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La potenza del punto di vista precario

Posted By Anna On January 21, 2011 @ 10:56 pm In Articoli,Italiano | Comments Disabled

di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI

La fertile invenzione semantica del punto di vista precario che ha animato e riscaldato l’inverno durante gli Stati Generali della Precarietà, il 15 e il 16 gennaio a Rho (Milano) al Cso Fornace, richiama da vicino il punto di vista femminista di cui scriveva Sandra Harding nel suo The science question in feminism del 1986.

Scegliere il punto di vista vuole dire creazione di saperi situati utili a poter fare una corretta diagnosi della situazione. Vuol dire – nel caso di Harding come in questo – che l’esperienza diviene un metodo del discorso che non può mai essere del tutto costretta dalle relazioni di potere. Il legame forte con una tacita conoscenza, sempre ancorata alla vita reale, materiale, quotidiana, senziente rende speciale il punto di vista dei precari e soprattutto dà loro la capacità di intuire e poi di comprendere fino in fondo il rapporto che esiste tra consapevolezza e potere. Solo in questo modo, dentro un processo cooperativo, dentro una dinamica che costruisce un discorso comune, può svilupparsi potenza. Trovando, in perfetta autonomia e con grandissima sintonia, da sé le soluzioni giuste per sé. La rivelazione centrale degli Stati Generali di Milano è stata questa: i precari cominciano a individuarsi come realtà moltitudinaria (un mosaico) con un unico identico baricentro che è (curioso accostamento di parole) la condizione precaria dell’esistere.

A partire da questa manifestazione i precari tracciano la strada. Il divenire soggetto non è forse l’obiettivo di questa prima fase, dentro un mutamento sostanziale di paradigma? L’autopercezione collettiva della condizione precaria come condizione sociale paradigmatica della contemporaneità non è ancora (né può essere) percezione di una condizione di classe. Oggi è l’esperienza materiale della vita precaria, che è quella di tutte e di tutti, articolata nei suoi molteplici aspetti (precarietà cognitiva, operaia, migrante, delle donne, degli affetti, delle scelte, dei luoghi…), che viene posta al centro, che va incontrata e fatta incontrare, riconoscendone allora, finalmente, le potenzialità, la forza. Non è un paradosso, ma i punti unificanti di questa nuova ontologia precaria che si rivela e prende forma, vanno rintracciati proprio a partire dalla consapevolezza, ormai assodata, della sostanziale diversità e della frammentazione di queste distinte figure e circostanze.

Tutto è cominciato a partire dal primo appuntamento degli Stati Generali di Milano, in ottobre. La crisi economica da un lato imperversa ma dall’altro – nel disfacimento di molte convinzioni errate – apre la porta ad abissi affascinanti di libertà di pensiero e di azione.  A Milano si è compreso che la potenza della cooperazione vuole dire tracciare la strada a una pratica cosciente e consapevole in cui le “storie personali” possono illuminare le scelte teoriche e politiche e viceversa. Il sentire e i bisogni dalle entità fratturate che compongono la base emergente della società postmoderna portano con sé, in sé, per forza, anche la capacità di stabilire alleanze e instaurare nuove forme di reciproca solidarietà. “Scegliere” il punto di vista precario vuol dire riconoscerne l’“attualità”, cioè la paradigmaticità  delle pratiche e delle attività a esso collegate. Vuole dire anche imparare ad accompagnarsi e a sostenersi e, da lì, imparare a rilanciare la lotta, il conflitto.

Siamo sempre stati attenti e sensibili alla potenza dei processi cooperativi, soprattutto quando espressi da realtà di eccedenza e di critica sociale e politica. Si era già constatato (non era complicato da capire) come i processi di precarizzazione fossero l’elemento generale e strutturale del mercato del lavoro di oggi. In qualunque segmento di lavoro (fabbrica metalmeccanica, call-center, editoria, informazione, scuola, formazione, terziario….), la condizione attuale del lavoro è caratterizzata in modo pervasivo da incertezza, intermittenza e ricattabilità. Il fatto interessante emerso da questi Stati Generali è che la realtà vera del mercato del lavoro rivela una condizione di generalizzata precarietà esistenziale del tutto rimossa dalle organizzazione sindacali.

Fiumi di inchiostro sono stati spesi sulla sorte funesta a cui sta andando incontro il contratto collettivo di lavoro. Vogliamo ricordare che meno del 50% dei lavoratori e delle lavoratrici sono oggi “formalmente” tutelati da una simile contrattazione. Nella realtà effettiva tale percentuale scende a meno del 30%. Tale è infatti la quota di lavoro che in Italia può godere del “lusso” di una rappresentanza sindacale (a prescindere dalla sua efficacia, come sanno molto bene i lavoratori della Fiat) che, in vario modo (e al ribasso) tutela l’applicazione delle norme concertate a livello nazionale e a livello aziendale.

Da tutto questo i contratti atipici e precari sono esclusi. I precari sono pure al di fuori, nella maggior parte dei casi, da qualsiasi forma di ammortizzatore sociale. Non è un caso che negli Stati Generali della Precarietà si sia discusso ampiamente della necessità di proporre una struttura di welfare adeguata ai bisogni della condizione precaria, che vuole dire la totalità del mondo del lavoro contemporaneo: agli Stati Generali si sono incontrati i precari che andavano incontro alla “scadenza” della mannaia del Collegato lavoro e gli operai di Mirafiori, definitivamente precarizzati dagli ultimi accordi firmati dai loro rappresentati sindacali, agenti della governance contemporanea.

La precarietà è il modo con cui si creano profitto, controllo e ricchezza, ma anche la maniera con cui si tengono insieme ricatto e consenso. Una condizione comune che comincia a richiedere strumenti di azione adeguata.. Una cassetta degli attrezzi che deve necessariamente tenere conto del fatto, lo ribadiamo, che la precarietà si presenta in primo luogo come “condizione soggettiva” (seppur caratterizzata da elementi di omogeneità) e non immediatamente come “classe”.

Il punto di vista precario è fattore di innovazione radicale anche nella pratica politica: la narrazione collettiva degli Stati Generali ha dato forma all’idea di uno sciopero precario. Non semplicemente (come fosse semplice) uno sciopero dei precari e delle precarie, bensì uno sciopero sulla precarietà e nella precarietà. Uno sciopero “sulla precarietà” significa creare le condizioni perché i precari si astengano dal lavoro. Uno sciopero “nella precarietà” significa lo sviluppo di forme di contaminazione che aiutino a maturare una consapevolezza e una coscienza ulteriore della propria condizione.

Nella tradizione novecentesca, lo sciopero ha rappresentato il culmine della consapevolezza, espressione di coscienza di classe e di conflitto. Nell’era della precarietà esistenziale e generale, lo sciopero precario deve essere invece inteso come momento di inizializzazione della coscienza di sé e del proprio sfruttamento: strumento per sviluppare una futura coscienza di classe. Lo sciopero precario è quindi strutturalmente diverso dallo sciopero tradizionalmente inteso. Andrà immaginato come una nuova forma di lotta, in grado di far collaborare e di rafforzare nell’incontro le diverse soggettività precarie, dovrà mirare al blocco dei flussi della produzione e della circolazione delle merci e delle persone: in una parola punterà al sabotaggio del profitto e della rendita. Si dovranno creare le condizioni affinché l’astensione dal lavoro dei precari si renda praticabile, colpendo con ciò i gangli della produzione materiale e immateriale che oggi maggiormente sfruttano il lavoro dei precari, migranti e nativi.

Contemporaneamente dovrà presentare proposte e indicare obiettivi che creino le premesse di un superamento della condizione precaria: in poche parole, un nuovo welfare del comune in grado di rendere praticabili il diritto alla scelta del lavoro (garanzia di reddito incondizionato per tutti i residenti, libero accesso ai servizi sociali e ai beni comuni, introduzione di un salario minimo orario) e il diritto alla vivibilità, alla mobilità e alla socialità in opposizione alla nuove forme di rendita (immobiliare e finanziaria) che oggi sempre più sono alla base della crescita dei profitti delle imprese industriali, dei servizi e della finanza.


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