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La riforma Fornero

 

di GIANNI GIOVANNELLI

Il disegno di legge governativo elaborato, dopo innumerevoli compromessi, dal ministro Fornero sarà esaminato dalla Commissione Lavoro del Senato a partire dal 18 aprile, in sede cosiddetta referente (e non deliberante, ovvero dovrà necessariamente passare al vaglio delle due Camere, con possibili modifiche: segnale questo, non equivoco, di un qualche conflitto, perché ove il tripartito che sostiene Monti fosse stato totalmente d’accordo si poteva procedere all’approvazione già in Commissione). La commissione è di 25 membri; ci sono tre sindacalisti di professione (e di lungo corso: Nerozzi, Troilo e Passoni), per il resto la rappresentanza imprenditoriale domina la scena (anche nel PD: Ichino è un avvocato delle grandi aziende; Rita Ghedini è una funzionaria di vertice delle cooperative emiliane; Adragna e Blazina sono dirigenti). Non potevano mancare in un simile consesso un vecchio industriale come Pininfarina, il consueto Sacconi e la mitica Rosi Mauro. Interessante è sapere chi siano i relatori nominati: Tiziano Treu (consulente datoriale oltre che professore) e Maurizio Castro (abile ed esperto dirigente d’azienda, la controparte storica dei lavoratori nelle trattative cui partecipava prima dell’elezione). I lavoratori italiani non possono certo dormire sonni tranquilli, fra le grinfie di costoro!

Oltre alle questioni continuamente dibattute (la cancellazione o meno dell’articolo 18) si celano dentro la riforma Fornero una serie di disposizioni sfacciatamente aggressive e volte a determinare un incremento geometrico del processo di precarizzazione e di controllo sociale dell’intera esistenza della fascia debole.

L’articolo 3 del Disegno di Legge (mantenuto nel silenzio) modifica la normativa che regola i contratti a termine e quelli di somministrazione (gli interinali per capirci) lasciando campo libero; in spregio delle regole comunitarie potranno essere arruolati mediante contratti da un giorno fino a sei mesi studenti, immigrati, giovani, donne, disoccupati ed emarginati, senza alcuna motivazione, senza limiti percentuali, senza prospettive e senza tutele, a totale discrezione e piacimento del più forte. La modifica tocca proprio il terreno in cui i precari avevano ottenuto i maggiori risultati (per esempio in Telecom, in DHL, nella logistica e nei servizi) e rade al suolo qualsiasi opposizione; qualche mese di sfruttamento intensivo e qualche lista di proscrizione contro i ribelli ottengono l’effetto di costruire un bacino di manodopera pienamente succube e costretta dalla necessità a piegarsi. Altro che contributo alla crescita e creazione di occupazione (come si legge nella premessa del ministro); questa è una delle modifiche più violentemente reazionarie (non solo ultraliberiste) che siano mai state concepite  in danno dei lavoratori. La flessibilità in entrata viene concepita come un metodo che conduca a domare una popolazione giudicata riottosa e indocile; brevi contratti e apprendistato sottopagato (la percentuale fra apprendisti e stabili era di 1 a 1, ovvero al massimo un operaio poteva formarne un altro: con la riforma il rapporto è di 3 a 2, aumentando la quota a bassa retribuzione); riduzione dell’assistenza ai licenziati (a regime la quota massima di 48 mesi di sussidio scende a 18 mesi anche per l’accompagnamento alla pensione). Quanto ai lavoratori a progetto la riforma prevede un forte incremento del costo contributivo, a carico dei lavoratori, fino al 33% della retribuzione quando le modifiche andranno a regime. Ed anche la Cassa Integrazione (antico ammortizzatore sociale italiano fin dal 1944, con il Decreto Luogotenenziale Badoglio) viene drasticamente ridotta. Avevano cominciato sostenendo che la liberalizzazione del licenziamento sarebbe stata affiancata da un incremento della tutela di chi era colpito dalla crisi; mentivano (e, come teorizzava Joseph Goebbels, sapendo di mentire, con il fine di cancellare l’inevitabile dissenso connesso alla verità) e nel disegno di legge viene ridotta un’assistenza ai disoccupati che già era la più miserabile concessa ai lavoratori dell’area industrialmente avanzata (il G8). Al tempo stesso non vengono toccati i santuari del ceto che sostiene il potere (politico, burocratico, finanziario, militare). Non si tocca l’appalto illecito di manodopera, lasciato in gran parte alla criminalità organizzata; e nessuna norma sanziona il lavoro nero cui il capitale finanziario non intende certo rinunziare (e l’assenza di sanzioni incoraggia di fatto la sua diffusione). Le due omissioni rafforzano il disegno di precarizzazione a tappe forzate.

Come noto la tutela contro i licenziamenti, in Italia, riguarda una sostanziale minoranza della popolazione attiva. Sostanzialmente si limita ai dipendenti pubblici (compresi i dirigenti, ma esclusi i precari che sono in costante aumento percentuale) e ai dipendenti privati stabili che lavorano in società con oltre 15 dipendenti (purché non di cooperativa, grazie ad una brillante realizzazione del centrosinistra nel 2001). I giornalisti li hanno definiti privilegiati chiedendo a gran voce di mettere rimedio alla disuguaglianza. La campagna mi ha ricordato la celebre vignetta di Wizard of Id; il popolo chiedeva pane e lavoro ed il re, invocando il principio di mediazione al 50%, concede il lavoro (forzato e con le catene) ma non il pane! Nel nostro caso l’idea di Elsa Fornero (come mediazione, naturalmente) era quella di concedere la parità (tutti licenziabili) negando l’assistenza ai parificati (licenziati). Una soluzione cortese e sadica, secondo la tradizione sabauda piemontese; ma rivelatasi impraticabile a fronte di un necessario equilibrio fra le tre formazioni che appoggiano il governo.

Ovviamente la direzione del partito democratico sarebbe stata ben lieta di cancellare la protezione di stabilità; ma rendendo esplicita una simile posizione si sarebbe esposta a rischi seri di sconfitta elettorale, alla concorrenza di SEL e IDV. D’altro canto la guerra ideologica per imporre il controllo del sistema mediante l’abbattimento delle residue tutele è un punto irrinunciabile per l’intero assetto di comando. Lo stratagemma adottato, consueto peraltro nella nostra penisola, è stato quello di organizzare una rappresentazione della trattativa, a toni forti, con la costante minaccia della rottura. Camusso ruba il ruolo a Fiom annunciando lo sciopero generale; Bersani e Raffaele Bonanni si affrettano a mediare; Napolitano invia il fermo monito   intimando l’accordo; il consiglio dei ministri approva il compromesso; Confindustria si indigna e chiama alla lotta. Nessuno fa sul serio; il compromesso era la partenza, non l’arrivo.

Per il momento non sono toccati dalla riforma i dipendenti pubblici (stabili ovviamente; quelli precari vivono una situazione che non era tecnicamente possibile peggiorare ulteriormente); Cisl e Uil vanno sostenute e quello è il loro bacino di tessere. Inoltre il rapporto fra ceto politico e dirigenza pubblica costituisce una rete clientelare che in questo momento è di grande utilità per l’avvento del pensiero-governo unico. E non si sfiora neppure il massiccio pacchetto che consente le maxiliquidazioni ai grandi dirigenti privati, ai protagonisti della comunicazione (stampata e radiotelevisiva); infatti il consenso alla riforma è plebiscitario, con uso disinvolto della menzogna per argomentarlo. Ci ricorda Bonanni (Il tempo della semina, pagina 142, Milano, 2010): “Non mi nascondo come forze disgregatrici da non sottovalutare siano al lavoro. Né mi sfugge di essere considerati nemici per la nostra volontà di non arrenderci al caos…..per salvare le imprese bisogna mobilitarsi anche per salvare l’Italia”. Questa è l’ideologia del consenso di cui il capitale finanziario ha bisogno; questa è la filosofia politica ed economica che ha portato al varo del Governissimo con il sostegno di destra e sinistra, ala scelta autoritaria di cui questa alleanza è portatrice con la benedizione del presidente della Repubblica e delle grandi banche.

Il bersaglio della riforma (oltre ai precari) sono i lavoratori stabili del privato ritenuti a profitto ridotto. Nelle grandi imprese (finanziarie, metalmeccaniche, siderurgiche, chimiche, farmaceutiche, della comunicazione, della logistica e del trasporto) vanno espulsi i cinquantenni ormai logori, troppo costosi e poco disponibili alla cessione del tempo di vita nella sua totalità; vanno sostituiti con giovani precari, ricattati e ricattabili, già espropriati delle loro speranze, senza sogni per il futuro. Ed ancora vanno eliminati, con interventi radicali, tutti i lavoratori che si presentano a capacità lavorativa ridotta per ragioni fisiche, psichiche o psicofisiche; mediante le modifiche si vuole facilitare questo processo che già da tempo era in atto, e non di rado con l’aiuto delle strutture sindacali interne, sempre più corrotte e/o indebolite.

Con le nuove norme sparisce (salvo che per i licenziamenti cosiddetti discriminatori) la certezza della reintegrazione, anche in caso di accertata illegittimità del licenziamento. Sarà il Giudice, di volta in volta, a decidere se reintegrare (ma con il limite di dodici mesi quanto al danno) o assegnare il solo risarcimento, cancellando il rapporto di lavoro (da 12 a 24 mesi); e lo potrà fare solo se il lavoratore dimostri (con prova a suo carico) che il licenziamento non solo sia illegittimo, ma che lo sia in modo davvero clamoroso (il disegno di legge recita: manifesta insussistenza). In buona sostanza si prepara il terreno (fertile) per rendere la reintegrazione una ipotesi soltanto residuale.

Mentre nei paesi industriali la prova della inesistenza della discriminazione è a carico delle imprese (il lavoratore deve solo affermarla), l’Italia è l’unico paese che impone alle vittime di provare di essere discriminate; e mentre in USA non esiste limite al risarcimento in caso di accertata discriminazione qui da noi si riduce in tutte le maniere il costo per le imprese. Anche i tempi della giustizia sono posti a carico del lavoratore; se lo Stato ci mette dieci anni ad accertare che ti hanno fatto un torto, se ne rifonde uno solo (due ma se perdi anche il posto, e devi anche provare di avercela messa tutta a trovarne un altro)!

Da ultimo. Il processo del lavoro dovrebbe durare circa sessanta giorni; sono vietati i rinvii che non abbiano un motivo. E’ un processo rapido, sulla carta. Ma, per esempio, a Matera una causa di licenziamento iniziata nel 2001 (esatto: 2001) non è ancora terminata in primo grado. Non ci sono sanzioni; al massimo è possibile (ma grazie all’Unione europea) ottenere un (modestissimo) risarcimento per denegata giustizia. La riforma Fornero (sempre senza sanzioni) introduce un rito processuale veloce che tutti gli addetti ai lavori non esitano a definire pazzesco, ingestibile, destinato ad una rapida abrogazione (come già era accaduto a suo tempo per il rito societario). Ma in questo caso siamo nell’ambito dell’incapacità e della follia; non sono solo governanti reazionari e autoritari, sono anche (come i generali fascisti della seconda guerra mondiale) inguaribili pasticcioni.

 

 

 

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