diffusa di differenze. Entro questa cornice, come rispondere, situandola nel qui ed ora, alla domanda: cosa vogliono le immagini da me? In che modo, ad esempio, l’immagine parossismo-parodia della velina interpella una giovane donna nell’Italia contemporanea? L’ipotesi convincente formulata nel testo invita a riconoscere in qual misura – lungi dall’essere mera falsificazione – essa si rivolga ai soggetti entro un contesto produttivo in cui la cooptazione del corpo, del desiderio, delle aspirazioni e della giovinezza diventa centrale. A ben vedere, infatti, l’immagine di un sé (eventualmente anche a pezzi) come bene di cui disporre sul libero mercato non costituisce in alcun modo una falsificazione che offusca il vero, ma, al contrario, ciò che ogni giorno è richiesto sul mercato del lavoro in cambio di un reddito o anche soltanto di una promessa di reddito. Con le parole delle autrici: «la velina e la “ragazza-immagine” sono in un certo senso l’incarnazione spettacolare di un corpo-macchina su cui i soggetti investono ambizioni e desideri [dove] l’investimento va inteso alla stregua di un’operazione finanziaria capace di produrre reddito» (p. 52).

L’equivoco da dissolvere, se mai, consiste nella sovrapposizione mistificante tra la libertà di disporre di sé e l’ingresso nel libero mercato delle prestazioni lavorative, siano esse sessuali o di qualsiasi altra natura. In questa luce anche le dichiarazioni delle lavoratrici di Arcore – escort e “ragazze-immagine” dalle provenienze sociali più disparate – smettono di disorientare in quanto ricondotte allo schema dello scambio sessuo-economico, uno schema “ancestrale” che nulla ha a che vedere con l’esercizio di una sessualità libera. Tutto al contrario, l’adesione indiscussa alle logiche del libero mercato, la rimozione di ogni asimmetria di potere e la naturalizzazione della sessualità secondo cui l’uomo desidera e la donna concede strategicamente hanno determinato l’economia sessuale del berlusconismo da intendere come fase di una violenta reazione contro l’autonomia dei soggetti e restauro di una sessualità iper-conforme.

 

Cosa vuole, dunque, l’immagine se si prova ad osservala sotto la prospettiva suggerita dal testo? L’immagine vuole che io sia come lei, e – con buona pace di chi non voglia comprenderlo o accettarlo – le somiglio moltissimo, sono presa dentro la somiglianza. Ma, nello scarto tra somiglianza e identità si gioca una partita straordinaria tra assoggettamento e soggettivazione. La linea tracciata da Gribaldo e Zapperi conduce proprio a questo interstizio di praticabilità politica dell’immagine, assegnando al femminismo a venire un compito aperto, da assolvere in forme di volta in volta parziali e polemiche. Buona lettura!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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