La costituzione del comune


  02 / 09 / 2012

di COLLETTIVO UNINOMADE

0. La Costituzione va difesa o liquidata? Come sempre quando si parla di cose concrete ci si capisce meglio, ne abbiamo avuto un ennesimo esempio nell’ultimo mese. Così a Taranto, ad esempio, che si ritenga la repubblica fondata sul lavoro oppure sulla libertà di impresa, tutti insieme – dalla famiglia Riva alla sempre più ristretta famiglia Vendola, dai sindacati (davvero tutti, nessuno escluso) all’ineffabile ministro Clini, dal partito dell’austerità a quello di Repubblica – sono appassionatamente d’accordo: nessuno tocchi la fabbrica della morte. In questo caso si può perfino sacrificare la magistratura, fino a ieri eletta sacra custode della costituzione di fronte al demoniaco Berlusconi. Che la costituzione “materiale”, di cui quella “formale” si pretendeva espressione, si sia esaurita, d’altro canto, non lo scopriamo oggi – e per parte nostra assumiamo questo esaurimento come punto di partenza del prossimo seminario di UniNomade (Roma, 27/28 ottobre), dedicato proprio a temi costituzionali. La sua possibilità di mettere in forma, ovvero contenere la composizione del lavoro vivo si è sfaldata già negli anni ’60 e ’70, nelle lotte operaie che hanno fatto saltare la misura del valore, nella conseguente fine della prospettiva socialista, nell’insorgenza di quel precariato cognitivo oggi al centro dei rapporti sociali. Chi vuole individuare la fine della prima repubblica sarà bene che inizi a volgere lo sguardo alla radicale trasformazione postfordista del lavoro e alla produttività delle lotte che hanno sfidato, sempre tra i ’60 e i ’70, le mediazioni tradizionali, non al termidoro guidato dalla magistratura o dal sistema dei partiti.

Se così è, allora, il problema non è l’“adeguatezza” della Carta del ’48, fosse anche solo per un piano avanzato di sviluppo del conflitto. La domanda è: c’è ancora in essa qualcosa da difendere, magari in modo tattico oppure immaginando questa difesa come tappa necessaria verso qualcos’altro? É praticabile, per dirla in altri termini, una politica della trasformazione che proceda per stadi di sviluppo, che dalla difesa del pubblico si sviluppi in costituzione del comune? Questa domanda non ha nulla a che vedere con un esercizio speculativo: interroga le lotte, attraversa in modo inquieto i movimenti, riguarda la tattica e la strategia. Sul fronte opposto i neoliberali – la cui truce aggressività, sarà bene ricordarlo, è direttamente proporzionale al fallimento e alla crisi irreversibile delle loro politiche – una riposta l’hanno già data da tempo. I continui interventi commissariali nella nomina dei governi cosiddetti tecnici, l’inserimento in Costituzione della “regola aurea” del pareggio di bilancio, la determinazione della Bce ad agire solo se prima i paesi che chiedono un intervento di salvataggio accettano di sottostare a ulteriori condizioni, aggiuntive rispetto a quelle già concordate con la Commissione europea, mostrano con chiarezza il terreno di attacco scelto dal nostro nemico.

Non si tratta semplicemente della “dittatura finanziaria”, etichetta retoricamente efficace ma che corre il rischio di identificare il nemico esclusivamente nelle troike e gli alleati nei residui rappresentanti della sovranità nazionale. Poiché gli uni e gli altri agiscono di concerto, il problema non è ristabilire il primato della “politica” (i partiti) sull’“economia” (i mercati). Il problema è la critica dell’economia politica: la ricchezza finanziaria rimanda infatti al comando sul comune, al grado di autorità che i governi riescono ad esercitare sulla moltitudine attiva, produttiva di cooperazione, legame sociale, sapere diffuso. Da soli, dunque, i mercati finanziari non sono in grado di portare a compimento questo programma di feudalizzazione del comune, hanno bisogno delle istituzioni statali, degli apparati politici e giuridici di cattura, delle modifiche della costituzione. La questione della rappresentanza si pone a questo livello, e a questo livello deve porsi la lotta di classe “oltre la rappresentanza”.

Rovesciare la situazione significa perciò non attestarsi sulla trincea di una difesa reattiva della Carta del ’48, ma guadagnare un campo autonomo di battaglia, ossia affermare la capacità costituente del comune. Già sentiamo gracchiare le accuse di utopia a fronte della stagnazione delle lotte nella crisi. E se invece proprio questa stagnazione fosse dovuta all’incapacità di uscire da un piano di mera difesa reattiva, alla distopia di un retroguardismo incapace di cogliere la ricchezza del comune? Questioni politiche urgenti, su cui è necessario approfondire la discussione, a cui soprattutto dobbiamo iniziare a dare collettivamente qualche risposta.

1. Che cosa significa allora oggi, dentro la crisi, aprire una riflessione su temi “costituzionali”? Per noi significa essenzialmente due cose: rilanciare la critica del diritto, la critica dell’economia politica della costituzione, e al tempo stesso sporgere lo sguardo oltre l’esistente, collocarci saldamente all’interno dell’orizzonte costituente che i movimenti e le lotte hanno pur contraddittoriamente aperto. È una prima ipotesi di lavoro, l’indicazione di un metodo: oggi la critica, per essere efficace, deve legarsi immediatamente alla prefigurazione di un’alternativa radicale, deve vivere all’interno delle pratiche con cui i soggetti dominati e sfruttati resistono alla violenza della crisi e contribuire a dislocare la resistenza, liberandola da ogni connotazione meramente “reattiva”, su un terreno appunto costituente.

Porre l’accento sulla dimensione costituente, sottolineare l’irriducibilità della nostra posizione alla mera “difesa” della Costituzione, attorno a cui – soprattutto in Italia – si aggregano molte retoriche e posizioni politiche di sinistra e di movimento, ci ha portato da molti anni a dialogare con un gran numero di approcci teorici che, dall’interno come dall’esterno delle scienze giuridiche, hanno avanzato la tesi che il ciclo storico del costituzionalismo sia giunto al termine. Che il tempo della costituzione sia semplicemente finito. È un’ipotesi che assumiamo problematicamente, e che non può mancare di avere delle conseguenze per il modo stesso in cui immaginiamo la dimensione costituente.

Il nostro punto di partenza è un’analisi determinata del grande ciclo storico del costituzionalismo novecentesco in Europa, di cui la Carta costituzionale italiana del 1948 rappresenta un’espressione per molti aspetti esemplare. Dentro lo scenario nuovo che è aperto dalla Grande guerra e dalla Rivoluzione di Ottobre, la Costituzione è costretta a divenire democratica e sociale: al suo centro non sono più l’istituto del contratto e l’individuo liberale ma il lavoro salariato. A partire da Weimar, la costituzionalizzazione del lavoro è immediatamente costituzionalizzazione della lotta di classe: contrattazione collettiva e diritto di sciopero sono le figure attraverso cui la Costituzione “legge” le soggettività di lavoro e capitale e registra – puntando a neutralizzarla – l’ipoteca operaia sullo sviluppo. Peculiari squilibri sono così introdotti nella Costituzione, come appare particolarmente chiaro dalla problematica convivenza di diverse (se non contraddittorie) definizioni dell’istituto della proprietà. Lo iato tra costituzione formale e costituzionale materiale si allarga, la Costituzione si fa “lunga” e “programmatica” nel tentativo di convertire quello iato in motore dello sviluppo costituzionale e matrice organizzativa della dialettica tra capitale e lavoro.

Che questa costituzione sia finita, dunque, è questione su cui non ci pare necessario spendere ulteriori parole. Abbiamo molte volte descritto i termini del suo esaurimento, che coincide con la trasformazione radicale del capitalismo che abbiamo vissuto a partire dagli anni Settanta del Novecento, e soprattutto con la drastica ridefinizione delle figure soggettive di capitale e lavoro rispetto a quelle che hanno caratterizzato il capitalismo industriale nella fase della cosiddetta produzione di massa. Ormai da molto tempo, in particolare in Italia, l’unità del sistema costituzionale è stata disarticolata, singoli articoli della Carta del ’48 sono stati profondamente modificati nella loro “funzione”, altri sono stati svuotati di significato, altri ancora semplicemente non sono mai stati applicati. Ma come già detto, dentro la crisi, l’attacco neo-liberale assume esso stesso caratteri direttamente “costituenti”. A ricevere nuovo impulso è una tendenza alla patrimonializzazione della sovranità, già prefigurata dal modello della “messa a gara” e dello “Stato regolatore”, dall’uso estensivo della tecnica dell’emergenza ad esempio a partire dalla “riforma” della Protezione civile del 2001 nonché – per venire a sviluppi più recenti – dal Piano carceri e dalla riforma delle professioni legali attualmente in discussione.

L’iniziativa costituente a noi nemica agisce direttamente il terreno della disarticolazione dell’unità del sistema costituzionale, sovra-determinandola con deboli basi di legittimazione sotto il profilo discorsivo e politico ma con la “copertura” della violenza del diretto comando finanziario. Non è un’iniziativa “nazionale” come non è “nazionale” la logica di questo comando. Quella che è stata definita la “rivoluzione dall’alto” in atto a livello europeo, all’interno di trasformazioni profondissime degli equilibri capitalistici globali, è immediatamente il piano su cui l’azione costituente neoliberale deve essere interpretata e contrastata. Anche qui ripetiamo quanto abbiamo spesso affermato in questi anni: una politica di classe capace di riconquistare il terreno costituzionale deve muovere dalla reinvenzione pratica di quello che hanno rappresentato nel ciclo delle costituzioni democratiche novecentesche la contrattazione collettiva e il diritto di sciopero. Deve cioè inventare gli strumenti con cui imporre al capitale finanziario un nuovo rapporto di forza, analogo a quello che la lotta operaia seppe imporre al capitale industriale. E questo non può avvenire nello spazio nazionale, quantomeno in Europa. A ciò si deve aggiungere un elemento analitico di cruciale importanza per comprendere la natura strutturale dei processi di decostituzionalizzazione di fronte a cui ci troviamo: ci riferiamo alla moltiplicazione praticamente incontrollabile delle “fonti” giuridiche, al radicale pluralismo giuridico che, ricomprendendo la Costituzione all’interno di più complessi assemblaggi e regimi ne indebolisce e ne decentra la capacità normativa. Una politica costituzionale attestata all’interno degli spazi nazionali finirebbe per subire questi processi di indebolimento e di decentramento.

2. Quanto fin qui detto non significa che non siano possibili tentativi di agire politicamente dentro e contro quella che abbiamo definito la disarticolazione del sistema costituzionale anche in singoli paesi, ad esempio in Italia. Specifici articoli della Costituzione del 1948 (pensiamo ad esempio all’articolo 9, che pone il “paesaggio” al di fuori del diritto dominicale, o alle “comunità di lavoratori o di utenti” previste dall’articolo 43) si prestano indubbiamente a essere utilizzati dentro le lotte che si determinano oggi sul terreno del comune. La stessa “energia” innovativa che si espresse attorno alla costituente potrebbe forse essere retoricamente invocata dall’interno di una machiavelliana politica del “ritorno ai princìpi”. Ma nella consapevolezza che il “ritorno ai princìpi” non ha alcuna efficacia se non è al tempo stesso matrice di un’apertura radicale e di una nuova materiale innovazione. È in fondo la questione della proprietà quella su cui necessariamente si giocano questa apertura e questa innovazione. È lo stesso sviluppo del capitalismo che, classicamente, sta mostrando tutta l’arbitrarietà di questo istituto e del “terribile diritto” attorno alla cui vigenza, nel capitalismo, si organizzano i rapporti sociali nel loro complesso.

Lo ripetiamo: non sappiamo se la critica della proprietà, il suo materiale spodestamento dal centro della cooperazione sociale, può trovare un contenitore “costituzionale”. Sappiamo però che è il terreno essenziale su cui l’istanza costituente deve esercitarsi. Parole antiche e a noi più prossime – “usi”, “accesso” – possono certo soccorrerci in questo compito. Ma entrambe queste parole presuppongono l’esistenza di ciò che si “usa” o a cui si ha “accesso”. Guardando oggi invece alle esperienze che stanno riproponendo questi temi, in un modo che comincia a trovare riconoscimento anche in qualche sentenza e in delibere di amministrazioni comunali, indagando negli esperimenti delle occupazioni dei teatri, dei cinema, dei luoghi della conoscenza, diventa chiaro che “uso” e “accesso” non si radicano oggi in nessun presupposto oggettivo, ma all’interno di pratiche inedite attraversate dalla produzione di nuova soggettività. Se insistiamo sull’importanza di distinguere il “comune” al singolare dai commons nominati al plurale, è perché pensiamo che il primo termine ci aiuti a pensare la produzione, affatto materiale, delle condizioni complessive di una cooperazione finalmente sottratta allo sfruttamento: il supplemento politico, il soggetto, senza il quale nessun processo costituente è possibile. Per queste ragioni, quindi, pensiamo che nessuna politica dei “due tempi” sia possibile: perché ciò che a sinistra si vorrebbe difendere (il pubblico sancito dalla Costituzione) è già da tempo dissolto e privatizzato dall’iniziativa capitalistica e dalla corruzione delle burocrazie statali. Non è un terreno da cui ripartire, ma un campo di consolidamento dei poteri costituiti.

Del resto, l’urgenza politica delle questioni qui sollevate è ampiamente dimostrata dall’insistenza con cui i movimenti hanno posto in rilievo i temi costituzionali, nell’ambiguità difensiva e, diremmo soprattutto, nella possibilità di iniziativa costituente. La ritroviamo, questa urgenza, in Spagna, nella dissoluzione del sistema politico post-franchista, produttivamente agita dal movimento 15-M; negli Stati Uniti, nella fine della speranza obamiana determinata da Occupy; in Tunisia e nelle insorgenze arabe, nella forza destituente e nelle difficoltà del loro divenire nuova potenza costituente; e anche in Italia, nella straordinaria generalizzazione della resistenza No Tav, oppure nei complessi processi di soggettivazione dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo. E non dimentichiamo gli insegnamenti e i terreni avanzati di pratica e discorso conquistati nello straordinario, ancorché fecondamente contraddittorio, laboratorio latinoamericano. Tutti questi movimenti e altri ancora ci parlano di un nodo politico centrale: la costituzione del comune.

In questo quadro, l’irrappresentabilità non è più un obiettivo, ma un contenuto della nuova composizione del lavoro vivo. Chi non l’ha ancora capito, dentro e fuori dai movimenti, è destinato a una morte politica che, purtroppo, sul medio periodo rischia ancora di arrecare danni e funzionare da tappo, ostacolando lo sviluppo di processi di ricomposizione. In ogni caso, su questa base vale forse la pena cominciare a individuare collettivamente un insieme di princìpi che consideriamo indisponibili e inalienabili. Non si tratta di adagiarci sul linguaggio dei diritti, che va sovvertito e superato, né di ripercorrere un’ingenuità settecentesca: il punto è usare in modo paradossale l’affermazione dei princìpi, contro la loro supposta naturalità teologica e astorica, per formulare alcuni elementi essenziali di programma imposti dalle pratiche di lotte e non da un astratto criterio di giustizia. Così, allora, il comune, il reddito, il rifiuto del debito e l’insolvenza, la libertà di movimento, l’esercizio cooperativo del sapere, il commonfare, la riappropriazione della moneta, devono divenire punti concreti di iniziativa costituente. In questo passaggio, inevitabilmente europeo e transnazionale, si gioca il rovesciamento dei rapporti di forza.


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