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La sovranità fra governo, eccezione e governance

 

di ANTONIO NEGRI

Riflessioni sul potere costituente e il costituzionalismo sociale

1. All’interno della riflessione postmoderna, il concetto di sovranità (quale era stato configurato nella tarda modernità) può essere considerato in crisi da almeno tre punti di vista. Innanzitutto nella prospettiva della trasformazione biopolitica del concetto di sovranità: come Foucault ci ha insegnato, dobbiamo riconcettualizzare la figura del governo, spostando la considerazione dell’agire sovrano da un contesto di produzione di leggi/regole ad un contesto di produzione di norme/dispositivi. S’intende che l’immersione del diritto nella vita, degli agencementes politico-giuridici in quelli del bios comune non è totalitario, non è puramente coercitivo e neppure – ci dice Foucault – semplicemente disciplinare. Si tratta di una nuova dinamica di dispositivi che intervengono sul tessuto singolare della realtà sociale e trasformano il diritto da macchina disciplinare in apparato di controllo e di governance (NOTA 1). In secondo luogo, il potere sovrano (meglio, il tendenziale esaurimento del suo concetto) può essere analizzato sulla base degli schemi offerti da Niklas Luhmann e dai suoi epigoni: essi hanno insistito nell’analisi della frammentazione del diritto, sulla crisi della sua figura normativa ed hanno cominciato ad analizzare (talora anche a ricostruire) processi di funzionamento di strutture giuridiche fuori dalla normatività statale. Procedendo in questi termini, essi hanno potuto notare come ogni sistema autopoietico (era all’autopoiesi che avevano affidato la critica) fosse solo illusoriamente collegato alla normatività statale, mentre invece esso diveniva attivo sul terreno dell’autonomia sociale (NOTA 2). In terzo luogo (ed anche questo sembra un dato ormai largamente acquisito) il concetto di sovranità s’indebolisce quando sia considerato nella prospettiva del diritto internazionale. In questo caso, il concetto di sovranità (tradizionalmente legato alla determinazione nazionale) era stato dai giuristi onusiani già profondamente modificato; poi, nella fase più recente, l’esclusività del concetto di sovranità nazionale e delle sue articolazioni nel contesto del diritto internazionale, è stata profondamente destrutturata (NOTA 3). Anche questa, come le altre due posizioni che abbiamo ricordato, conducono dunque alla conclusione che il concetto classico di sovranità nazionale sia stato, quand’anche non lo si voglia considerare “superato”, almeno così profondamente destrutturato da non essere ormai più definibile in un linguaggio westfalliano.

Tuttavia, qui di seguito, ci si potrebbe porre la seguente questione: che cosa s’intende esattamente quando si parla di superamento della sovranità? Innanzitutto si può notare che le esperienze teoriche che hanno cercato di verificare questa ipotesi non possono essere ricondotte ad un solo paradigma. Vediamole dunque una ad una, queste esperienze.

Nella prima (e cioè nella trasfigurazione biopolitica della sovranità e del governo sovrano) assistiamo, come abbiamo detto, allo scivolare della forma del comando dalle leggi/regole alle norme/dispositivi. Che cosa significa questo passaggio? Significa che l’insieme strutturale dello Stato di diritto non riesce più ad attenersi alle prescrizioni concrete dell’organizzazione normativa (e delle sue trafile legali) del “governo secondo la legge”. Secondo gli autori ai quali qui ci riferiamo, il carattere deduttivo delle leggi/regole non riesce più ad integrare il caso concreto, a regolare il conflitto nella sua singolarità, a costruire strumenti ai quali affidarsi (con continuità e ripetitivamente) nell’applicazione del diritto vigente. Norme concrete, dispositivi singolari vengono dunque messi in gioco all’interno di processi di governance, cioè di un management puntuale e specifico dell’equilibrio sociale, adeguato al caso concreto. L’effettività della norma assume una certa prevalenza rispetto alla legalità (NOTA 4).

Nella seconda esperienza cui abbiamo accennato (e cioè a quella che considera la possibilità di superare la frammentazione normativa attraverso il riferimento alternativo al “costituzionalismo sociale”) (NOTA 5), il problema della ridefinizione della sovranità diventa ancora più cruciale e la sua difficoltà ancora più esplicita. Il “costituzionalismo sociale” vuole operare autonomamente al di fuori dallo Stato. Esso si riferisce a dinamiche materiali che in maniera continua incarnano i processi innovativi, basici, della produzione del diritto. Se (riguardata dal punto di vista della teoria delle forme del potere) la “governabilità” (“gouvernamentalité”) di Foucault è ancora un tentativo di sviluppare una sintesi democratica “dal basso verso l’alto” del processo di costituzione dell’universo della legalità, se dunque la governabilità introduce un dispositivo soggettivo (che potrebbe – in qualche modo – corrispondere ai processi dell’”istituzionalismo giuridico” moderno) – di contro, la posizione dei filosofi luhmaniani del diritto pubblico tedesco lascia cadere ogni coerenza soggettiva dei processi illustrati. Il costituirsi della legalità si dà ormai solo, in questa teoria germanica (ma si tratta di un’esperienza legata anche al nuovo costituzionalismo europeo) (NOTA 6), su una dimensione orizzontale.  Alla tradizionale continuità del sistema legale (in regime di sovranità) si oppone la discontinuità dei processi costitutivi del diritto, alla coerenza il paradosso. Particolarmente interessante è, in questo quadro, la tendenziale dissoluzione delle categorie del pubblico e del privato. Pubblico e privato, piuttosto che essere originari, si instaurano aleatoriamente nel comune. È chiaro che, dietro questa concezione del processo giuridico, sta una sorta di “anarchia”: non è una forza che vuol distruggere l’insieme ma semplicemente un’azione plurale, irriducibile all’unità, non propriamente anarchica, dunque, ma autonoma.

In terzo luogo avevamo ricordato come il concetto di sovranità nazionale venisse meno sul terreno teorico e pratico del diritto internazionale. Già a partire dall’analisi dei teorici onusiani si poteva infatti dire che i limiti posti alla sovranità nazionale e le eccedenze che il potere onusiamo proponeva sul livello globale, erano diventate più importanti dell’azione richiesta alle nazioni per contribuire all’unità dell’ordinamento internazionale (NOTA 7). Oggi questo punto di vista è stato largamente oltrepassato: sono la potenza delle resistenze singolari, la rottura asimmetrica delle relazioni internazionali, le continue accelerate forme di coordinazione territoriale e/o continentale, le nuove scale di valori, ecc. ecc., che diventano primarie nella fissazione (sempre nuovamente aperta) dei principi del potere globale. La Carta di San Francisco è largamente superata, non perché la pretesa “ad essere universale” della legislazione e del potere di intervento onusiani sia stata liquidata ma perché l’interdipendenza globale degli Stati-nazione è diventata talmente importante da essere continuamente riconosciuta ed integrata  da accordi parziali, da nuove iniziative cooperative, insomma da nuove figure intensive dell’istituzionalità nell’organizzazione globale (NOTA 8). La recente crisi finanziaria mostra fino a che punto l’integrazione del mercato globale obblighi gli Stati alla collaborazione nella regolazione economica e nell’intervento contro gli effetti della crisi… ben oltre ogni presunzione di sovranità.

Si potrebbe qui porre un’altra domanda: se il principio della sovranità viene dissolvendosi nell’attualità postmoderna, si potrà comunque ricostruirlo – ripulito da ogni caratteristica spuria – astraendolo in una determinazione univoca di “eccezionalità”? Si potrà ricondurre il concetto di sovranità a quello di comando dentro quell’”eccezione” che comunque permette ai governi di governare, alla sovranità di ricomporre l’azione politica sopra ed oltre il caos possibile nel quadro nazionale ed internazionale? È quanto – assai astrattamente – alcune posizioni filosofiche-giuridiche ambiguamente propongono, talora pretendendo che la forza dell’eccezione restauri l’intero processo della produzione del diritto sotto la categoria della sovranità, altre volte riconoscendo invece nell’emergere dell’”eccezione” una nuova figura del comando sovrano (NOTA 9). Ora, nella filosofia del diritto pubblico, Carl Schmitt era già proceduto su questa via in maniera esemplare. Una volta fondato il concetto di sovranità sul concetto di decisione, il diritto pubblico e/o statuale – egli argomentava –  può benissimo articolarsi fra l’esercizio costante della volontà normativa e l’esercizio eccezionale della decisione: la natura dei due processi è la medesima (NOTA 10). Ma è un processo talmente astratto (e teologico o – come diceva Kant – “terroristico”, cioè armato da un radicale pessimismo etico, fondato su una metafisica della trascendenza) da risultare strumentale in troppe posizioni teoriche ed indifferente a troppe prese di posizioni ideologiche. Quando una chiave apre troppe porte non può che essere una “chiave falsa” (NOTA 11).

La critica (in questo caso si tratta di un processo di comprensione che va al di là degli irrigiditi parametri della tradizione) – la critica dovrà allora riarticolare le questioni qui poste, sia quella riguardante il senso del cosiddetto superamento del concetto di sovranità nella governance, sia quella che pone l’ipotesi della ricomposizione univoca di questo cosiddetto superamento sotto la categoria dell’“eccezione”. A noi sembra che la soluzione del problema stia nello spiazzare la questione. Vale a dire che, se l’esercizio del potere sovrano, per quanto intimidito, non s’indebolisce nel rapporto fra decisione e contesto frammentato, disarticolato e problematico della realtà normativa, ricorrendo alla ”governance” per ricomporre comunque la propria efficacia; se d’altra parte il concetto di sovranità non va definitivamente in crisi nel confrontarsi alla frammentazione normativa ma può ancora proporsi un alibi nell’”eccezione” – si dovrà allora ammettere che, quando la crisi del concetto (come sembra) continua a proporsi, la sua origine è più profonda. Che è come dire: il concetto di sovranità va in crisi perché non è più egemone rispetto ad altre legittimazioni sociali, ad altri processi e potenze costituenti. In effetti, quella che è in discussione (non solo perché la teoria è insoddisfatta ma anche soprattutto perché la storia e l’alterità collettiva urgono), è la concezione moderna della sovranità come affermazione dell’Uno nel comando politico e nell’organizzazione della società. La figura del Leviatano non riesce più a definire una funzione unitaria (quale che sia l’origine, contrattuale o istituzionale, di questa unità) rispetto all’anarchia sociale ed alla moltitudine dei soggetti (NOTA 12).

Spiazzare dunque il problema, uscire dal feticcio della sovranità come concetto di governo nella modernità: questo è il tema da discutere. Probabilmente, come spesso gli storici hanno fatto (con operazioni che i giuristi sono riluttanti a ripetere), il concetto di sovranità va qui ricondotto a quello di “crisi” (NOTA 13). Siamo oltre il moderno. La crisi penetra e disgiunge le polarità che nel moderno la sovranità aveva congiunte. Molte sono le piste che si possono seguire quando si approfondisca questa linea di ricerca. Sono infatti in causa, in questa contingenza, sia un principio di organizzazione sociale, sia un valore di giustizia, sia un dispositivo di potere. Essi, nel contesto del normativo frammentato, risultano spesso contradditori, l’uno con l’altro; altre volte indipendenti e non riconducibili ad unità; altre volte, ancora, si presentano in forma paradossale (NOTA 14). Ora, il punto di vista che noi assumiamo nel costruire la nostra ipotesi critica, è che nessuno di questi principi possa essere fondato sulla sostanza unitaria del Leviatano ma che ciascuno di essi debba piuttosto essere ricondotto ad una particolare genesi costituente, a figure genealogiche indipendenti – e ciò disintegra il concetto di sovranità. Che è come dire: dobbiamo riconoscere che l’attuale concetto di sovranità è il risultato di una lotta, che la sua definizione astratta ha rappresentato il momento più alto e più rappresentativo della vittoria riportata da una parte sulle altre. Determinando storicamente l’affermazione: la sovranità è il prodotto della vittoria della borghesia come classe. Che cosa significa allora riportare il concetto di sovranità a quello di crisi? Significherà riconoscere che quella vittoria (una volta ottenuta) è ora contestata, quando non sia già stata effettualmente rovesciata (NOTA 15).

È questo un punto di vista machiavellico, probabilmente capace di penetrare in maniera realistica la crisi attuale di quel concetto di sovranità di cui Machiavelli ha descritto la genesi. È infatti, secondo Machiavelli, nella lotta tra ricchi e poveri, nello scontro, prima, fra una nascente borghesia imprenditoriale e l’aristocrazia fondiaria, e poi nello scontro fra quelle due potenze riunificate dalle necessità di potere ed il proletariato produttivo, che si forma il concetto di sovranità. Non come trasferimento del potere dal popolo al principe ma come affermazione del principe sul popolo. Questa stessa concezione machiavellica della sovranità è ripresa e sviluppata da Baruch Spinoza quando si propone di definire la democrazia. Ora, in Spinoza, la democrazia si presenta due volte, e secondo due prospettive diverse. La prima definizione di democrazia sta all’interno della tradizione classica della teoria delle “forme del governo”: come la monarchia è il governo dell’uno, così l’aristocrazia è il governo di pochi, mentre la democrazia è il governo dei molti – ma che cosa governano i molti? Essi continuano – in questo primo caso – a governare l’Uno. Non casualmente, nella teoria tradizionale delle forme di governo, il potere è sempre considerato espressione dell’Uno, e correttamente Bodin ricordava che ogni forma di governo è sempre una monarchia. Anche la prima definizione che Spinoza dà della democrazia, sta dentro questo quadro. C’è un contratto che trasferisce la potenza della moltitudine nel governo dell’Uno. Ma poi c’è una seconda definizione spinozista della democrazia: la “democrazia assoluta”. Essa non è più il governo dell’Uno ma l’insieme dei processi multipli che costituiscono il comune. La democrazia del comune si oppone così “assolutamente” alla democrazia come gestione dell’Uno perché lo riconosce come una sostanza trascendentale, quindi un potere indiscriminato, una decisione sempre totalizzante; e lo rifiuta in nome della libertà. Conseguentemente, la “democrazia assoluta”, secondo Spinoza, diventa un processo immanente, una costruzione che le singolarità operano dal basso ed una soluzione sempre aperta dei conflitti nei quali si oppongono le passioni: la democrazia è dunque il dispositivo che, attraverso i conflitti, costituisce un progetto comune (NOTA 16).

Ecco un primo forte attacco alla definizione della sovranità come decisione e come eccezione! Vale a dire che – se stiamo alla costruzione spinozista della democrazia assoluta – la natura del potere non è riconducibile linearmente  al concetto di sovranità. Il potere infatti è sempre una relazione: questo rapporto può essere concluso e ricondotto ad unità, ma si tratterà sempre di una unità aleatoria. La crisi, la separazione, la disgiunzione, la rottura del rapporto costituiscono, per così dire, la struttura ontologica di ogni espressione del potere, di cui l’unità eventuale costituisce la rappresentazione, meglio, l’evento ontico…

Accennavamo prima alla difficoltà di ricondurre ad unità i principi dell’organizzazione sociale, quelli della giustizia e quelli del potere. Non vorremmo che qui questa nostra prospettiva di crisi e separazione potesse essere considerata alla maniera di quel “realismo politico” di cui spesso la filosofia politica indossa le armi. Si tratta, in generale, di puro e semplice cinismo politico, di una sorta di libertinage che unisce, al nihilismo dei valori, un funzionalismo giuridico e politico, compatibile con il potere esistente (NOTA 17). No, qui non si tratta di condividere questo punto di vista. Quando si dice crisi, nella nostra prospettiva, si parla di forze reali che si oppongono l’un l’altra. Il “realismo politico” può benissimo presentarsi come arma di una delle parti in lotta o anche di tutte le parti: ma si tratta di un’arma indifferente ai contenuti particolari che, soli, possono determinare le figure del potere. Non è allora interpretando la forma del conflitto che potremo definire il risultato dello scontro, vale a dire l’eventuale costruzione di un soggetto. Di contro, essere dentro, prendere parte (essere partigiani) e così seguire il processo costitutivo di un soggetto attraverso la lotta, significherà cogliere e sviluppare in maniera singolare e distinta i principi dell’organizzazione sociale, di giustizia e la concezione del potere che animano ciascuna delle parti in lotta (NOTA 18). Nella genesi dello Stato e del capitalismo moderni, le parti in lotta ebbero identità precise e furono portatrici di principi diversi di giustizia, conflittuali e talora antagonisti, e di diverse immagini del governo della città. Non si deve dimenticare che anche il capitale, come la sovranità, è sempre costituito da un rapporto. Come, perché esista un sovrano, occorre un soggetto sul quale imporre un comando, così perché esista un capitalista, deve esserci un lavoratore cui imporre lo sfruttamento. Inutile qui aggiungere che, seguendo le articolazioni dello sviluppo capitalistico (e dei conflitti che lo configurano), si può probabilmente, meglio che in qualsiasi altro modo, studiare l’anatomia del politico e dello Stato sovrano (NOTA 19).

2. Ciò detto, torniamo indietro e, cioè, di nuovo al concetto di eccezione sovrana. Noi sosteniamo che esso è un principio puramente quantitativo, che corrisponde cioè al tentativo di massimizzare la forza per eliminare l’avversario dal processo costitutivo della società politica. Esso serve a rinnovare le gesta di Attila e di Gengis Khan. Bisogna dunque strappare i filosofi all’illusione metafisica del potere di eccezione! Ripetiamolo: esso non ha quelle qualità che taluni vogliono riconoscergli: vale a dire che l’eccezione non rappresenta l’essenza ontologica del potere ma semplicemente le eventuale brutalità della decisione sovrana, il suo “terrorismo” – come Kant voleva. Essa ripete Attila e Gengis Khan – ma siffatte “scope di Dio” (come le chiamava Hegel) possono ancora proporsi, o solo essere immaginate, nelle società complesse del capitalismo maturo? Già gli epigoni di Carl Schmitt, i vari Forsthoff e Mortati, riconobbero questa impossibilità, e così – come abbiamo visto – Gehlen si oppose a Max Weber (NOTA 20). Nell’archeologia dell’eccezione, potranno allora riconoscersi ancora lo spogliarsi e l’astrarsi assoluto del concetto di potere sovrano, la sua efficace ed essenziale nudità? No. Si deve piuttosto riconoscere – in luogo della nudità del concetto – la semplice brutalità dell’atto di forza, la violenza elementare, mai nuda, sempre incarnata, invece, per esempio dalle passioni violente dell’odio razziale, della sopraffazione di genere e del privilegio economico, ma soprattutto, quasi sempre, dall’organizzarsi di un nucleo forte di interessi più o meno economici (NOTA 21).

Ma, come si diceva, ancor più che nell’archeologia, queste caratteristiche rozze del potere d’eccezione si trovano illustrate nella genealogia di questa figura del potere, quand’essa pretenda di funzionare nell’attualità. Nell’attualità infatti, l’eccezione si confronta al tessuto del biopolitico, si presenta cioè come esasperazione dei biopoteri che si oppongono alla costituzione democratica di una società investita dall’organizzazione biopolitica. L’eccezione si configura oggi come forza riduttiva e totalizzante, che tenta di eliminare, di schiacciare, ogni complessità sociale ed ogni resistenza che emergono nel contesto biopolitico. E ciò diventa tanto più violento e feroce quanto più, nello sviluppo della modernizzazione capitalistica, l’azione dello Stato penetra nei nodi dello sviluppo sociale ed integra, in forma politica, l’evoluzione delle forze produttive sociali – trasformando la produzione in attività vitale, reticolare, cooperativa. Quando l’opposizione machiavellica fra i ricchi e i poveri si presenta di nuovo nella società capitalistica sviluppata, si distende ovunque. Marx parlava di “sussunzione reale” della società nel capitale, per descrivere la maturazione dello sviluppo capitalistico e la sua capacità di investire la vita intera. In conseguenza di questa sussunzione, l’antagonismo del rapporto di sfruttamento si esercita ovunque, vale a dire che esso si ritrova non solo nei luoghi di produzione ma su ogni punto della complessa relazione sociale che la cooperazione produttiva ha costruito (NOTA 22). Traducendo ora questo diagramma economico nella grammatica della sovranità statuale, non possiamo non riconoscere la potente estensione del conflitto e la drammatica emergenza delle resistenze in ogni angolo della società, su ogni snodo delle reti che organizzano e configurano la produzione sociale. Quest’ultima è ormai, nello sviluppo capitalistico maturo, integrata – alla maniera biopolitica – nelle filiere del potere sovrano ed è in questo ambito che le resistenze si rivelano ovunque (NOTA 23).

Il postmoderno ha avuto il grande merito di aver sottolineato l’esaurimento del concetto moderno di sovranità. Esso ha riconosciuto quel che venivamo dicendo sopra e cioè che, nella “sussunzione reale” della società nel capitale, quando cioè il comando politico diviene esso stesso articolazione produttiva all’interno delle reti sociali, anche le resistenze emergeranno su ogni snodo della società. Ma, a questo punto, i filosofi del postmoderno approfondiscono la loro analisi,  sottolineando che all’interno dello sviluppo totalizzante del comando capitalistico a fronte delle resistenze sociali, quindi dentro i rapporti antagonistici che ovunque si determinano – l’effettualità della crisi si accentua in maniera radicale perché la totalizzazione del rapporto ha levato di mezzo ogni misura, ha sbiadito ogni proporzione, ha reso difficile ogni espressione certa (NOTA 24). Di conseguenza, sul terreno politico, ha eliminato ogni possibilità di confrontare la sovranità alla realtà, di commisurare il comando all’obbedienza, il salario (e lo Welfare) al lavoro. Non sarà allora un caso che la critica del concetto di sovranità (e della prosopopea dei suoi attori nel pretendere di riunire i principi di giustizia e di organizzazione sociale) sarà qui condotta dalle stesse classi dirigenti del capitalismo maturo. Queste classi dirigenti sceglieranno, nella crisi, di governare attraverso le mille figure e le mille varianti del potere di eccezione (NOTA 25).

Giungiamo ad una conclusione sul terreno fin qui lavorato. Come le più recenti vicende politiche (dalla caduta dei totalitarismi alle guerre imperiali) hanno dimostrato, la via dell’eccezionalità sovrana è difficilmente percorribile. L’insistenza sul potere di eccezione viene utilizzata come minaccia, come epouvantail, più che costituire una pratica efficace. Ci si permetta comunque di notare qui come troppo spesso il potere di eccezione venga esemplificato attraverso il ricordo di quella terribile esperienza storica che furono i campi di sterminio nazisti. Lo ricordiamo per sottolineare ancora una volta il carattere mistificatorio del concetto di eccezione, legato all’analisi degli effetti delle tecnologie sovrane. La parabola industriale di Auschwitz non può giustificarlo. La dignità dei giudei consistette non già nel subire “inevitabilmente” lo sterminio ma nel reagirvi, nell’insurrezione del ghetto di Varsavia, nella solidarietà della resistenza nei campi – e la Shoa, come male assoluto, è saggio considerarla solo in termini teologici. Hannah Arendt lo ha giustamente sostenuto (NOTA 26).

A questo punto cerchiamo di comprendere (ed eventualmente di sviluppare) quell’operazione teorica di “spiazzamento” del problema della sovranità cui abbiamo sopra abbiamo accennato. I criteri sui quali quest’operazione può essere condotta, li conosciamo: consistono nello sviluppare l’ipotesi che ogni forma di comando sociale è la risultante dello scontro fra due (o varie) forze. Ogni forma di comando sarà dunque riconosciuta come gestione di crisi – e la sovranità non potrà essere definita, ab origine, che come superamento (determinato) di una crisi. Come è possibile procedere in questa direzione? È sufficiente assumere la crisi nella sua attualità ed osservare come la sovranità si eserciti sempre nel tentativo di esorcizzarla – di negarne la consistenza sociale, di ridurla ad “elemento sistemico” – necessario ma aleatorio… Ma (noi lo verifichiamo ancora di nuovo nella crisi attuale), la crisi della sovranità non sta in altro, né da altro è prodotta, se non dalla resistenza dei soggetti. Il risultato nullo (cioè impossibile da raggiungere) di ogni operazione intesa a determinare – in epoca di crisi – la sintesi tra potere e diritti, fra governo ed esperienza civile dei soggetti–cittadini–lavoratori (equazione che un tempo, nella modernità, nell’epoca dell’egemonia borghese, si voleva come identità) è riconducibile alla resistenza dei soggetti. Ne viene una conseguenza: se la sovranità come Leviatano non può funzionare, ti accorgi tuttavia che qui non c’è vuoto, che non c’è mai nudità del rapporto di potere perché più svuoti la sovranità più la resistenza riempie il quadrante, più neghi la sovranità più i principi e le potenze di democrazia emergono. Sicché quando sembra esserci un vuoto di sovranità, è solo una proiezione spettrale quella nella quale siamo coinvolti e la nostra percezione ne è turbata e mistificata. Di contro, la crisi della sovranità (si definisca essa come eccezione oppure, come vedremo, come governance) si riempie piuttosto sempre di nuova costituenza, di capacità sempre rinnovata di pretese, di esprimere pretese di nuovi diritti e potenza dei desideri, proprio quando ogni misura del potere, ogni relazione fra sovranità e principi siano percepite in via di essere dissolte. Osserviamo che qui, dal punto di vista dei ceti dirigenti, spesso trionfa – a contrastare la potenza delle resistenze – l’enfasi reazionaria sull’originarietà del potere e sulla forza della tradizione: da Burke ai neoconservatori, il pensiero reazionario si è sempre espresso in questi termini. Ma questo punto di vista va rovesciato, perché qui invece risalta la resistenza, espressa proprio su quel luogo che la sovranità vorrebbe svuotare – la resistenza emerge dentro quel vuoto/crisi di sovranità/potere di cui l’eccezione vuole in definitiva essere l’alibi violento e del quale – come vedremo – la  governance vuol essere la supplenza….

Foucault si è posto su questo bordo, laddove la sovranità non sapeva più disciplinare la società ed i dispositivi di controllo non potevano ormai che concludersi nell’eccezione. È il punto sul quale la sua ricerca si scontra con il nichilismo – è cioè il punto dove tutti noi ci scontriamo con il nihilismo. Quale risposta propone Foucault? E noi, quale proposta decidiamo? Un primo approccio consiste nell’accettare di collocarsi su quel vuoto di origine e di principii che, pur spettrale, non è meno reale e di procedere da qui. Riflettendo su questa condizione e commentando il gesto foucaultiano, Deleuze si chiede (NOTA 27): si dovrà forse accettare (a fronte del vuoto, nella condizione nihilista) che tutte le scelte, che tutti i principii si equivalgano? Risponde: no. Quel nulla dell’origine sovrana è comunque segnato su una scena dell’essere della quale non c’è “fuori”. Ci sono, di contro, almeno un “dentro” ontologico e un “punto basso” nella geometria del potere. È di qui che noi e Deleuze scegliamo di ricominciare. È la nozione di dispositivo che qui sorge. Dispositivo: cioè un meccanismo materiale, sociale, affettivo e cognitivo di produzione di soggettività, ovvero l’origine di ogni movimento verso i principii. Un’origine che non può che essere politica. Infatti Deleuze qui aggiunge: “Noi apparteniamo ai dispositivi ed agiamo dentro di essi”. Agire dentro di essi: vuol dire riorientare la conoscenza dall’origine al divenire, dalla crisi della sovranità al divenire-democrazia. Una seconda determinazione viene fuori dentro questo stesso proporsi del dispositivo: il fine del nostro agire, dentro il dispositivo, non è quello di riaffermare ciò che siamo, non di ripetere l’identico, ma quello di affermare l’Altro, il nostro “divenire-altro”. Ma vi è un terzo punto che qui si propone. Quando avanziamo in questa direzione noi scopriamo (con Foucault) la nuova natura della potenza politica – il suo farsi attiva produzione del reale, potenza costituente,  movimento costitutivo di principii che orientano nel divenire. La qualità performativa del dispositivo si organizza inizialmente in contro-condotte e in sistemi di resistenza, ma poi sempre di più, organizza nuovi orizzonti ontologicamente determinati. Non è questa la sigla di quel processo di costruzione del sociale dal cui questionamento eravamo partiti? Non è questo il vero e proprio rovescio dell’eccezione? (NOTA 28)

Una volta riconosciuto ciò, dobbiamo respingere un’ultima obbiezione. È quella di chi sostiene che il potere costituente (perché è di questo che si tratta ormai dentro il quadro delineato) (NOTA 29) agisce in una sorta di omologia (inversa ma equivalente) con il potere di eccezione. Anche il potere costituente sarebbe o una forza extragiuridica, irrazionale e arbitraria o una decisione adeguata e funzionale al diritto che esso costruisce. Per rispondere a questa obbiezione, ci sembra necessario, ancora una volta, ritornare al metodo. Ora, quando nella discussione che precede, abbiamo insistito sul fatto che davanti alla crisi si dà possibilità di costruzione solo a partire dal basso, solo costruendo diritto a partire dalla resistenza e dal riconoscimento dell’Altro, lì la definizione del metodo è divenuta anche elemento materiale della ricerca. Di fatto, è attraversando questo terreno (che il metodo ci indica) che il riconoscimento del comune è dato. Ringraziamo di nuovo Foucault e Deleuze per averci indicato quella linea che, attraverso la differenza ed il desiderio, le resistenze e la produzione collettiva di soggettività, scopre il comune come costruzione di una potenza politica che si fonda sulle singolarità e ne esprime la forza produttiva. Questo è il pieno del potere costituente. Il metodo del dispositivo apre sempre all’Altro, altro luogo e altro tempo, sequenze di costruzione del comune degli uomini. Dallo svelamento (parziale e per certi versi vizioso) del comune come origine, dalla Umwelt ecologica al fare-comune, dal riconoscimento degli elementi naturali della comune esistenza alla affermazione della comune figura (tecnologica ed ontologica) delle metamorfosi del nostro essere nella contemporaneità – ecco la via maestra. La performance metodica diventa dunque qui una sorta di potere costituente – non come i giuristi ce lo hanno consegnato (e cioè come un atto originario ma extragiuridico) ma come una produzione immanente, permanente, basica, che sempre si rinnova e che è inesauribile. (NOTA 30)

Non più da un punto di vista metodico ma sostanziale, non più da un punto di vista ipotetico ma costruttivo, assumiamo dunque che la resistenza, in quanto potere costituente (sempre rinnovato), crea le istituzioni, nella loro forma e nei contenuti che esprimono, nella loro funzione. Che la resistenza determina dunque il contenuto delle norme, la loro interpretazione e – di conseguenza – la capacità di intenderne (secondo regole che sempre si modificano), la diversità. Il potere costituente è altra cosa, piena e forte, davanti alla riduzione “eccezionale” della sovranità.

3. Quando ci si muove sul terreno della critica del concetto di “potere di eccezione”, si rischia tuttavia di lasciare a lato l’altro punto sul quale si presenta oggi la crisi del concetto di sovranità: la governance. E questa dimenticanza può condurre ad un punto morto del ragionamento perché – così facendo – si sottovaluta (quando non si metta da parte) la determinazione essenziale che la critica del concetto di sovranità ci aveva offerto: il dualismo insopprimibile che gli è implicito. La governance ci permette di trasferire la critica su questo terreno, di incalzare la difesa del concetto di sovranità nel suo ultimo recesso. La governance diviene dunque, su questo snodo, non solo oggetto ma passaggio necessario della critica. Essa è l’ultima traduzione del concetto di governo sovrano e si presenta nella figura della sua supplenza. Ci permettiamo dunque di avanzare alcune critiche del concetto di governance.

Che cos’è precisamente la governance? Assumiamo che (come fin qui abbiamo visto nell’identificare e nel criticare lo Stato d’eccezione) frammentazioni ed eccedenze siano ormai centrali nella fenomenologia dello Stato sovrano. È tanto vero che le teorie sistemiche, ad esempio, hanno cominciato (a partire dalla considerazione dei fenomeni della mondializzazione) a parlare di un processo di “costituzionalizzazione senza Stato”; ed hanno identificato nel trasferimento dei poteri di decisione dal “governo” alla governance la costituzione di “un governo aleatorio della contingenza”. (NOTA 31) In effetti, lo sviluppo frammentario delle funzioni giuridiche – a livello interno come al livello internazionale, sul terreno amministrativo come sul terreno politico (ed è importante qui ricordare che il rapporto locale/globale, micro/macro possono essere ritenuti nella loro immanenza) – non può più essere trattenuto in un quadro sistemico. (NOTA 32)

Riconoscere questa “incontinenza” sistemica non significa rivalutare o rinventare una linea “istituzionalista” che metterebbe in opera la costruzione dal basso delle funzioni del comando, ma piuttosto riconoscere il sorgere ed il prosperare di una situazione caotica nella quale si duplicano e/o si moltiplicano istanze di governance. Tutto questo libera un’eccedenza fuori dal sistema, all’interno della sua frammentazione: nei suoi interstizi, tra conflitti e shock di diverse razionalità, tra differenti architetture e geneologie delle norme. (NOTA 33) Il passaggio dal governo alla governance infrange la regolazione unitaria dei sistemi del diritto pubblico. Quando noi consideriamo questo tournant, dobbiamo analizzarlo in tutta la sua estensione: esso rappresenta il passaggio dalla regola unitaria e deduttiva ad una norma plastica e pluralista. Non bisogna stupirsi se, all’interno di questa sistema, nel flusso dinamico e multiplo delle produzioni normative, si faccia di tanto in tanto ricorso all’eccezione. Ma non occorre esagerare l’importanza di questi ricorsi. Ciò che è invece davvero importante in questo processo, è l’impossibilità di bloccare le resistenze che si oppongono allo sviluppo lineare di una volontà giuridica centralizzata. Questo conferma la percezione della rottura che abbiamo già sottolineato.

A questo punto dell’argomentazione, bisogna riconoscere che (per esempio) il “sistemismo” giuridico di Luhmann ha anticipato la descrizione delle dinamiche di questa frammentazione – che ne ha, in qualche modo, sollecitato l’analisi con un gesto forte, a partire dalla coscienza della compresenza “a-simmetrica” e critica dei flussi normativi e delle istanze di auto-organizzazione. Di nuovo, tuttavia, riconosciuto quel forte gesto, occorre aggiungere che quella operazione teorica ha nascosto un atteggiamento quasi scettico, “libertino” (una specie di “bisogna che tutto cambi perché nulla cambi”). Insomma: un’opzione veramente “cinica” nel senso abusato del machiavellismo, piuttosto di un’apertura alla potenza dell’inorganizzato, dell’asimmetrico e dell’autonomia. Questo atteggiamento teorico (che qui abbiamo assunto come tipico e che consideriamo come una regola generale nelle posizioni post-strutturaliste) sembra effettivamente costituire la base di ogni teoria della governance. Sarebbe importante tuttavia chiedersi se questi elementi innovativi non debbano essere considerati, piuttosto che come effetti marginali prodotti dalla decostruzione, al contrario, come delle tensioni ricostruttive e costituenti che possono giungere al cuore di un’“ontologia del presente”. (NOTA 34)

Con ciò arriviamo al punto finale del nostro ragionamento. Una volta infatti così determinata e descritta la governance, è chiaro che il rapporto sociale (e giuridico) da essa costruito è del tutto orizzontale: forza contro forza. La teoria della sovranità riconosce qui, per così dire,  d’essere stata riportata a quel rapporto di forza dalla cui sintesi era stata originata. Tuttavia, di nuovo, a questo punto, a proposito della governance, ci accade di dover precisare i concetti come abbiamo fatto per il potere di eccezione: nell’un caso come nell’altro, non possiamo infatti definire astrattamente il rapporto “forza contro forza”. La forza vale sempre per qualcosa. Non c’è esercizio della forza che non sia in qualche modo teleologico, che non voglia cioè qualche cosa. Potrebbe sorgere il sospetto che qui, evocando orizzonti finalistici, si vogliano di nuovo produrre mosse dialettiche. Nulla di ciò. È ben vero che quando forze antagoniste si scontrano e raggiungono nello scontro risultati che spesso scontano una mediazione, questo processo scimmiotta la dialettica. Ma le forze antagoniste che qui confliggono sono sempre e solo affermative, il confronto non è mai un “superamento”, un’Aufhebung non c’è. La storia delle istituzioni è sempre storia di confronti. Il processo di istituzionalizzazione si dà per recepire una resistenza presente, altre volte per anticipare una nuova resistenza prevista… Spesso non si riesce né nella prima operazione né nella seconda: di conseguenza nascono mostri istituzionali e/o normativi. La condizione storica (e giuridica) attuale è caratterizzata appunto da questa frammentazione, talora paradossale e/o mostruosa, dell’orizzonte normativo…

All’interno e a fronte di queste contingenze si presenta – come un frutto maturo – la  governance. Tutto sembra più facile e liscio e rapido con la governance! Non ci sarà più government: la governance lo supplisce perfettamente! Ma c’è un ma, un grande ma! Ed è che la governance rivela sempre e comunque un processo dualistico, un rapporto inconcluso di forze, un’azione ed una reazione. Il suo carattere paradossale consiste nel fatto che essa può funzionare solo quando uno dei poli è più forte dell’altro. Ma nella dimensione biopolitica, su quegli scorci di processi conoscitivi e pratici che conducono (come abbiamo visto) alla costruzione del comune, il riapparire di una forza egemone è, per certi versi, scandaloso… Certo, la governance resiste – ma fino a quando?

Forza contro forza: cerchiamo di considerare questo rapporto, ora, non più su un terreno formale ma su un terreno materiale. Ecco allora che il rapporto di forze diverse e contrastanti si qualifica in maniera vera: da un lato talune forze insisteranno sulla consistenza dei processi, mentre altre forze si presenteranno come progetto di innovazione. Reazione contro progresso? Altre volte si sarebbe detto questo, mettendo in prima linea – ad esempio – il duro affrontarsi del potere e dei contropoteri, attorno alla conquista ed al management dell’amministrazione. Ma ora non lo si può più dire, per un certo verso la situazione si è sdrammatizzata e la governance si è stabilizzata. La rivelazione del dualismo di potere che attraversa la governance, non sembra esser più scandalosa. La rottura è definitiva e universalmente assunta. E tuttavia resta la domanda: quali sono le condizioni in cui si svolge la governance? Chi vince nel rapporto di forze che la governance delinea? Ora, se nell’interpretazione borghese e capitalista la governance si presenta (senza alternative né residui) come volontà di ricomposizione statale e/o autoritaria nei confronti della potenza dell’avversario, della sua resistenza, si deve tuttavia riconoscere che il rapporto giuridico continua a manifestare una certa dualità. Che è come dire: l’equilibrio tra il tentativo di chiudere la relazione della governance e la potenza della resistenza nel tenerla aperta risulta straordinariamente difficile da raggiungere. Perché? La risposta non può essere rivelata che nell’ontologia del rapporto.

Torniamo dunque ai contenuti. Da un lato abbiamo una governance che esprime la necessità del comando, dall’altra abbiamo un potere costituente (diffuso ed irriducibile) che si muove come volontà di resistenza e di innovazione comune. Quando il rapporto diventa troppo violento la governance subisce la tentazione di trasformarsi in “potere di eccezione”; di contro, il potere costituente si presenta in maniera ancor più evidente e forte come resistenza. C’è uno squilibrio ontologico fra governance e potere costituente. A fronte della governance il potere costituente si pone in maniera permanente e comune e deve esser qui riconosciuto come forza non più extragiuridica ma legittimata a muoversi, a riunificare le resistenze come un’opposizione tanto dinamica quanto innovativa. Chiamiamo comune l’insieme delle forze resistenti/costituenti che si costruiscono come innovazione ontologica del legame sociale.

Al contrario del potere di eccezione dunque la governance riconosce di fatto il potere costituente come l’elemento attivo nella costruzione dei processi istituzionali e giuridici. Ma la governance può vivere solo quando è più forte del processo costituente. Se la governance comanda ancora, comanderà solo fin che il potere costituente non diventerà, esso, egemonico.

Come potrà realizzarsi questo rovesciamento? Chiedersi questo è chiedersi come l’esperienza comune della libertà possa diventare centrale nell’innervare e nel realizzare nell’attualità il potere costituente?

Un’osservazione esemplare (e pedagogica) a proposito del formarsi del comune: ci riferiamo all’esperienza che si realizza sul terreno delle lotte attorno agli equilibri ecologici del divenire sociale. In che cosa consiste qui il comune ecologico? Consiste nella comprensione che attraverso la moltitudine delle singolarità si dà un elemento fondamentale, comune, e cioè la necessità di mantenere le condizioni di riproduzione della vita (non soffocare per i miasmi industriali, poter bere e nutrirsi di sostanze sane, non ammalarsi per epidemie più o meno artificiosamente prodotte, ecc. ecc.). C’è dunque un comune biologico, ecologico che è riconosciuto dalle singolarità e che le unifica in un insieme. Passiamo ora dall’esempio e dalla pedagogia ecologiche alla realtà ed all’attività sociale. Abbiamo detto che non c’è comune se non c’è un accordo dinamico delle singolarità: l’esperienza ecologica ce ne offre il motivo sul terreno della difesa della vita e della riproduzione umana. Ma noi dobbiamo avanzare oltre all’esempio ecologico ed affermare che non c’è comune se non c’è potere costituente. Meglio, che c’è comune (anche naturale, anche ecologico) (NOTA 35) solo quando c’è potenza costituente. L’uomo non è solo natura, il cittadino è già oltre la natura (senza negarla ma trasformandola), l’uomo produttivo è in gran parte artificiale (ma questa artificialità è divenuta una nuova potente “natura”). La tecnologia costituisce il nostro essere cooperanti, il sapere e il linguaggio esistono solo quando stiamo insieme, quando ci mettiamo in comune. Quando noi costituiamo il comune, noi costruiamo il mondo. Ecco dunque il punto dove l’egemonia del comune rompe la governance per proporre istituzioni del comune. Esse hanno la stessa insistenza sulla singolarità (sulla singolarità dell’uomo che lavora, che comunica, che soffre e gioisce…) che hanno le condizioni ecologiche della vita, ma la loro forza sta nel fatto che il mondo viene così ricostruito, che la natura stessa è rovesciata (come un calzino!) dalla capacità di ciascuno di muoversi insieme, di camminare con l’Altro, di costruire in comune.

Il diritto non può essere che il dispositivo normativo di questo costruirsi insieme la vita comune. Le norme non possono nascere che dalla decisione comune (non generale né astratta ma singolare e concreta) sulle condizioni della produzione della vita. Oltre la sovranità (e l’eccezione come suo alibi, oltre la governance come supplenza della sovranità) esiste la potenza comune delle singolarità nel determinare le forme del vivere insieme. (NOTA 36)

NOTE

(NOTA 1) Per i riferimenti alle opere di Foucault, vedi J. REVEL, Dictionnaire Foucault, Ellipses, Paris 2007, pp. 67 sgg. e passim

(NOTA 2) N. LUHMANN, Legitimation durch Verfahren, Frankfurt, Suhrkamp, 1969; A. FEBBRAIO-G. TEUBNER, State, Law, and Economy as Autopoietic Systems, Milano, Giuffré, 1994, G. TEUBNER, Global Law without State, Aldershot, 1997

(NOTA 3) Il riferimento è essenzialmente alle opere di Richard Falk e di Danilo Zolo.

(NOTA 4) Vedi A. ARIENZO, Dalla corporate governance alla categoria politica di governance, in G. BORRELLI, Governance, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2004; U. BRÖCKLING – S. KRASMANN – TH. LEMKE, Gouvermentalität der Gegenwart. Studien zur Ökonomisierung des Sozialen, Frankfurt 2000; R. MAYNTZ, La teoria della governance: sfide e prospettive, «Rivista italiana di scienza politica», 1, pp. 3-21, 1999

(NOTA 5) Vedi D. SCIULLI, Corporate Power in Civil Society: An Application of Societal Constitutionalism, New York, New York University Press, 2001 e G. TEUBNER, “Societal Constitutionalism: Alternative to State-Centered Theory”, in C. JOERGES, I-J SAND and G. TEUBNER (eds.), Transnational Governance & Constitutionalism, Oxford, Hart, 2004; importante è, a questo proposito, il recente volume di E. DE CRISTOFARO, Sovranità in frammenti: La semantica del potere in Michel Foucault e Niklas Luhmann, Ombre corte, Verona, 2007

(NOTA 6) K.H. LADEUR, Post-Modern Constitutional Theory: A Prospective for the Self-Organising Society, in Modern Law Review, vol. 60, n. 5, 1997; C. SABEL, J. ZEITLIN, Learning Difference: The New Architecture of Experamentalist Governance in the European Union, in Eurogovernance Paper, 2007

(NOTA 7) Hans Kelsen si è più volte espresso in questo senso.

(NOTA 8) Mi permetto di rinviare in questo caso a G. COCCO, A. NEGRI, GlobAL, biopotere e lotte in America Latina, Il Manifesto, Roma, 2006, in particolare parte V.

(NOTA 9) In questa direzione si sono succeduti gli interventi di Walter Benjamin, di Jacques Derrida e di Giorgio Agamben.

(NOTA 10) G. GALLI, Genealogia della politica: Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Mulino, Bologna, 1996

(NOTA 11) È quanto ha notato, con grande efficacia, H. PLESSNER, Macht und menschliche Natur, Berlino 1931, nella polemica che lo ha opposto a Schmitt. Per quanto riguarda la definizione kantiana che sopra ricordavamo, vedi la seconda parte della “Conflitto delle Facoltà”, in AK, vol. VII, pp. 81 segg.

(NOTA 12) Le basi di questa affermazione sembrano essere state poste, nelle discussioni iniziate negli anni Settanta, da A. NEGRI, La forma-Stato, Feltrinelli, Milano, 1977; C. OFFE, New Social Moviments, in Social Research, vol. 52, n. 4, 1985

(NOTA 13) Il nostro riferimento è all’opera di R. Koselleck.

(NOTA 14) M. BLECHER, Law in Movement. Paradoxontology, Law and Social Movements, in J. DINE, A. FAGAN (eds), Human Rights and Capitalism, Elgar, Cheltenham, 2006; G. TEUBNER, Der Umgang mit Rechtparadoxien: Derrida, Luhmann, Wiethölter, in C. JEORGES, G. TEUBNER (ed.), Rechtsverfassungrecht, Baden Baden, Nomos, 2003

(NOTA 15) Sia chiaro che qui, pur nella ripresa di un punto di vista del materialismo storico (relativamente alla equazione di sovranità e classe borghese), si va oltre quel punto di vista. Il marxismo si è infatti mosso, attorno a questa tema, in maniera ambigua: da un lato, i dispositivi di presa di potere (e la correlativa teoria della dittatura del proletariato) ripetevano il concetto di potere sovrano come Leviatano; dall’altro lato, la teoria dell’estinzione dello Stato, era invece presentata come ipotesi di rottura e come superamento dialettico di ogni concezione del potere. Per la critica di questa ambiguità del materialismo storico, si veda A. NEGRI, Books for Burning, Verso, London 2005

(NOTA 16) Vedi A. NEGRI, The Savage Autonomy: The Power of Spinoza’s Metaphysics and Politics, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1991

(NOTA 17) Sul rapporto tra realismo politico e cinismo etico, vedi A. NEGRI, Political Descartes, Verso, London, 2006

(NOTA 18) Nella sua recensione al libro di J. Winkelmann sul concetto di legittimità e legalità in Max Weber (Tübingen 1952), Arnold Gehlen ha espresso, in maniera ancora oggi valida, il punto di vista che il progressivo aumento del livello di vita sia diventata una vera e propria pretesa giuridica, opponendosi così sia ai concetti funzionali della teoria del diritto weberiana sia al Legalität unt Legitimität del 1932 di C. Schmitt.

(NOTA 19) Su questo terreno non possiamo non ricordare le varie metodologie che nell’ambito del marxismo critico si sono sviluppate nel secondo dopoguerra, fra Castoriadis e Lefort di “socialisme ou barbarie”, l’“operaismo” italiano di Mario Tronti, il nuovo storicismo di Thompson, ed oggi gli studi postcoloniali.

(NOTA 20) Vedi A. NEGRI, La forma-Stato, cit. e M. HARDT, A. NEGRI, Labor of Dionysus: A critique of the State-Form, University of Minnestora Press, Minneapolis, 1994

(NOTA 21) Per la critica della teoria della sovranità espressa da G. Agamben nel suo Homo Sacer, vedi L. FERRARI BRAVO, Homo Sacer, in Dal fordismo alla globalizzazione, Il Manifesto, Roma, 2001 pp. 279-286; A. NEGRI, The Political Monster: Power and Naked Life in C. CASARINO, A. NEGRI, In Praise of the Common, Minneapolis, University of Minnestora Press, 2008 pp. 193 segg.

(NOTA 22) Vedi A. NEGRI, Marx Beyond Marx. Lessons on the Grundrisse, Autonomedia Pluto, New York/London, 1991.

(NOTA 23) Sono queste le tesi che sono state sostenute da M. Hardt e A. Negri in Empire ed in Multitude.

(NOTA 24) Ci riferiamo qui essenzialmente alle narrazioni postmoderne di Baudrillard e di Lyotard.

(NOTA 25) I documenti della Trilateral Commission, dagli anni Settanta in poi e le posizioni politiche neoconservatrici americane, soprattutto attraverso l’opera di Huntington, dimostrano questo nuovo dispositivo del potere.

(NOTA 26) A. ARENDT, Eichmann  in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, The Viking Press, New York, 1963

(NOTA 27) G. DELEUZE, “What is a dipositif?” in T. ARMSTRONG, ed., Michel Foucault, Philosopher, Routledge, New York, 1992, pp. 159-168

(NOTA 28) Il rinvio è nuovamente a M. Foucault che si esprime a proposito del concetto di “dispositivo” per la prima volta nella “Préface” a G. DELEUZE, F. GUATTARI, Anti-Œudipus: Capitalism and Schizophrenia, Viking Press, New York, 1977.

(NOTA 29) A. NEGRI, Insurgencies: Constituent Power and the Modern State, University of Minnestora Press, Minneapolis, 1999

(NOTA 30) Vedi in proposito M. HARDT, A. NEGRI, Commonwealth, Harvard University Press, forthcoming

(NOTA 31) G. TEUBNER, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando, Roma, 2005

(NOTA 32) A. FISCHER-LESCANO, G. TEUBNER, Regime-Collisions: The Vain Search for Legal Unity in the Fragmentation of Global Law, in Michigan Journal of International Law, 2004

(NOTA 33) G. TEUBNER, The Anonymous Matrix: Human Rights Violations by “Private” Transnational Actors, in Modern Law Review, 2006, vol. 69, n. 3

(NOTA 34) Mi si è permesso, in proposito, un accenno al formidabile sforzo filosofico di R. SCHÜRMANN (Des Hégémonies Brisées, Trans-Europ-Repress, Toulose, 1996) per identificare il concetto di “eccezione creativa”, dentro l’annullamento delle alternative teoriche della filosofia moderna. Non andrebbe sviluppato un’alternativa analoga anche dentro la crisi delle teorie giuridiche moderne?

(NOTA 35) Su queste tematiche, vedi A. NEGRI, Time for Revolution, Continuum, New York/London, 2003 e M. HARDT, A. NEGRI, Commonwealth, Harvard University Press, forthcoming

(NOTA 36) Sulla spazialità del “vivere insieme” vedi, in generale, l’opera di Saskia Sassen.

 

 

 

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