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La scommessa vincente del convitato di pietra

 

di BENEDETTO VECCHI

Una volta smobilitate le urne elettorali, il grande assente della campagna elettorale – il lavoro vivo – comincia a fare capolino nelle dichiarazioni di vincenti e sconfitti. Sia ben chiaro, nessuna trasversalità. Quando viene citato, è accompagnato dalla soffocante retorica sulla crescita, che non può conoscere nessun impedimento per spiegare le ali.

Dunque, il lavoro continua ad essere presentato come una variabile dipendente dell’accumulazione di capitale. Poi, inaspettatamente, quasi come fosse un involontario lapsus, il terremoto che ha investito il sistemapolitico trova la sua origine proprio nel lavoro che manca, nella precarietà che soffoca desideri, aspirazioni di uomini e donne, condannandoli a un eterno presente. Un lapsus che mette a nudo le velleità di chi pensava alle elezioni come il punto terminale della ormaimaleodorante transizione italiana, che poteva concludersi con la stabilizzazione del sistema politico. Ma anche l’illusorio disegno di chi ha in questi anni alimentato la guerra di classe contro il lavoro vivo, ripristinando il sogno di un individuo proprietario che può tutto a patto che lo stato crei le condizioni di una sua assoluta libertà.

Come ogni lapsus, anche questo rivela alcune «verità». È da più di un decennio che l’irrappresentabilità del lavoro vivo rende instabile il sistema politico. Meglio, lo rende ingovernabile. Ogni equilibrio raggiunto si trasforma in disequilibrio, crisi di legittimità, conflitto, ogni volta che sono messe in discussione una condizione lavorativa, la sua riproduzione o la sua formazione. Per non tacere come il convitato di pietra del capitalismo contemporaneo – il cosiddetto lavoro autonomo di seconda o terza generazione – abbia contribuito a ridimensionare il potere esecutivo. Tutti i movimenti sociali dell’ultimo decennio hanno avuto come elemento propulsivo proprio le condizioni lavorative, sia usando il lessico dell’indignazione sia scagliandosi rabbiosamente contro il futuro negato; o contro quell’un per cento della popolazione che si appropria della ricchezza prodotta dal restante novantanove per cento. Maquesta è solo una parte della «verità».

C’è stata in questi anni, occorre ripeterlo, una guerra di classe contro il lavoro vivo. L’impoverimento è stata una costante delle mille forme di lavoro esistente. I salari percepiti, così come i redditi, sono fermi da due decenni, mentre il potere di acquisto ha fatto un balzo indietro di almeno 40 anni, come ha recentemente documentato l’International Labour Organization. Un arco temporale che ha visto erosi anche i diritti di cittadinanza. È ovvio che tutto ciò si sarebbe trasformato in uno tsunami. Uno tsunami che il Movimento 5stelle ha surfato, puntando a declinare indignazione, rabbia e rivolta nei termini più compatibili dell’opinione pubblica che si prende la libertà non solo di mettere a nudo le malefatte del potere, ma anche di penalizzarlo invocando un tranquillizante ricambio generazionale, sanzionando la «casta ». In ogni caso, qualsiasi compagine governativa che sarà messa in piedi dovrà tenere conto del «grande assente». È qui che simisurerà le capacità di governo dell’attuale parlamento. Possono, anzi è obbligatorio, fare una legge sul conflitto di interesse, sulla riduzione dei costi della politica, ma la cartina di tornasole sulla capacità di governo si misurerà sulla volontà o meno di modificare i rapporti di potere tra capitale e lavoro vivo. È altrettanto evidente che un ruolo rilevante spetta anche ai movimenti sociali. Il primo passo da compiere è dismettere i logori panni dell’opinione pubblica e agire politicamente. Per imporre un dignitoso reddito di cittadinanza, di una modifica della legislazione del lavoro che tuteli il lavoro precario senza gettare alle ortiche i diritti del lavoro conquistati nel passato. Per fermare la dismissione degli investimenti nella scuola, nell’università, nella ricerca. L’attuale, apparente ingovernabilità, più che un limite, può diventare l’occasione «per fare movimento per il movimento». Anche questa è una scommessa da giocare. Senza reticenze.

* da “il manifesto” 28.02.2013.

 

 

 

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