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Intervista a Maurizio Landini

 

di SALVATORE COMINU e RAFFAELE SCIORTINO

Dopo il referendum, preso atto dell’importanza dello sciopero del 28 gennaio, si pone un problema: come si lotta contro l’attuazione di questo accordo e più in generale contro quest’attacco generalizzato al lavoro dei più? Come si agisce dentro e fuori le fabbriche? Sarà possibile, secondo il tuo punto di vista, lottare dentro le fabbriche contro l’attuazione pratica di quest’accordo? Infine, la questione cruciale delle alleanze sociali: in che forme riusciamo, per citare il tuo intervento, a “durare un minuto in più del padrone”?

Io penso che il diritto alla contrattazione si difende praticandolo. E la ragione dello sciopero generale che coinvolge il resto delle categorie nelle fabbriche è proprio per mandare questo messaggio. E quindi per fare accordi nelle imprese italiane che mantengano il contratto nazionale, che riconoscano ai lavoratori il diritto di eleggere i rappresentanti e di poter contrattare tutti gli aspetti della condizione lavorativa. In Fiat la situazione é un po’ più difficile ma il segnale che vogliamo dare é che per noi la vertenza é aperta, quindi  gli accordi che sono stati imposti dalla Fiat li impugneremo sul piano legale -  e anche questa mi sembra una cosa normale, lo facciamo in ogni fabbrica che non applica il contratto, che non rispetta la costituzione e viola delle leggi e se c’é bisogno andiamo anche di fronte ai giudici. E poi andremo a discutere insieme ai lavoratori quali sono le forme più opportune per continuare la nostra presenza dentro la fabbrica, con tutti gli strumenti che riterremo più opportuni in termini anche di mobilitazione. É chiaro che quello che sta avvenendo richiede un’analisi concreta. Ciò che le forze sociali e politiche hanno di fronte é il tentativo della Fiat di imporre un modello che in Italia, ad oggi, non esiste. Un modello di sindacato che é solo corporativo e aziendale e dove la contrattazione non c’é perché c’é solo il comando unilaterale dell’impresa. Io credo che questo non sia un modello accettabile per nessuno, perché se si applica in Fiat  lo si estende in realtà in tutti i luoghi di lavoro e in tutta la società, e credo che il punto di riflessione che le forze politiche devono fare é proprio questo. Questo naturalmente pone anche la necessità di ragionare su quello che può essere un modello alternativo, sociale, di sviluppo perché la critica va costruita in modo ancora più forte di come abbiamo fatto finora. Ed é una critica che coinvolge il tema del come si produce; il tipo di prodotti, la loro sostenibilità ambientale, bisogna ripensare il modello di produzione, il modello di sviluppo e dentro questo la qualità del lavoro. Questa é l’analisi, io credo che quando si ricercano le alleanze sociali bisogna ritornare tra virgolette ad una “centralità del lavoro”, ed anche dell’analisi dei processi sociali in cui all’interno vi sia questa dimensione, che invece in questi anni é sparita. Se siamo in questa situazione di difficoltà e di fronte al tentativo da parte di Fiat, governo e Confidustria di utilizzare la crisi, é anche perche sul piano culturale in questi anni sono passate altre cose, che hanno cancellato e svalorizzato sotto ogni punto di vista il lavoro. Ed allora l’alternativa si costruisce a partire da questi processi.

Oltre il terreno sindacale classico nelle fabbrica é necessario recuperare un rapporto di forze favorevoli nei territori. Come incide e come inciderà questo sulla forma sindacale a venire, e quindi sulla stessa Fiom?

Io penso che occorra assumere la democrazia come punto di fondo.Per me questo vuol dire arrivare a ottenere, come a suo tempo fu ottenuto lo Statuto dei Lavoratori, il diritto di poter votare e poter eleggere i propri delegati senza garanzie precostituite per nessuno, in modo da poter misurare veramente la rappresentatività e la rappresentanza di ogni organizzazione sindacale, e dell’altro quello di mettere in capo ai lavoratori il diritto di poter votare sugli accordi – a qualsiasi livello e sempre. Questo credo che sia un terreno nuovo, che introduce anche un elemento di novità nella pratica e nella cultura sindacale, perché l’unità sindacale (che io continuo a pensare che sia un obiettivo da perseguire) lo vedo come un diritto dei lavoratori, che si può realizzare in presenza di posizioni diverse, con regole democratiche che impediscano gli accordi separati e l’uso delle divisioni contro i lavoratori.

Intorno a questa vertenza si é creata un’ampia mobilitazione sociale, di persone e gruppi sociali spesso molto distanti dalla condizione operaia, ma che hanno individuato nell’attacco della Fiat, per così dire, “la madre di tutti gli attacchi” alle condizioni di vita e di lavoro, anche delle persone per cui la possibilità stessa della contrattazione non è data. Ci sono state importanti aperture della Fiom su un obiettivo, il reddito di cittadinanza, che tradizionalmente non appartiene al sindacato. Pensi che questo possa essere un terreno di incontro tra differenti “frazioni di classe”?

Sì, a patto che l’idea non sia quella per cui, con il reddito di cittadinanza, lascio le cose come sono, li pago ma li lascio precari … a me questa cosa non convince. E quindi penso che, poiché la precarietà e la frantumazione dei processi lavorativi é una delle condizioni dello sviluppo capitalistico odierno, debbo agire per modificare quel tipo di sviluppo. Quindi  il superamento della precarietà lo vedo soprattutto nel promuovere un altro modello di sviluppo. Poi mi rendo conto che nel quadro di una riforma dello stato sociale, del nostro modello sociale, noi dobbiamo affrontare anche temi che finora non abbiamo affrontato. Io, in particolare, se parlo di reddito di cittadinanza penso a due condizioni: 1) sostenere quelli che studiano, in modo da poter dare a tutti il diritto, a prescindere dalla loro condizione – parto anche qui da un punto di vista di classe, perché penso che un operaio nelle condizioni attuali non può fare studiare suo figlio e questo lo trovo un elemento ingiusto che va affrontato. 2) Se penso come affrontare ed estendere gli ammortizzatori sociali a chi oggi non li ha, penso a una dinamica che possa prevedere delle forme che sono definite come un sostegno nei percorsi di formazione, di ricollocazione, dentro un quadro che però veda un superamento delle forme precarie del lavoro. Dopodiché, in senso generale, ragiono sul fatto che occorra aprire una discussione che ponga un problema anche di cambiamento … cosa é oggi il prodotto, bisognerebbe proprio aprire una discussione di fondo su cosa é oggi il prodotto: cos’é che si vende, quali sono i modelli sociali, quali sono i prodotti sostenibili? Questo vale anche per il Suv,  faccio sempre esempi metalmeccanici, dove il prodotto non può più essere l’auto, deve essere la mobilità, quindi occorre pensare a prodotti che siano riciclabili, pensare anche ad altri stili di vita, a come costruire le città, la pianificazione e la tutela del territorio, quindi credo che pensare un altro modello di sviluppo significhi agire su una serie di elementi che hanno questa dimensione, e io penso che senza un intervento pubblico questi processi non siano attivabili; in questo quadro mi rendo conto che significa un cambiamento molto radicale. Non credo che regolando un po’ meglio il mercato si risolvano i problemi, credo che debbano esserci dei vincoli sociali che dal contratto alle leggi, alla qualità dello sviluppo e della sua sostenibilità diventano vincoli anche per le imprese.

Per tornare alla vicenda Fiat, non pensa la Fiom che dietro la strategia Marchionne ci sia proprio la decisione di un riposizionamento al ribasso della produzione industriale in  Italia, ovvero della collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro?

Assolutamente sì. Penso che una cosa di quel genere porti a competere con la Polonia e la Serbia, non con la Francia e la Germania. Inoltre penso che l’obbiettivo, in questo caso non della proprietà che in questo momento sta pensando ad altro ed ha dato mandato integrale all’amministratore delegato, sia quello di diventare proprietari della Chrysler, e questo significa un depotenziamento delle attività  produttive italiane, perché la testa diventa Detroit, le nuove produzioni le faranno là e qui si rischia di diventare una provincia dell’impero. E, in questo caso, trovo che questa discussione nella politica, nel governo e nelle forze sociali non é stata fatta, e il fatto che Marchionne si sia sempre rifiutato di spiegare il suo piano industriale e nessuno abbia detto che ciò non é possibile, la trovo una cosa che succede solo in Italia. Vorrei ricordare che quando Marchionne é stato in Germania, quando voleva comprare la Opel, è stata la Merkel a dirgli no.

Nel tuo intervento hai fatto riferimento al fatto che nel resto dell’Europa, nelle mobilitazioni contro gli effetti della crisi, le organizzazioni sindacali si sono presentate unite, a differenza di quanto accade in Italia. Qual’è l’anomalia italiana?

Credo che in Italia la diversità che si é aperta sia proprio di modello sindacale. Per schematizzare c’é chi pensa che non é più possibile un modello di contrattazione come lo abbiamo conosciuto e che quindi il sindacato debba diventare un soggetto che da dei servizi ai lavoratori attraverso anche un’estensione della bilateralità fino alle assunzione, alla formazione. Credo che la diversità italiana anche rispetto ad altre situazioni europee sia fondata su questi aspetti. C’é un cambio di natura anche del sindacato. La confindustria e il governo italiano hanno una strategia precisa, basta andare a leggere quello che aveva scritto Maroni nel 2001, nel libro bianco. Stanno facendo esattamente quello che avevano detto dieci anni fa’. Quindi c’é un’idea precisa di modello sociale e su questo punto sono riusciti, mi permetto di dire, a creare anche delle divisioni’. La novità mi pare della Fiom, di quello che sta succedendo e della Cgil che non ha ceduto a questo quadro, sia quella di tenere aperta una possibilità e una soluzione diversa a questo problema.

 

 

 

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