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Islamismo in crisi e controrivoluzione all’attacco

 

di PAOLO GERBAUDO

Fino a pochi mesi fa l’esito politico della rivoluzione egiziana sembrava scontato. Esauritasi poco a poco la fase “eroica” degli scontri di piazza, che avevano visto il protagonismo della gioventù rivoluzionaria metropolitana (gli shabab-al-thawra), le redini del paese sarebbero state rapidamente e saldamente prese in mano dagli islamisti ed in particolare dai Fratelli Musulmani, l’unico gruppo organizzato capace, dopo decenni sopravvissuti nella clandestinità di sostituire in blocco l’apparato dell’era Mubarak.
Elezione dopo elezione – prevedevano gli analisti – il lungo e travagliato interregno cominciato con la caduta del “rais” sarebbe terminato nell’approdo ad un nuovo equilibrio politico, caratterizzato dal dominio degli islamisti, più o meno moderati come già avvenuto in Tunisia con la vittoria elettorale del partito el-Nahda (il Rinascimento). Così del resto sembravano confermare le elezioni parlamentari di novembre, in cui il partito dei Fratelli Musulmani Hurreya ua Adala (Liberta’ e Giustizia) e i partiti salafisti avevano fatto man bassa vincendo rispettivamente il 43% e il 25% dei voti e mettendo un’ipoteca sul testo della nuova costituzione. Ma alla vigilia del primo turno delle elezioni presidenziali è proprio la stabilizzazione dell’Egitto post-rivoluzionario attorno a una egemonia islamista che è in forse.

A pochi mesi dalla loro trionfale entrata nelle istituzioni i partiti islamisti ed in particolare i Fratelli Musulmani si trovano di fronte ad un pesante crollo del consenso che rischia di aprire le porte del palazzo presidenziale di Heliopolis ad un candidato del vecchio sistema: l’ultimo primo ministro dell’era Mubarak, Ahmed Shafik, e l’ex segretario della Lega Araba ed ex ministro degli esteri di Mubarak, Amar Mussa. Gli accordi sotto banco siglati dai Fratelli con la giunta militare succeduta a Mubarak gli sono valsi i risentimenti dei rivoluzionari di piazza Tahrir e lo scontento di tanti giovani militanti islamisti. Le pagliacciate mediatiche dei salafisti, e l’emerge dei primi scandali, tra cui quello di un parlamentare che ha finto di essere vittima di una rapina per farsi rifare clandestinamente il naso aquilino, hanno disilluso molti ragazzi idealisti che avevano riposto una speranza nel partito dei “barbuti” e nella loro retorica a difesa dei poveri delle ashwayat, i quartieri abusivi del Cairo.

In molti tra coloro che avevano inizialmente sostenuto il partito dei fratelli Libertà e Giustizia come pure i salafisti di el-Nour, il partito della luce, hanno anche cominciato a vederci più chiaro nelle ricette economiche degli islamisti. E hanno capito che quello che queste formazioni hanno in serbo per l’Egitto a parte il loro proibizionismo, è di fatto una nuova ondata di politiche neoliberali non tanto diverse da quelle varate a suo tempo da Mubarak, in un mix indigesto di versetti del Corano e brani di von Hayek, in cui la carità islamica volontaria (zakat), va a sostituire quei pochi sussidi e servizi statali che ancora sopravvivono dai tempi di Nasser, e le privatizzazioni imperversano, il tutto a favore di quella classe media privata da cui provengono gran parte dei quadri degli islamisti.

Una rivoluzione all’angolo

Non ci si potrebbe che rallegrare delle difficoltà del cosiddetto “islamismo politico”, che dimostra quanto lungi sia la rivoluzione egiziana da seguire il modello dell’Iran di Khomeini come paventato da molti scettici della “primavera araba”. Se non fosse che il crollo degli islamisti sta aprendo la strada ai “felul” (ovvero avanzi del vecchio sistema) Shafik e Mussa, che dominano i sondaggi, con il secondo in largo vantaggio su tutti gli altri. Dietro di loro si schiera un blocco sociale composito che raggruppa impiegati statali, famiglie di poliziotti e militari, contadini affamati di sussidi statali e megaprogetti di irrigazione, e lavoratori del settore turistico la cui sussistenza è stata messa a repentaglio da crisi economica e rivoluzione. Se uno dei due candidati vincesse al secondo turno (o ancora peggio se andassero entrambi al secondo turno) sarebbe una sconfitta pesante per la rivoluzione, anche se Mussa ha cercato da tempo di rivendersi come “rivoluzionario”. In questo scenario sarebbe prevedibile un ritorno al conflitto di piazza e un ulteriore rinvio della chiusura della fase di transizione.

Certo l’avanzata dei candidati di regime non e’ solo un riflesso della situazione critica degli islamisti, ma pure più complessivamente il sintomo della crisi del movimento rivoluzionario, iniziato dalla gioventù metropolitana e sostenuto solo più tardi dai gruppi islamisti che hanno saputo poi gestirlo a loro favore. L’offensiva contro-rivoluzionaria ordita dalla giunta militare succeduta a Mubarak è riuscita progressivamente a isolare gli attivisti, additando la rivoluzione a responsabile della situazione di crisi economica e incremento della criminalità.

Dalla caduta di Mubarak, nel silenzio dei media internazionali, piazza Tahrir ha registrato un’ondata di nuove occupazioni che miravano ad abbattere ulteriori pezzi di sistema rimasti in piedi dopo le dimissioni di Mubarak. Sit-in dopo sit-in il movimento è riuscito a portare a casa risultati importanti. Ha fatto dimettere due governi transitori e obbligato la giunta militare ad aprire il processo contro Mubarak (il verdetto arriverà il 2 di giugno in un periodo di per sé già politicamente esplosivo). Ma attraverso un’attività repressiva costantemente mirata ad aumentare il livello del conflitto, infliggendo pesanti disagi materiali e psicologici alla popolazione, la giunta militare è riuscita a trasformare il movimento rivoluzionario, da soggetto “popolare” (ovvero con ambizioni e composizione maggioritarie), in un fenomeno  guardato prima con sospetto e poi con insofferenza dalla maggior parte degli egiziani. In molti si sono convinti che “si stava meglio quando c’era Mubarak”, che “almeno quando c’era Mubarak si mangiava” e “stabilità” è diventata la parola d’ordine ossessiva del dibattito pubblico. I rivoluzionari dal canto loro si sono intestarditi a concentrarsi sulle domande politiche (fine del governo militari, stop ai processi marziali), dimenticandosi che il grosso della popolazione era stato vinto alla causa rivoluzionaria dalle sue domande sociali, tra cui il salario minimo a 1000 lire egiziani (pressappoco 120 euro) e una politica del lavoro per i giovani disoccupati.

Moriremo demo-musulmani?

Per molti mesi di fronte alla stretta contro-rivoluzionaria, le speranze di molti rivoluzionari di Tahrir sono state riposte nella candidatura alle presidenziali di Abu el-Futuh, un islamista moderato o potremmo dire un “demo-musulmano”, per evidenziare i parallelismi in termini di ideologia e composizione sociale rispetto alle democrazie cristiane europee. Espulso dai Fratelli Musulmani in uno dei loro classici intrighi interni, il compassato dottor Futuh è riuscito a riunire una coalizione che comprende giovani insofferenti dei Fratelli Musulmani, attivisti liberali e progressisti molti ultras delle squadre di calcio cairote dell’el-Ahly e dello Zamalek, che sono stati decisivi nella battaglia vinta contro la polizia nel gennaio e febbraio del 2011, ma pure all’ultimo minuto i barbuti ultra-convervatori dei partiti salafisti che da lui esigono la sharia islamica legge di Stato.

La campagna di Futuh, che propone un programma dove un moderato conservatorismo morale è unito a proposte economiche di stampo socialdemocratico, era partita con l’acceleratore e fino a qualche settimana fa veniva dato certo il suo passaggio al secondo turno. Però progressivamente la macchina elettorale sostenuta da 90.000 volontari sembra essersi inceppata, anche di fronte alla vaghezza dell’identità politica di una coalizione cosi ampia. Mentre Futuh cadeva nei sondaggi ad approfittarne in questi ultimi giorni è stato il candidato dei Fratelli Musulmani, un personaggio misconosciuto e totalmente privo di carisma, ma che ha al suo servizio una macchina da guerra che conta su una base di un milione di membri.

Queste elezioni saranno così un test dirimente riguardo alla vera potenza organizzativa dei Fratelli e la loro capacità di tradurre radicamento sociale in potere politico. Di fronte al crollo dei consensi registrato negli ultimi mesi, per loro la strada e’ tutta in salita. Eppure non bisogna dimenticare che in un paese come l’Egitto continua a contare non soltanto la “opinione pubblica” e le intenzioni di voto, ma anche la capacità dei partiti di “portare” gli elettori alle urne, e di presidiare le operazioni di voto e gli spogli. In questi compiti i Fratelli eccellono più di qualsiasi altra forza, compresi gli apparati del vecchio regime che sostengono Shafik e Mussa. Nessuno sa cosa succederebbe se Mursi dovesse vincere le elezioni Ma in molti non nascondono che la giunta militare potrebbe ricorrere ad un colpo di stato, reminiscenze della Turchia degli anni ’80. Così anche in questo scenario la chiusura della fase di transizione appare tutt’altro che vicina. Il futuro è incerto, il che significa pure “aperto”.

Vada come vada, che passi al secondo turno Futuh, o Mursi o nessuno dei due, il fatto che Abu el-Futuh sia divenuto il candidato “rivoluzionario” la dice lunga sulle contraddizioni della rivoluzione egiziana, e sulla particolare forma di “crisi della rappresentanza” che si respira sulle sponde del Nilo in occasione di queste elezioni. Il modello di “Idra multitesta” di piazza Tahrir si è dimostrato invincibile quando si trattava di abbattere un regime altamente centralizzato, che con i suoi palazzi ministeriali e le sue odiate forze di polizia ha fornito involontariamente un punto di fuoco per concentrare la mobilitazione. Ma di fronte al passaggio di fase verso un sistema liberaldemocratico, il movimento non è riuscito a costituire o a dare nuovo alito a organizzazioni laiche capaci di fare da sponda “legale” allo spontaneismo della piazza e ad attutire il colpo delle ondate repressive.

Piaccia o non piaccia questa è la lezione della rivoluzione egiziana (di fatto un “ripasso” della lezione di tante altre rivoluzioni). Una cosa e’è fare scoppiare la rivoluzione, altra cosa vincerla, compito diverso ancora mantenere accesa la fiamma rivoluzionaria durante la fase di transizione e il passaggio a un sistema liberaldemocratico. Ciascuna di queste fasi richiede assetti organizzativi diversi. E la fase attuale richiede agli attivisti egiziani anche di interrogarsi sulla questione del “politico” e della rappresentanza e sul rapporto tra “barricades” e “ballots”, barricate e schede elettorali. Quello che è certo è che la soggettività vista durante la rivoluzione dei 18 giorni si farà risentire, che il nemico sia il vecchio regime che non vuole saperne di morire, o i nuovi padroni islamisti con il loro tradizionalismo morale e le loro politiche economiche neoliberali.

 

 

 

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