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La città deterritorializzata

 

di GIAIRO DAGHINI

Oggi, della città o della metropoli non possiamo più dare una visione di insieme, o un’immagine che ce la restituirebbe nella sua globalità, nella sua forma urbis. Come del resto avviene anche per il soggetto umano, riterritorializzato nel processo continuo delle sue soggettivazioni, che lo portano fuori dalle ipostasi dell’io.

Bisognerà utilizzare diverse “scatole di attrezzi” per cogliere i divenire che attraversano la città, come delle linee d’infinito, e ci vorrà più di uno sguardo sia esso fisico, economico, filosofico, giuridico o meglio, come la pensava Félix Guattari nel suo Cartographies, ci vorrà un sistema a quattro teste comprendente i territori, i flussi, le macchine e gli universi.

Quindi, nello stesso tempo in cui noi parliamo tanto di fine della città, la città sembra essere dappertutto. In realtà noi non viviamo più, non lavoriamo più, non pensiamo più in spazi città, noi oggi viviamo in spazi che si conviene definire urbani. Spazio urbano di cui si possono determinare con difficoltà i limiti sia fisici sia di governabilità, spazi che nello stesso tempo sono illimitati e pieni di confini. Noi viviamo oggi in paesaggi ibridi, in cui agiscono un’infinità di dispositivi. Paesaggi composti di parti connesse tra di loro da reti tecniche e di mobilità sempre più complesse. Un universo di territori e di flussi. In questi spazi, l’urbano si delocalizza di continuo, in un mix di spazio fisico de territorializzato, e di spazio immateriale in continua espansione di rete. In questi movimenti vengono ridefiniti di continuo lo spazio fisico e mentale in funzione di nuovi rapporti di potere, di nuove meccaniche sociali e di nuovi modi di produzione e di soggettivazione.

Una delle dinamiche con cui si è giocata la metamorfosi della città alla grande città, a metropoli è stata il movimento centro-periferia in tutte le sue implicazioni e riterritorializzazioni. Un movimento che si può definire di periferizzazione generale ininterrotto.

La città moderna nel suo divenire metropoli si proietta fuori da sé ed emana dal suo centro le produzioni della sua nuova economia. Espelle parti della sua popolazione, e ne chiama o assoggetta delle altre dal suo esterno, dalle campagne per esempio, o da ciò che ha disgregato attorno a sé. La città del moderno costruisce attorno a sé le sue periferie come sfogo e laboratorio della sua crescita e delle sue metamorfosi, ma anche come rottura dello spazio omogeneo della città stessa e della sua società.

Nella periferia non c’è immediatamente la città, c’è il suo dominio e un ammasso di oggetti urbani costruiti, di eterotipi e ogni sorta di macchine fisiche e sociali. Ognuna delle quali contiene una nuova forma di relazione: la dimensione di essere contemporaneamente produzione di merci e produzione di soggettività.

Questa macchinizzazione delle relazioni non trova più posto nella città o non l’ha mai trovato fino al momento della modernità e la sua proliferazione porterà la città, alla fine del XIX secolo e alla prima metà del XX, a dotarsi di parti esterne che diventeranno estesissime, profondamente differenti dalle parti interne che l’hanno costruita storicamente. Ossia a costruire un territorio dell’eterogeneità formato da stabilimenti industriali, laboratori, quartieri operai, uffici, bordelli, ospedali, carceri, cimiteri, musei, edilizia abusiva, depositi di tutto, zone degradate, rifiuti, reti di strade e ferrovie, di flussi di ogni tipo che attraversano la città da ogni parte e che già la portano sempre più all’esterno del suo centro. Una città che nel suo divenire grande città o metropoli si delocalizza e comincia a perdersi in quanto tale, e a divenire parte di altri territori esistenziali. Tuttavia, non si tratta solo di spazio fisico. In questo contesto opera l’instaurazione di un’altra società, cioè di nuovi dispositivi che regolano, ma anche provocano una soggettivazione altra, che producono un altro corpo, suscitano un altro inconscio e il desiderio di altre forme di relazione per sottrarsi dalla condizione di “nuda vita”, spogliata di tutto ma non della propria forza, una condizione in cui erano state poste le masse al lavoro dalla rivoluzione industriale. Possiamo pensare a Parigi, “Le Grand Paris”; a Berlino, la “Großstadt”; a Londra e alle città della rivoluzione industriale inglesi, alle città degli USA fin da subito metropoli, Chicago, New York, Detroit, l’intera Rust Belt, e beninteso, a Pietroburgo con le officine Putilof.

 

La città rovesciata

I nuovi spazi urbani con le loro gerarchie di codici, di tipologie di edifici per il lavoro, la cura, l’internamento, costituiscono il laboratorio di quello che Focault ha definito come società di dispositivi disciplinari, ma si potrebbe dire anche e soprattutto di “in-discipline”. In Sorvegliare e punire, Foucault assegna una figura forte della paranoia utopica della governamentalità del moderno, quando fa interagire due paradigmi di disciplina e di esclusione: la peste e la lebbra.

Il diagramma della peste è quello del contagio che si trasmette quando i corpi si mescolano. Si tratterà allora di chiudere gli spazi e di separare le persone: la città dal suo territorio agricolo, ogni quartiere dal suo prossimo, ogni casa in ogni strada. Tutte le famiglie devono chiudersi in casa a un ordine stabilito. Ogni strada è posta sotto il i controllo di un sindaco. Circolano solo gli intendenti, i medici, le guardie e i becchini. Il loro compito è di assicurare il controllo e la registrazione permanenti dello spazio-città tagliato con esattezza, e di prescrivere “a ciascuno il suo posto, a ciascuno il proprio corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte”.

Diverso è il paradigma della lebbra che suscita invece l’esclusione. Il lebbroso è sottoposto a una pratica di rigetto e di espulsione dalla comunità cittadina. Il paradigma della lebbra è visto d Foucault come un modello del Grand Enfermement.

L’applicazione di questi due paradigmi alla costruzione di una città e all’ordinamento di una società, “non comporta lo stesso sogno politico. L’uno è quello di una comunità pura, l’altro quello di una comunità disciplinata. Due maniere di esercitare il potere sugli uomini, di controllare i loro rapporti, di sciogliere i loro pericolosi intrecci”.1 Schemi differenti, ma che il pensiero politico moderno avvicina e fa interagire. Ogni volta che viene applicata allo spazio dell’esclusione, di cui tutti i precari, i vagabondi e i disoccupati sono gli abitanti reali, la tecnica di potere propria delle discipline, tratta i “lebbrosi” come “appestati”. Dall’altra parte si avranno “appestati” trattati come “lebbrosi” ogniqualvolta che verranno applicati i procedimenti di individuazione per determinare le esclusioni. Nel pensiero politico moderno si viene così elaborando, secondo Foucault, un complesso doppio schema: quello di una divisione binaria (normale-anormale, incluso-escluso, occupato-disoccupato) e quello di un’assegnazione coercitiva e individualizzante dei processi di differenziazione. La composizione di queste pratiche di un potere estensivo che preme su tutti i corpi e su tutti gli spazi “è l’utopia della città perfettamente governata” che caratterizza l’Occidente moderno. E il Panopticon di Bentham, è la figura architettonica di questa composizione ampiamente trattata da Foucault. Ma con un’osservazione però: non tanto, o non solo, la figura del Panopticon è centrata sull’ottico, su uno sguardo che sorveglia e che viene interiorizzato, quanto piuttosto sul macchinico e cioè su un motore centrale che comanda tutto il movimento delle macchine a cui sono assoggettati gli operai, e che impone e inserisce il tempo astratto della produzione nella temporalità comune delle loro vite. Così viene sancita una relazione di lavoro e di assoggettamento per l’insieme delle attività e dell’agire a partire dalla rivoluzione industriale. Questa relazione rende la fabbrica una delle figure egemoniche nella costituzione dello spazio della città del moderno. L’effettualità di questi paradigmi e di queste relazioni pensabili nella periferizzazione della città del moderno, va oltre la trasparenza del loro aspetto formale è , come sottolinea Foucault, “una realtà spessa,pesante”2 è fisica e concerne l’esistenza.

La realtà delle società disciplinari sarà anche e soprattutto un divenire di indiscipline. A un certo momento della propria storia in effetti, il movimento di periferizzazione della città del moderno prende una direzione opposta e dalla periferia andrà verso il centro. La città da centro di irradiamento si trova ad essere città assediata. La periferia diverrà, in effetti, il luogo di origine di una nuova cultura politica, di una nuova cultura estetica, architettonica, di una nuova cultura etica e di una cultura che caratterizzerà gran parte di questa insorgenza del moderno nella sua complessità della cultura di classe, di classe operaia. È da lì che partirà dall’inizio del secolo il ciclo di sommovimenti e di lotte e di avanguardie che modificheranno radicalmente la geografia politica della città del moderno, dello stato, del mondo industrializzato e dei processi di democratizzazione.

Si può dire che la periferia, la citta nel suo divenire metropoli, con la sua immensa collezione di dispositivi e di eterotopie, riterritorializza il proprio spazio e la propria società staccandosi dalla subordinazione alla città storica di cui è stata emanazione. Una nuova realtà territoriale si instaura composta di parti che non sono più in grado di agire come modello spaziale dell’uno sull’altro. Il processo di periferizzazione diviene una creazione collettiva di urbano dentro cui si tentano nuove soggettivazioni, un nuovo comune e si formano nuove società. E come in tutti i movimenti rivoluzionari si aprono spazi inauditi di divenire e di conflitto.

La periferia sarà un tema centrale della culture d’avanguardia e il grande laboratorio dell’architettura del moderno. L’esigenza di una nuova cultura dell’abitare, al di là delle “mit-kasernen” e degli “slums,” motiva a partire dagli anni Venti la sperimentazione forse la più importante degli architetti e degli urbanisti del movimento moderno. La fabbrica della città, in molti casi, si costruisce sull’incontro condiviso tra una grammatica disciplinare e le istanze di un mondo che sorge e cerca nelle periferie il proprio desiderio di urbanità, noi oggi potremmo dire il proprio spazio “biopolitico”. Fra i molti si può pensare ad alcuni progetti e realizzazioni che sono quasi contemporanei: il primo Bauhaus et la Karl Marx Hof; la cité ouvrière di Pessac; le ricerche e i progetti dei Costruttivisti sovietici; le Siedlungen in Olanda e in Germania… tutto questo ha come tema il nuovo evento della periferia-metropoli. Le Siedlungen, di Bruno Taut (Britz, Freie Scholle…), realizzate con la partecipazione del movimento operaio e dei sindacati, sono costruite in opposizione alla città centro, al di fuori della città, con altri finanziamenti, con altre connessioni di forze e sono costruite come il tentativo di territorializzazione di un altro luogo. La tensione che viene suscitata dalla presenza e dalla progettazione di queste cité, è quella che si sviluppa tra la dimensione disciplinare, sempre presente, e i flussi biopolitici delle forme di vita che escono, che tentano di uscire dall’esclusione. È una dinamica che attraversa tutto il movimento moderno nella forma di un conflitto che sembra non doversi fermare mai. E si potrebbe pensare anche ai progetti di un’architettura o di uno spazio della città come indicavano i Situazionisti, o si potrebbe pensare ancora anche ad un mondo di autogenerazione, evocato da un poeta anarchico come Yona Friedman, oppure anche al gesto urbano metropolitano del Movimento espressionista e a quello Dada in campo artistico.

Nella proposta urbana delle Siedlungen, dei Costruttivisti e dei grandi costruttori del moderno, l’architettura si pone come intercessore tra il desiderio di spazi, di luoghi, di territori per nuovi modi di abitare e gli interessi con cui questo desiderio rivelato a se stesso entra in conflitto. Nel lungo percorso di catture e di resistenze, di conflitti e di lotte della città del moderno, quella proposta però si perderà via via nelle periferizzazioni imposte dagli interessi dell’immobiliare, nei disastri della finanziarizzazione subprime, oppure nell’universo slum delle megalopoli striate di recinzioni, da cui spuntano gli oggetti architettonici delle archistar, e infine nei territori post-metropolitani delle Tigri asiatiche, della produzione per la produzione.

 

La cosiddetta accumulazione originaria

Si può dire che a partire dalla rivoluzione industriale il cantiere moderno della periferizzazione della città è in opera ininterrottamente. Il concetto di periferia e il movimento di periferizzazione non sono riducibili al peripherein, a un qualcosa che sta intorno alla città, ma hanno a che fare con la rottura delle forme e in particolare della forma urbis. A partire dalla rivoluzione industriale, tutto ciò significa confrontarsi con l’evento epocale che Marx, nel capitolo XXIV de Il Capitale chiama “La cosiddetta accumulazione originaria”, in cui il capitalista moderno, con l’intervento dello Stato, cattura e privatizza sotto il suo dominio tutte le forme di comune esistenti, la capacità di lavoro, e la “terra come corpo inorganico dell’uomo”. La cosiddetta accumulazione originaria è innanzitutto una deterritorializzazione dell’esistente, uno sradicamento.3 In termini storici Marx racconta di lavoratori sradicati dalla terra, separati dai mezzi sociali della loro sussistenza, stravolti nella forma stessa di vita. Racconta l’incontro e la relazione tra il possessore di denaro divenuto capitale e il lavoratore deterritorializzato, libero e nudo, carico di tutta la sua capacità e potenza, che però in questa relazione diventa merce. Racconta la soppressione dei ceti e dei diritti comuni, la dislocazione delle attività dalla maniera artigianale a quella industriale-capitalistica, la dissoluzione dei modi dell’abitare e delle forme di città che vengono disseminati in conurbazioni nell’Inghilterra del primo moderno. Non si tratta di un evento fissato una volta per sempre, in una preistoria. Al contrario, l’accumulazione originaria è immanente ai processi di sviluppo della civiltà industriale capitalistica, ne è una ricorrenza. Il tema marxiano viene ripreso anche da Deleuze e Guattari per i quali: “c’è accumulazione originaria ogni volta che si dà il montaggio di un apparecchio di cattura secondo una violenza molto particolare che crea, o contribuisce a creare, ciò su cui essa si esercita”,4 flussi decodificati di proprietà e di denaro, flussi deterritorializzati di lavoro, di tecniche, di materie e di habitat. Ci vorrà la convergenza di tutti questi flussi decodificati, la contingenza del loro incontro e delle loro congiunzioni, secondo processi eterogenei, necessari solo a posteriori, perché nasca ogni volta la novità di uno spazio sociale e tecnico in forma capitalistica. L’accumulazione originaria, come temporalizzazione e spazializzazione di una contingenza, implica la costituzione violenta – ogni volta – di uno spazio omogeneizzato, “colonizzato”, dove la città è in questione. Lo stato, nella sua forma moderna, e in quanto organizzatore della “congiunzione di flussi decodificati”, agisce a detrimento della città, i suoi interventi si producono al di fuori dei codici e della misura della città. Più che la costruzione di nuove città, da questi processi sorgeranno sempre nuove periferie, sempre nuove deterritorializzazioni di spazi colonizzati, – materiali e immateriali – in cui il nuovo si esprimerà nelle forme di un conflitto ogni volta rinnovato. Non si tratta più del progetto di un sovrano che ordina la città e organizza il territorio della sua sovranità, bensì di uno stato che copre il laissez-faire per l’appropriazione e l’instaurazione di un nuovo spazio fisico e mentale, sussunto nell’accumulazione capitalistica. È lì che la città, in presa diretta, opera le sua trasformazioni. Ed è anche lì che si dà la resistenza senza fine di tutte le forze chiamate in causa, vale a dire la tensione di divenire del moderno.

La città, o meglio l’universo urbano del moderno, si trasforma per l’agire anonimo di singolarità senza numero, come un immane laboratorio in cui istituzioni, cose, macchine, segni e linguaggi presenti in ogni produzione–creazione sono però contemporaneamente vincolati all’accumulazione capitalistica. Così avviene nella schiavitù del rapporto salariale, in cui la potenza umana diviene forza-lavoro-merce, oppure nei modi della razionalizzazione industriale, sotto cui è stata costretta l’idea e la realtà del progresso, oppure nella relazione produzione-consumo dentro cui è stato catturato l’ente animale desiderante del moderno. Sono relazioni e modi che si affermano come ricorrenti nella serie di catture e resistenze –irriducibili- che hanno fatto la nostra storia. Ci siamo fatti così; siamo stati fatti così. Riuscire a sapere come fare a disfarci continua ad essere fondamentale.

 

Un divenire senza città

Questi processi di periferizzazione, di resistenza e di accumulazione originaria sono attivi con esiti e attualizzazioni molto diverse in tutte le grandi riterritorializzazioni dell’Occidente, in quelle post-coloniali del moderno e in quelle della globalizzazione capitalistica attuale. Qui si giocano i modi e i possibili esiti dell’urbano in questo presente.

Nelle megalopoli africane, questi processi si danno come riterritorializzazioni di aree immense, sottoposte a un’economia di cattura da parte delle grandi imprese agroalimentari, o minerarie, o dell’energia occidentali – e ora anche cinesi – e svuotate delle loro popolazioni che vengono accumulate in periferizzazioni slum. Con esiti e forme diverse Karthum e Dakar, Il Cairo e Città del Capo, e altre ancora, hanno la caratteristica comune di essere al centro di processi di cattura-privatizzazioni sempre più estesi dalla vita propria sino alla materia, nonché di tempeste sociali ricorrenti. Il caso del Cairo è di nuovo quello di una città assediata e attraversata in lungo e in largo da una moltitudine carica di istanze tese verso altre forme di vita e altre forme di mediazione. Vi sono processi analoghi in tutte le altre grandi concentrazioni post-metropolitane, come a Mumbai con sei milioni di abitanti negli slum, come in America Latina, a Quito, a Rio… Sono più di trenta le megalopoli che stanno disseminando sul territorio venti milioni di abitanti, con una porosità inarrestabile che incide sui territori e sulle culture circostanti e che produce sacche terribili di povertà.

Il paradosso di tutte queste riterritorializzazioni riguarda, oltre la forma urbis, anche l’energia che si esprime nei grandi movimenti di esodo. L’energia di una linea di divenire che se ne va da campagne messe in rovina, da culture disgregate, da identità, economie e forme simboliche svuotate. Lo scandalo del mondo slum è proprio quello di un’energia che si cerca un mondo altrove, e che nel delirio delle megalopoli ricostruisce nuove società di relazioni e di incontri, ma è costretta dalle nuove “enclosures” del contemporaneo, a sovrapporsi in periferizzazioni sempre più allargate, alla ricerca di una città che non c’è più, e in attesa di essere catturata dall’assiomatica di una società articolata in senso puramente economico.

 

La fabbricazione di nuove città in Cina

Con l’apertura del territorio cinese agli investimenti stranieri nel 1978, l’accumulazione originaria si compie nel punto d’intersezione tra capitalismo globale e progetto di modernizzazione dello stato cinese. Trent’anni di socialismo hanno generato una potente autorità statale in grado di spingere in avanti, anzi di organizzare “la maggiore migrazione non coatta della storia umana e il principale fenomeno sociale di questi tempi, ossia lo spostamento dalle campagne alle città di circa duecento milioni di cinesi che si avviavano al lavoro salariato”.5 Le favolose nuove città del delta del Fiume delle Perle come Shenzhen al sud, o quelle della costa orientale più a nord come Changshu e molte altre ancora, polarizzano questo “flusso biblico” di popolazione, ma anche di investimenti e di materie che negli ultimi trent’anni sta rendendo la Cina la “fabbrica mondiale” della globalizzazione. Queste città – in realtà dei territori post-metropolitani – sono costituite da rizomi di spazi recintati, da relazioni di cittadinanza dicotomiche se non antagoniste, e per gran parte da società di lavorizzazione centrate sulla cooperazione produttiva e sulla solitudine personale. Lo statuto dei nuovi cittadini è quello proprio del “lavoro migrante rurale” che designa i lavoratori dell’industria e di servizi che hanno residenza legale in campagna, anche se lavorano e risiedono in città. Una cittadinanza monca per una moltitudine che vive e lavora accanto ai soggetti urbani legali e interi. Degli otto milioni di abitanti di Shenzhen, circa sette milioni sono migranti interni che non hanno accesso al welfare locale. La forma di vita ricorrente nella maggior parte delle nuove città industriali è il “regime della fabbrica-dormitorio”,6 spazi murati che organizzano sia la sfera della produzione, sia della riproduzione. In queste strane città, per la vita di relazione e di riproduzione, lo spazio-tipo personale di milioni di donne e di uomini è una branda recintata da una tenda cucita a mano e il posto a una macchina. Chi ci deve vivere è un’umanità sradicata, tipicamente non di coppia, migrante, mobile, giovane, in grandissima parte femminile e assoggettata a un lavoro totale. Queste, sono le forme di biopotere della contemporanea “accumulazione originaria” in cui sia lo Stato sia il capitale, come organi di un’economia globale di mercato, svolgono un ruolo fondamentale. A Shenzhen Longhua, il “campus” – così lo fanno chiamare – della Foxconn raccoglie attualmente 430.000 lavoratori e con i suoi 2,3 km quadrati include le fabbriche, i magazzini, i dormitori a dodici piani, l’ospedale, la televisione, i campi sportivi… Il campus produttivo di Guanlan, invece, con 120.000 dipendenti è composto esclusivamente di fabbriche e di dormitori altissimi, come avviene di solito. La dimensione di vita di questi urbani è un’estensione dell’officina, e una privazione costante di forme di vita sociale, in una città il cui “intelletto generale” è dominato dal fine della produzione per la produzione, realizzata a ritmi frenetici, con violenza. Queste relazioni di produzione, di dominio e di resistenza si aprono su una società urbana sempre più divisa tra cittadini interi, che possono “diventare ricchi più in fretta”, e gli altri. Ma anche in queste immense città post-metropolitane stanno sorgendo forme di soggettivazione, forme di lotta, forme di ritorno delle periferie verso il centro, che portano in sé istanze di “spazi di alterità”.

 

Il cosiddetto mondo-città della globalizzazione

I processi di accumulazione originaria e di periferizzazione si incrociano con il movimento di globalizzazione che accompagna la rivoluzione telematica, in particolare con la globalizzazione dell’economia capitalistica, ora nelle sue forme finanziarie, e con l’internazionalizzazione delle nuove tecnologie della comunicazione. In questo contesto, le macchine sociali passano al piano d’immanenza dell’immateriale, mentre le macchine tecniche allo spazio fisico della mobilità. L’incrocio di questi flussi e dei nuovi processi racchiude il mondo in una rete di connessioni che sembrano costituirlo in una sola e unica città, in un mondo-città unitario. Questa “megamacchina” che viene detta mondo-città, appare composta di spazi virtuali e fisici che, in ogni luogo geografico, si articolano secondo zone strettamente connesse con il globale e zone duramente radicate nel locale. Questa articolazione, che si produce soprattutto nell‘incontro tra il capitale globale e lo Stato, è politica e si presenta come un potente controllo sullo spazio in quanto pratica sociale, e sulle forme di vita in generale. Nella nuova industria il lavoro vivo è per una grande parte cognitivo e viene esercitato su un macchinario elettronico, biologico e affettivo, la cui posta in gioco è una macchinizzazione del mentale attraverso la sua razionalizzazione. Questa articolazione cognitiva del lavoro vivo induce un nuovo dualismo le cui parti mostrano nel contempo la messa al lavoro della vita stessa nel suo insieme e la sindrome tecnica di una grande massa di lavoro non più garantito.  Questo intreccio è la Megalopoli. Una cartografia minima di queste zone post-metropolitane della globalizzazione mostra meticolose divisioni tra diverse categorie di cittadinanza e dappertutto la costituzione di spazi urbani da parte di una moltitudine di minoranze che cercano un proprio divenire, non solo nel “pianeta degli slum” raccontato da Mike Davis, perché la non-città è dentro in tutti gli spazi urbani contemporanei che abitiamo. Essa mostra ancora la diffusione di sempre più numerose gated communities, l’urbano recintato, chiuso e securizzato; nonchè le zone delle torri ad alta tecnologia, le architetture metropolitane che ospitano i luoghi del virtuale, i nuovi laboratori detti dello spirito, e della finanziarizzazione. E ancora le fabbriche-dormitorio, come quelle di Shenzhen, dove in spazi rigorosamente recintati e in-comunicanti, si produce gran parte delle macchine per la comunicazione del mondo intero. Essa mostra anche la decostruzione fisica degli spazi di relazione e di vita provocati dallo tzunami dei subprime…

Il paradosso di questa globalizzazione, diretta non dimentichiamolo dalla potenza telematica della finanziarizzazione, è che più apre ogni via e si spinge oltre ogni confine, più nel medesimo tempo deve rinchiudere gli spazi conquistati dentro forme di controllo piene di barriere. Più allarga il piano di connessioni, più deve impedire le soggettivazioni e gli incontri di singolarità, di differenze. Hanno pensato di aver chiuso il tempo e lo spazio con la globalizzazione, perché nessun altro spazio sembrava possibile al di fuori di questo mondo-città dell’accumulazione, virtuale e fisico nello stesso tempo. Ma si sbagliano a pensare di poter chiudere il divenire. Tutte le periferie oggi sono e si muovono al centro stesso delle cose, di quello che vien detto mondo-città: come avviene nella radicalizzazione degli scioperi urbani della “nuova classe operaia” in Cina, dove la questione centrale, di nuovo, è di uscire da questo lavoro assoggettato che ha sequestrato la forma stessa dell’agire umano; come avviene nelle nuove soggettivazioni delle moltitudini di Piazza Tahir a Il Cairo, nelle piazze della Tunisia e nella irriducibilità dei Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania; come avviene nelle istanze per nuove forme di vita e nuove cartografie del desiderio, oltre la dittatura della finanziarizzazione  avanzate dagli Indignados della Plaza Real a Madrid e da Occupy Wall Street a New York; come avviene nella rinascita politica e nelle lotte delle comunità Indios e di quelle metropolitane in America Latina… e in tutte le individuazioni della vita propria alla materia che si rivendica come non più governabile.

 

Pubblicato su Millepiani-Urban no. 5 / Cartografie del desiderio.

 

NOTE

1. Foucault M., Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976, p.216.

2. Foucault M., “Précisions sur le pouvoir”, in Dits et Ecrits 1978, Paris, Gallimard 1994, p.628.

3. Sandro Mezzadra ha dato un contributo decisivo rileggendo ”la cosiddetta accumulazione primitiva” come una critica del presente in Lessico marxiano, Roma, Manifestolibri, 2008, pp. 23-51.

4. Deleuze G.- Guattari F., Milles Plateaux, Minuit,1980, p.559.

5. Gambino F. e Sacchetto D., “Le spine del lavoro liquido globale” in: Pin Ngai, Cina. La società armoniosa, Milano, Jaca Book, 2012 p. IX

6. Pin Ngai, Cina. La società armoniosa, a cura di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, Milano, Jaca Book, 2012, p. 82 e p. 157-173.

 

 

 

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