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Introduzione Seminario Impresa e Soggettività

 

di SALVATORE COMINU

Nel percorso di progettazione di questo seminario si sono intrecciati e sovrapposti più livelli che non è facile tenere insieme. Un primo livello attiene ad alcune domande di fondo sul capitalismo contemporaneo e sul rapporto capitale-lavoro per come si è riconfigurato negli ultimi decenni. Le nostre domande e problematizzazioni, in specifico, precipitano sul tema dell’impresa, o meglio su cosa sia oggi l’impresa e soprattutto sul perché sia utile tornare a parlarne. Il secondo livello attine all’inchiesta come strumento politico. Il seminario si prefigge l’obiettivo di fornire una griglia metodologica per l’inchiesta (laddove metodologia significa anzitutto ipotesi politica che sorregge la ricerca e ne definisce le domande, il campo, il dove e con chi farla). Le prime due sessioni del seminario, più precisamente, vorrebbero essere propedeutiche alla terza sessione, dedicata alla discussione e progettazione di alcuni percorsi d’inchiesta militante – ce ne sono alcuni in progettazione, altri potrebbero aggiungersi.

Perché torniamo a parlare di imprese? O meglio, perché pensare l’inchiesta partendo dalle imprese – luoghi apparentemente inoperosi dal punto di vista dei processi formativi di soggettività e conflitto? Credo che per rispondere a questa domanda sia utile compiere un passo indietro, e porci il problema di cosa intendiamo oggi con impresa, entrando nel merito delle questioni da porre ai relatori, che peraltro si trovano già stilizzate nel programma pubblicato sul sito.

Cominciamo con una banalità, per noi l’impresa non è la singola ragione sociale, né qualcosa di demarcato necessariamente da mura fisiche. La individuiamo piuttosto come management di economie di rete e di apprendimento. Le imprese, difatti, mettono al lavoro (catturano) o si appropriano dell’opera di una molteplicità di soggetti, di prestazioni e “attività” che perlopiù non organizzano direttamente – filiere produttive, sistemi di sapere e di cooperazione interni, ma soprattutto esterni all’azienda intesa in senso tradizionale. E’ proprio questa duplicità – detto rozzamente – tra il dentro e il fuori, che definisce la specificità dell’impresa nel capitalismo dei giorni nostri. E questa duplicità definisce anche lo spazio di formazione delle soggettività.

Non parliamo solo di impresa privata. Da decenni registriamo un evidente isomorfismo tra organizzazioni pubbliche e private. Le istituzioni del welfare, il sistema formativo, le aziende di servizi pubblici, tendono a funzionare con modalità, schemi, forme organizzative, valori del tutto simili a quelli delle imprese private. Il pubblico, in breve, è sempre più new public management, con criteri di razionalità, efficienza e valutazione mutuati dal privato. Al di là di chi sia materialmente il gestore: per noi imprese sono anche le aziende sanitarie, le public utilities, le università.

Terzo punto, l’impresa la vediamo come snodo tra diversi modi dell’accumulazione e diverse modalità di organizzare la cooperazione sociale. In particolare, abbiamo focalizzato l’attenzione su due grandi processi di trasformazione intervenuti negli ultimi decenni.

1) Il primo attiene alla transizione da un capitalismo di tipo industriale ad un capitalismo di tipo cognitivo. Con industriale non ci riferiamo ovviamente alla sola produzione di manufatti, così come con capitalismo e/o lavoro cognitivo non parliamo esclusivamente di attività knowledge intensive. Ai fini del nostro discorso, l’aspetto cruciale è un altro. Distintivo del capitalismo industriale, al di là di cosa produceva (e produce) è l’eterodirezione del lavoro, il fatto che l’impresa (il capitalista o il management al suo servizio) prescrive la cooperazione sociale, predispone e organizza i fattori di produzione, laddove il lavoro è inserito in una griglia predefinita di mansioni e operazioni. Questo capitalismo ha progressivamente lasciato spazio – per una serie di ragioni peraltro note e che sarebbe lungo ripercorrere –  a una modalità di produzione basata sul lavoro cognitivo di cui elemento essenziale, a prescindere da cosa si produce, è il progressivo autonomizzarsi della cooperazione sociale. Nel capitalismo cognitivivo, diciamo, i mezzi di produzione sono tendenzialmente incorporati nel lavoro vivo. Anticipo una possibile – e scontata – obiezione. Lo sfruttamento industriale è tutt’altro che scomparso. I creativi della Apple avranno sempre bisogno di una Foxconn, dall’altra o in questa parte del mondo, che produca i supporti elettronici e fisici dei nuovi media, con impressionanti livelli del tutto “tradizionali” di sfruttamento. Né si può dire che il lavoro nel capitalismo fordista fosse esclusivamente prestazione fisica e manuale (semmai si può dire che i padroni pagavano solo le mani, pure utilizzando anche altre facoltà umane). D’altra parte molte attività di servizi, anche qualificate e incluse nel cosiddetto “terziario superiore”, sono sovente organizzate in forme assolutamente prescrittive e serializzate. L’obiezione è quindi legittima, ma non nega in sé la validità della tesi del passaggio al capitalismo cognitivo: questo è avvenuto, sebbene in questo regime di accumulazione convivano e s’ibridino diverse modalità, tempi e spazi, tra cui quello del capitalismo industriale. Qual è, per venire al tema del seminario, la questione? Proviamo ad articolarla così: se assumiamo fino in fondo l’immagine di un lavoro che nel capitalismo cognitivo non ha bisogno di essere organizzato, allora dobbiamo chiederci che fine fa l’impresa: è pura forma del comando, convenzione che sopravvive alla sua funzione sociale? Una delle nostre prime ipotesi è che nel capitalismo cognitivo l’impresa può essere descritta i) come forma organizzata della cattura della cooperazione sociale e ii) come campo per la soggettivazione del lavoro. In merito al primo punto ci basti osservare che, se esiste cattura, esistono catturatori organizzati. Perché, tuttavia, l’impresa è anche un campo di soggettivazione? Il problema concreto, per le imprese, è convincere i soggetti detentori di questa capacità cooperante a mettere a disposizione le loro capacità umane, cognitive, relazionali, affettive, in modo non rituale e adempitivo. A farsi “lavoro cognitivo”. Nella creazione di questa disponibilità c’è sempre l’elemento del ricatto (la precarietà, l’indebitamento, la disoccupazione, l’essere espulsi). Ma questo non basta! Le persone devono essere condotte a pensare che tramite il lavoro (e l’impresa che se ne appropria) possono soddisfare bisogni di gratificazione personale, riconoscersi in un progetto, di sentirsi utili o creativi. E’ a ciò che (in questa sede) facciamo riferimeno quando parliamo di soggettivazione, ed è alla decostruzione attiva di questi dispositivi che facciamo riferimento quando parliamo di contro-soggettivazione.

2) Il secondo processo, che cronologicamente accompagna la transizione da industriale a cognitivo, è la finanziarizzazione, intesa sia come forma di accumulazione di capitale (derivante da un variegato repertorio di pratiche speculative) sia come forma di potere sulla produzione sociale e più in generale sulle vite (la speculazione sul debito pubblico chiarisce subito in che termini si eserciti il potere della finanza sulle vite). Il nostro problema è così formulabile: qual è il rapporto tra finanza e altre forme di accumulazione di cui parlavamo poc’anzi? Si è imposto nel senso comune –di molte persone di sinistra, anche vicine o interne ai movimenti – l’idea che la finanziarizzazione sia nemica delle altre forme di produzione e dell’impresa stessa, la quale diventa essa stessa, quindi, “vittima” della finanza. A noi sembra che tra finanza e cosiddetta economia reale vi sia più convergenza che divergenza. Per decenni capitale finanziario e capitale industriale, oltre a compenentrarsi, si sono alimentati a vicenda; pensiamo ai mutui subprime e al ruolo dell’indebitamento delle famiglie nel mettere in moto il ciclo dell’industria edilizia, che significa anche lavoro industriale, progettazione, design, arredi, impianti, mobili, materiali, ricerca sui materiali, eccetera.

Questi nodi hanno importanti ricadute politiche, poiché definiscono obiettivi, campi d’azione, le forme di ricomposizione sociale e politica da ricercare.

Possiamo ora ricollegarci alla questione posta in apertura. Perché tornare a parlare d’impresa e situare qui l’inchiesta, quando l’impresa ci appare uno spazio passivizzato? Perché ricercarvi dei processi di contro-soggettivazione, quando questi sembrano darsi ovunque meno che nei rapporti di produzione, ma piuttosto sul territorio (pensiamo alla lotta No Tav). Anticipo subito che nella proposta non c’è il retropensiero per cui, per farsi “vera lotta di classe”, i conflitti debbano ritornare per forza dentro i luoghi della produzione materiale.

Prima osservazione, sia detto en passant, mi sembra che il controllo sulle condizioni della produzione  e sul lavoro continuino ad avere una certa importanza per il capitale. Leggo in questi termini gli obiettivi della riforma sul mercato del lavoro di questi giorni.

L’aspetto determinante è però un altro. E’ lo spazio della crisi, secondo noi, che riconfigura il campo. Le trasformazioni dei modi di produrre di cui parlavamo, non sono avvenute soltanto attraverso una “rivoluzione dall’alto”, non si è trattato di un processo unilaterale. Nella transizione verso il capitalismo cognitivo e finanziario si è realizzato un patto implicito tra nuova composizione del lavoro e capitale. Molti settori di nuovo proletariato e delle classi medie del dopo-fordismo hanno trovato infatti opportunità  per realizzarsi, se vogliamo in modo distorto e patologico, parlando il linguaggio e interpretando lo spirito del nuovo capitalismo. E’ chiaro, ci mette in crisi l’idea di un lavoratore o una lavoratrice che tifa per l’impresa perché vi trova condizioni per affermare la propria individualità. Però è avvenuto. L’ipotesi su cui scommettiamo è che nella crisi questo patto, questi dispositivi di soggettivazione, sembrano incrinarsi. Ci troviamo in altre parole di fronte ad un salto reale, dove le persone hanno o avranno il problema di progettare e riprogettare le vite su nuove basi. Ciò ripropone anche  il problema del potere nei rapporti di produzione.

Veniamo qui ad una seconda possibile obiezione:  perché perdere tempo con questa storia della soggettività, del capitale che non prescrive più cosa devi fare ma chi devi essere, quando non dobbiamo sforzarci troppo per trovare mille esempi di sfruttamento del tutto tradizionali. Crediamo che si pongano qui altri due problemi, tra loro collegati: i modi e le forme del conflitto sociale e quella che chiamiamo politica della composizione.

Partiamo del conflitto. Ho problemi a ragionare di conflitti in termini simmetrici rispetto al capitalismo industriale. Non credo ad esempio che lo sciopero precario possa essere immaginato come equivalente postfordista del blocco della grande fabbrica. Fare inchiesta, come abbiamo scritto nel’editoriale che annunciava il seminario, significa abitare campi di conflitto possibili. Di immaginarli e porsi quindi nella condizione di anticiparli. Le forme dei conflitti sono da porre in relazione con l’altra questione, della ricomposizione politica tra i nuovi poveri che lavorano, la classe operaia impoverita dell’industria e dei servizi e quelle frazioni di classi medie che nella crisi esperiscono un declassamento. Questo mancato incontro è alla radice di molte difficoltà dei movimenti che hanno occupato la scena in questi anni. E’ questo, sullo sfondo, il tema dell’inchiesta. Questa ricomposizione non si dà infatti naturalmente, neanche quando tra le differenti frazioni del lavoro sociale vi sarebbero obiettivi comuni. Prendiamo ad esempio la riforma del mercato del lavoro: essa apre oggettivamente (se le misure proposte saranno confermate) al possibile incontro, sul terreno del commonfare e del reddito incondizionato e universale, tra precariato e lavoro industriale privato degli ammortizzatori sociali. Questa ricomposizione tuttavia non avverrà mai naturalmente: diversi i percorsi, le storie di vita, le soggettività, le culture. Diversa la “composizione politica” di questi mondi. C’è sempre dunque un problema di costruzione politica e di soggettività. Qui si situa la proposta dell’inchiesta.

Mentre dell’azione collettiva, delle forme di lotta del lavoro industriale sappiamo abbastanza, della più ampia composizione del lavoro sociale nel capitalismo cognitivo sappiamo ancora troppo poco. Mi sembra di una certa importanza approfondire la conoscenza del movimento dei forconi, degli autotrasportatori, degli agricoltori. Queste sono lotte che deflagrano all’interno dell’impresa, se per impresa intendiamo – come dicevamo – anche una filiera che connette produzione, logistica, trasformazione, distribuzione.

Sappiamo poco di come lotta (o potrebbe lottare) il lavoro cognitivo. Ne intuiamo i processi di contro-soggettivazione, nelle lotte universitarie, nei movimenti Occupy, anche nel movimento No Tav (il “nostro Occupy”, come lo abbiamo definito). Sono soggetti che spesso non si percepiscono come lavoratori, la loro critica verso le gerarchie aziendali si fonda spesso sul ritenere di “saper fare meglio” dei manager, la sofferenza e il senso di frustrazione che vivono hanno alla base una realtà di banalizzazione delle competenze. Forse, azzardiamo, è un soggetto più interessato a orientare la produzione, impadronirsene in senso lato, negoziare sul cosa, come e per chi produrre, che non a bloccarla.

Ma c’è qualcosa di cui riappropriarsi nelle imprese? Se l’impresa è “forma corrotta del comune” cosa ostacola l’appropriazione? Come e dove può essere “immaginata” e “organizzata” la riappropriazione? Possiamo immaginare, ad esempio nei servizi collettivi e nel welfare, originali coalizione tra lavoratori e cittadini, che poi significa ricomporre il lavoro sociale nelle sue differenti articolazioni?

Il problema che abbiamo di fronte è dunque capire come queste cose diverse possano farsi progetto politico.

 

 

 

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