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Nell’autunno degli Stati Uniti – Intervista a Bruno Cartosio

 

di RADIO UNINOMADE

Partiamo da un chiarimento: pur con un profilo particolare, Obama è per certi versi un pollo di batteria del partito democratico. É dunque difficile parlare di delusione rispetto a quello che ha fatto o non ha fatto, perché ciò è già inscritto nel suo dna politico. Il punto è vedere quanto i soggetti sociali che hanno cercato di utilizzare Obama (neri, latinos, ceti medi precarizzati, ecc.) possano passare all’incasso, forzandolo o rovesciando gli interessi di cui è espressione. Ora questi soggetti più che votare democratico, hanno votato contro la minaccia repubblicana. Da questo punto di vista, nel passaggio dal “we can” al “turatevi il naso”, tu come valuti i risultati elettorali e che prospettive si aprono?

Non c’è dubbio che la scelta eventuale di una presidenza Romney sarebbe stata disastrosa. Il punto importante è: disastrosa per chi? Disastrosa per le cosiddette minoranze etniche, disastrosa per la stragrande maggioranza della popolazione che sta in quell’80% che si trova a condividere il 15% della ricchezza delle famiglie americane, mentre invece il 20% gode dell’85% di quella ricchezza. Ecco, Romney sarebbe stato un disastro per questa gente. Obama è la loro salvezza? Non è esattamente così, ovviamente. Tuttavia, non c’è dubbio che se la si mette dal punto di vista del male, Obama è il male minore; se la si mette dal punto di vista di una qualche prospettiva di miglioramento della condizione sociale, Obama e la sua amministrazione sono comunque una possibilità di essere piegati alle esigenze di quello che Occupy ha definito il 99%. Questo è un dato di fatto reale, perché Romney certamente non sarebbe stato tutto questo. Quindi, l’esito di questa tornata elettorale è comunque positivo, con o senza virgolette. Ed è positivo anche dal punto di vista della composizione sociale di chi ha votato per Obama. La percezione e la valutazione soggettive di chi ha votato per Obama sono chiaramente indicative di una scelta a propria difesa, cioè di quei pochi interessi che chi non ha nella società statunitense di oggi è costretto ad arrabattarsi per difendere. Le minoranze afro-americana, ispanica e asiatico-amaricana hanno votato in percentuali altissime per Obama. Gli afro-americani più o meno come quattro anni fa; i latinos hanno votato molto di più a suo favore e la stessa cosa hanno fatto gli asiatici.

Il voto dei latinos è stato forse uno degli elementi determinanti…

Assolutamente. Dal punto di vista dei latinos, quella legge che si chiama “Dream Act” e che permette ai figli degli immigrati di acquisire la cittadinanza per il fatto di essere nati o di essere andati a scuola negli Stati Uniti, è comunque un fatto di grande importanza e quindi gli ispanici hanno votato per questo. Le donne bianche hanno votato in maggioranza a favore di Romney; le donne in generale, quindi incluse quelle delle minoranze, hanno votato per Obama. Le madri di famiglia hanno votato a favore di Obama. Ad esempio le donne lavoratrici, che sono soprattutto quelle delle minoranze e che votano per Obama, lo fanno perché a lui si deve quella legge intitolata Lilly Ledbetter sulla parità salariale: sarà poco rispettata, ma tuttavia esiste.

Allora, nonostante tutto, cioè nonostante le resistenze interne al proprio partito e l’opposizione radicale, rigida e miope dei repubblicani in un Congresso diviso e che rimane diviso, Obama qualcosa è riuscito a fare. Meno di quello che avrebbe dovuto e che forse avrebbe potuto, ma alcune delle cose che ha fatto risultano significative per alcuni gruppi sociali e hanno portato al loro voto in suo favore. Anche a proposito delle minoranze di genere, gay e lesbiche, il loro appoggio deriva da quello che Obama è riuscito a fare. Non è certamente la rivoluzione, Obama non è Lenin nel caso che qualcuno avesse sognato una cosa di questo genere, ma alcune delle cose che incidono sui rapporti sociali sono riuscite a passare durante i primi quattro anni della sua presidenza.

Nel suo discorso dopo la vittoria Obama ha fatto continuo riferimento alla classe media contro i poteri finanziari che stanno prevalentemente con Romney (per quanto il presidente americano si sia ben guardato dall’attaccarli nei quattro anni precedenti). Questo richiamo è curioso e interessante, perché proprio quella classe media immaginaria è stata travolta da un definitivo processo di declassamento e precarizzazione. C’è qui un tentativo di far rivivere retoricamente un sogno americano irreversibilmente tramontato nella crisi economica globale e, prima ancora, in quello che tu già negli anni ’90 definivi l’autunno degli Stati Uniti…

Sono totalmente d’accordo. Il grande depositario del sogno americano negli Stati Uniti è la classe media. Quando si dice classe media, tuttavia, si fa riferimento a qualcosa che – per usare le parole di un sociologo, Norman Birnbaum – sta tra chi ha l’aereo personale e chi vive in condizioni di povertà. É cioè una definizione larga che raccoglie tutto quell’insieme che va dalla classe operaia una volta solida, con un’occupazione sicura, alle fasce di reddito che garantiscono l’essere benestanti. Allora, è proprio questa figura complessiva – più ideologica che sociologica – a cui deve fare riferimento un presidente che non è astrattamente populista, ma che cerca un elettorato ampio per la rielezione. La classe operaia non è più quella di una volta perché ha perso la sicurezza del lavoro, tuttavia ideologicamente molti pensano ancora che la crisi attuale sia contingente e che quindi, con l’inizio della ripresa, si ritornerà a una situazione di stabilità occupazionale e di alti salari. É un’illusione, perché lì non ci si torna più, ma ideologicamente questa prospettiva è ancora in grado di fare presa. E Obama naturalmente gioca su questo. Un altro aspetto è la progressività del carico fiscale. La classe media è stata fregata da Bush e dalle sue riforme fiscali, che hanno abbassato le aliquote dei ricchi e hanno mantenuto le aliquote della classe media. Quindi, il richiamo alla classe media e a una riforma fiscale che reintroduca la progressività nelle aliquote è di nuovo un elemento di richiamo. E così via. Giocare su questa categoria così ampia e generica ha un richiamo che, come dicevo prima, è soprattutto ideologico.

Inoltre, c’è il tentativo anche di piegare a proprio vantaggio una parte dei discorsi che il movimento di Occupy ha fatto diventare senso comune, ha imposto all’agenda politica. Ha imposto anche ai media di parlare della disuguaglianza sociale, che è cresciuta in modo spaventoso nell’ultima quindicina di anni e ha toccato proprio la classe media, nel senso a cui facevate riferimento voi prima, cioè con la compressione della classe media verso il basso. Allora giocare nel discorso politico su questi elementi vuol dire toccare le sensibilità di quei movimenti sociali che il discorso di Occupy è riuscito a mobilitare, emotivamente e ideologicamente. Certamente le simpatie che Occupy è riuscito a coagulare intorno a sé sono state infinitamente più ampie delle dimensioni che il movimento in quanto tale ha avuto. Gli occupanti e i partecipanti agli accampamenti sono stati relativamente pochi, anche se è stato un fenomeno nazionale; ma il numero delle persone che sono state sensibilizzate e che hanno verificato sulla propria pelle la pertinenza dei discorsi sulla disuguaglianza di Occupy sono state centinaia di migliaia. Obama ha giocato su questa sensibilità che è diventata più acuta su questi temi, quindi sulla classe media.

Potremmo dire che la classe media è l’America, e lui gioca su questo. Tanto è vero che nel primo dei dibattiti Romney ha cercato di rovesciare le proprie posizioni togliendo il discorso sul lavoro, sull’occupazione e sulla classe media a Obama, spiazzandolo, facendolo restare un po’ fulminato da questa novità. Poi ha smesso di farlo perché non è il suo discorso ed è invece il discorso di Obama per le ragioni che dicevo prima.

Ci troviamo ora con una situazione per certi versi in continuità con quella degli ultimi due anni, con un Congresso spaccato. Obama ha però dovuto indebitarsi nuovamente e ulteriormente con i soggetti sociali che, turandosi il naso, l’hanno votato per scongiurare il pericolo repubblicano. Soprattutto, ha fatto irruzione il movimento Occupy. La politica interna e in particolare i temi del welfare e del lavoro sono stati centrali nella competizione elettorale, e anche questo mostra l’importanza che ha avuto Occupy di imporre la propria agenda politica, costringendo in qualche modo tutti a tentare di seguire e catturare i discorsi del “99%”. La politica estera è rimasta invece sotto traccia, probabilmente perché né Obama né Romney (che ha provato qualche sparata, subito rimangiata) sanno che pesci prendere rispetto alle strategie di gestione della fine dell’egemonia americana. Che prospettive vedi?

Sul piano della politica interna Obama a questo punto non ha più alibi. I tentativi di attuare una politica bipartisan a cui è rimasto affezionato e a cui ha fatto di nuovo riferimento, sono destinati o al fallimento. Non ha più bisogno di fare molte verifiche su questo terreno: farà una proposta sulla creazione di posti di lavoro e sul ritorno a un’imposizione fiscale progressiva e vedrà se i repubblicani ci stanno o non ci stanno, avendo una verifica immediata. A quel punto dovrà scegliere se tornare sui suoi passi ulteriormente e allargare il terreno del compromesso con i repubblicani oppure andare a uno scontro, giocando sul rendere pubblica – come ha fatto in alcuni casi nell’ultima parte del suo primo mandato – l’ostilità dei repubblicani e quindi il loro attacco agli interessi della maggioranza della popolazione, mettendoli così in difficoltà. Queste sono tutte dinamiche parlamentari, però non ha più alibi, non ha più scelte: o allarga i compromessi, o mette in atto una politica di scontro.

I repubblicani sono indeboliti rispetto al primo mandato di Obama, perché hanno verificato che nonostante la quantità enorme di soldi che hanno impegnato in questa campagna elettorale non sono riusciti a vincere. Quindi, o abbassano i toni e rientrano su posizioni più moderate e disponibili al compromesso, oppure se arrivano allo scontro sanno di non poterlo vincere. Si crea allora una situazione difficile per entrambi i partiti.

Del resto i repubblicani sono frantumati al proprio interno, sotto il ricatto di un tea party che esce ridimensionato…

Il tea party esce appunto ridimensionato, al pari di figure come quella di Karl Rove, che era il mentore di George W. Bush e che ha creato due super-pac che hanno investito centinaia di milioni di dollari per fare eleggere Romney e contro Obama. Hanno fallito, quindi le posizioni del tea party e di figure come Paul Ryan o di alcuni concorrenti di Romney per la candidatura si indeboliscono, dunque i repubblicani dovranno per forza retrocedere dalle posizioni estremistiche e scendere a una politica più disponibile nei confronti dei democratici.

Questo è però lo scenario della politica parlamentare. Socialmente Occupy Wall Street è rientrato un po’ nei ranghi ma non è scomparso: è una presenza che rimane vigile, è entrata in una dimensione più carsica però continua a esistere a livello nazionale. Il mondo sindacale ancora aspetta una riforma del diritto sindacale che permetta di organizzarsi nelle fabbriche senza gli ostacoli che sono stati frapposti negli ultimi quindici anni. Beh, Obama dovrà pagare qualcosa a queste due componenti, perché sono state quelle forti del suo successo. Quindi, dovrà scegliere se muoversi nelle direzioni che queste componenti sociali si aspettano oppure no. A questo punto, non avendo più il problema di una rielezione, dovrà anche essere disponibile a entrare un po’ più pesantemente sui terreni a favore di queste componenti sociali.

Sul piano internazionale, a parte la questione dell’Afghanistan dove comunque è previsto il ritiro, le altre questioni riguardano il Medio Oriente e soprattutto lo stato palestinese, quindi una modifica della politica fin qui avuta a favore di Israele. Ammettendo che non abbia potuto appoggiare lo stato palestinese l’anno scorso per ragioni elettorali, beh, adesso quelle ragioni non ci sono più: ora si vedrà se la sua politica mediorientale è orientata davvero a favore di un riequilibrio della situazione israelo-palestinese oppure no. Dall’altra parte c’è la politica di multilateralismo che ha imboccato e che credo abbia intenzione di mantenere: il caso della Libia e dell’intervento contro Gheddafi sarebbero un indicatore in quella direzione. Ma questo pone dei problemi anche all’Europa e alla sua politica estera che non c’è, cioè apre tutta una serie di scenari che in questo momento è difficile analizzare.

* L’intervista è andata in onda nella trasmissione di Radio UniNomade di mercoledì 7 novembre 2012.

 

 

 

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