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Lavoro in frantumi

 

di FEDERICO CHICCHI

Lo scorso 25 novembre si è tenuto a Bologna presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università un convegno dal titolo: Lavoro in frantumi. Vita, lavoro e conflitto sociale nell’orizzonte del capitalismo biopolitico. Vorremmo in proposito e qui di seguito, riportare alcune brevi note a margine di questa giornata di studio.

La domanda di fondo che ha animato prima, e strutturato poi, l’idea di questo convegno è stata quella di indagare le trasformazioni, le discontinuità strutturali, che coinvolgono il lavoro e il suo modo di declinarsi all’interno dei rapporti sociali di produzione contemporanei.

Per capire come l’esperienza sociale del lavorare viene oggi a modificarsi in profondità, disarticolando i processi di soggettivazione e le sue tradizionali forme organizzative occorre, in tal senso e infatti, partire dalla comprensione del rapporto tra lavoro e valore così come questo rapporto si dà nelle trame dell’attuale capitalismo cognitivo e biopolitico. E dunque risulta non oltrepassabile una riflessione sul modo in cui il lavoro si scrive sia rispetto alle contraddizioni del presente (tra cui ad esempio quella territoriale ed ecologica) sia rispetto alle nuove modalità di estrazione del plusvalore ancorate ora direttamente, con sempre meno mediazioni, nel cuore (negli affetti), nel sangue (nel corpo) e nella mente del lavoro vivo. Insomma fare i conti con l’ipotesi della frantumazione del lavoro significa porre in primo piano la forma dello sfruttamento e del comando capitalistico contemporaneo, perché è in rapporto ad esso (e alle resistenze che qui si manifestano) che tale fenomeno si produce e tenta di assumere una rinnovata e ad esso “adeguata” forma storico-sociale.

La frantumazione del lavoro (della sua forma giuridica ma anche delle narrazioni soggettive), è bene premetterlo, porta con sé una ambivalenza strutturale, ambivalenza che è propria, intrinseca, alla natura al contempo interna ed esterna del lavoro al Capitale. Il lavoro è cioè, e questo almeno da quando si è data accumulazione originaria, un lato del rapporto sociale capitalistico che si può osservare al contempo come interno al capitale (capitale variabile/forza-lavoro) o come esterno/autonomo allo stesso (lavoro vivo).

Il punto chiave, il fulcro della ambivalenza, è che se e quando il lavoro si dà organizzazione e rende attraverso di essa possibile immaginare e creare il due, e con esso lo spazio sociale dell’alterità, al contempo nutre e valorizza l’uno attraverso le differenze e le ripetizioni che pone in essere questo movimento. Il capitale tende cioè a metabolizzarlo e a incorporarlo alla sua logica. Il tema della crisi esemplifica questo processo: essa rende possibile attraverso la predisposizione di alcuni dispositivi interni al suo asse privilegiato di funzionamento, definito dal rapporto sinergico tra stato e mercato, il rilancio del suo movimento accumulativo, la sua giustificazione e infine la sua riproduzione.

Jean-François Lyotard in questo senso associava al capitalismo il tema della decadenza: “il capitale non conosce una crisi, non è esso stesso in decadenza, ma è il suo funzionamento che presuppone e comporta la decadenza, o se si preferisce, la crisi. O meglio, la crisi è una condizione della sua possibilità di funzionamento.

Si può precisare tale tesi attraverso una citazione, tratta dal terzo numero dei quaderni rossi, di Mario Tronti: “la socializzazione crescente del rapporto di produzione capitalistico non porta con sé la società socialista, porta solo con sé un crescente potere operaio dentro il sistema capitalistico”. È quello che ci dice anche Foucault quando in Sorvegliare e punire, come ha sottolineato Antonio Negri in un suo recente contributo, insegna che dentro la presa di acciaio del panoptico il faut entendre le grondement de la bataille.

In questo senso allora nel contesto attuale, dove il lavoro viene continuamente frantumato, cioè diviso, svalorizzato e umiliato, per essere meglio tradotto continuamente in plus-valore proprietario, esso (il lavoro stesso) grazie alla progressiva sedimentazione, in suo seno, di un sapere che è costituzionalmente comune e sempre più refrattario ad una sua misurazione contabile dentro una antropologia individualistica e proprietaria, mostra i contorni di una smisurata, incontenibile, inedita potenza soggettiva e creativa.

Ecco allora la posta in gioco dentro il lavoro: creare un fondamento, un alveo istituzionale dove la precarietà ontologica della frantumazione apra al riconoscimento delle passioni di autonomia e creatività (passioni biopolitiche) che le nuove soggettività continuamente giocano nelle metropoli e nelle reti/filiere del produrre contemporaneo. Riconoscere da un lato la precarietà come patologia del legame sociale vuol dire allora riconoscere la tossicità dell’organizzazione del lavoro nella società capitalistica e nello stesso tempo rinvenire la presenza di una frattura che ci invita a muovere verso la costruzione di nuove forme di socialità (istituzioni) organizzata.

È qui che si pone con forza il problema della coalizione del lavoro. Che in quest’ottica si dà, si può dare solo come movimento di composizione su basi nuove delle soggettività e delle passioni dell’essere, fertilizzate dalla spinta alla differenza come valore intrinseco alla produzione di vita. Ma l’organizzazione non è un automatismo, esso si produce nel campo del politico.

Il problema è stato ancora una volta già segnalato dalla incredibilmente feconda esperienza intellettuale dell’operaismo italiano. Scriveva infatti ancora Mario Tronti: “Quanto più si sviluppa la produzione capitalistica e il sistema delle sue forse produttive, tanto più la parte pagata e la parte non pagata del lavoro si confondono in modo inscindibile” (QR secondo volume). In altre parole vi è sempre più confusione tra tempo di vita e tempo di lavoro, tra momento della produzione e momento della circolazione come ci insegna la straordinaria riflessione di Christian Marazzi in proposito.

Afferma Marx (III, 1, p. 73) a riguardo: “il capitale percorre il ciclo delle sue trasformazioni; esso trapassa per così dire dalla sua vita organica interna a rapporti esterni di vita, a rapporti in cui si contrappongono non capitale e lavoro, ma capitale e capitale da una parte, gli individui come compratori e venditori dall’altra”.

È l’ideologia del capitale. La mistificazione del rapporto sociale di sfruttamento. Lo sfruttamento delle passioni creative dentro il mercato come regime di verità. Che comporta oggi, tra l’altro, la definizione del lavoro (per dirla con Foucault) sotto le false spoglie del capitale umano e dal farsi impresa del lavoro.

In fondo per dirla in modo diverso è questo il processo di progressiva lavorizzazione della vita, processo specifico di lavorizzazione di tutto quanto l’agire umano, come la chiamava Romano Alquati (che mi piace qui ricordare dopo la sua recente scomparsa) in un suo recente scritto. “Abbiamo un capitalismo, scriveva, che sta lavorizzando tutto quanto nella precarizzazione progressiva”. Possiamo liberamente con lui affermare che c’è un tempo di non lavoro artefattivo che sostiene oggi l’accumulazione del valore che deve essere riconosciuto, e che per essere strappato all’umiliazione del profitto (altrui) che si fa sempre più rendita, deve essere evidenziato e rinnovato come nuovo spazio di ricchezza per la rivendicazione e progettazione di un welfare dell’autonomia sociale.

Ad ogni modo e per concludere è l’umiliazione del lavoro, di cui parla Sergio Bologna, il piano di partenza su cui oggi dobbiamo reagire per tematizzare il futuro. E l’umiliazione del lavoro comprende, è complementare all’umiliazione della scuola e dell’Università. È in questa lotta, in quest’attacco al lavoro/sapere che si misura e percepisce la necessità urgente di una nuova coalizione.

Questa la premessa. Per quanto riguarda lo svolgimento del convegno esso si è articolato lungo tre diversi significanti del lavoro frantumato che hanno circoscritto ciascuno tre diverse sessioni dei lavori seminariali: il contesto, i soggetti, e la coalizione. In questa sede ci limiteremo, a dare conto, delle principali questioni emerse nelle relazioni centrali del convegno, anche se tale scelta non rende giustizia agli altri contributi presentati (nello specifico quelli di Emiliana Armano, Stefano Lucarelli, Dario Banfi, Anna Curcio, Cristina Morini, Salvatore Cominu, Margaret Gray e Lisa Dorigatti) che hanno tutti contribuito in modo straordinario allo svolgimento della discussione seminariale.

Nella prima sessione Andrew Ross, nella sua davvero stimolante e preziosa relazione (che trovate nella sua versione originale sul sito di uninomade.org), ha discusso criticamente, e in maniera molto convincente, da un lato il programma green di rilancio del capitalismo contemporaneo e dall’altro la problematicità/parzialità politica di alcuni movimenti, come ad esempio quello dello Slow Food, che assumono il tema della sostenibilità ambientale come paradigma interpretativo chiave della crisi in corso. La questione è dunque secondo Ross, quella di trovare una modalità avanzata di articolazione delle differenti istanze conflittuali prodotte dentro la crisi al fine di sviluppare quel grande potenziale politico che potrebbe essere fornito da una virtuosa sincronizzazione dei diversi movimenti per la giustizia sociale, economica e ambientale.

La relazione di Andrea Fumagalli ha invece sottolineato la fondamentale funzione svolta dalla precarietà nella determinazione della forma del potere nel modello capitalistico attuale. In particolare Fumagalli ha sottolineato come la condizione di precarietà sia attraversata da una intensa e intrinseca ambivalenza. In questo senso tale condizione sarebbe sì descrivibile come un momento di forte disagio e incertezza esistenziale ma al contempo anche come una sorta di espressione di libertà di vita, di voglia di autonomia e cambiamento sociale. Tale ambivalenza deve essere esaminata da almeno due punti di vista. Il primo punto di osservazione guarda la precarietà dall’esterno dell’esperienze soggettive e da qui essa appare descrivibile, in sintesi, come una condizione oramai pressoché comune e strutturale all’intera vita sociale contemporanea, dato che i rapporti tra lavoro e vita, nel capitalismo cognitivo e biopolitico, si sono fatti sempre più porosi e impalpabili e la precarietà stessa si è generalizzata a tutte le categorie giuridiche del lavoro. Dal secondo punto di vista, quello interno, soggettivo, la precarietà appare invece come una condizione intrinseca al nuovo modello antropogenetico di produzione del valore,  nel senso che il lavoratore, diversamente dal passato industriale “cresce” nel momento in cui svolge la sua prestazione professionale, apprendendo nuove pratiche e tessendo nuove articolazioni della sua relazionalità. Tutto questo produce delle inedite modalità di cooperazione sociale. Quest’ultima può dunque assumere o una auspicabile forma di tipo orizzontale o una, solo apparentemente paradossale, forma gerarchica che fa problema. Comunicazione, cooperazione relazionale e (auto)controllo sociale formano secondo Fumagalli il nuovo triangolo definitorio del lavoro nel capitalismo cognitivo – relazionale. A partire da queste riflessioni dove sta allora l’ambivalenza del lavoro contemporaneo? Essa si manifesta nella incapacità della precarietà, che è come abbiamo visto è una condizione comune e generalizzata, di generare una capacità politica collettiva, consapevole e organizzata in grado di contrastare l’incertezza e l’umiliazione della vita lavorativa e sociale nel capitalismo contemporaneo.

Adalgiso Amendola, intervenuto nella stessa sessione di Fumagalli, ha invece iniziato il suo intervento sottolineando la intrinseca avversione della scienza giuridica per la frammentazione. Quest’ultima sarebbe infatti da sempre stata animata dall’attitudine a ricomporre e a mediare ciò che la modernità tendeva invece a sbriciolare. Il tentativo della scienza giuridica tradizionale è stato, in altre parole, quello di costruire un soggetto capace di tenere assieme ciò che si faceva progressivamente diviso. Il diritto del lavoro del novecento ha infatti tentato di mediare la crisi della norma liberale, generale e astratta con le pressanti e concrete rivendicazioni sociali del movimento operaio. Il primo strumento utilizzato a questo scopo fu il contratto collettivo. La mediazione del contratto collettivo è potuta funzionare perché la soggettività in questa fase si dava a sua volta in termini collettivi (di classe) e i dispositivi giuridici erano confinabili all’interno delle diverse società nazionali. Cosa succede oggi dopo la crisi della società salariale? La rottura di questo difficile equilibrio irrompe nello scenario contemporaneo. E la norma cambia radicalmente aspetto. Quest’ultima da norma collettiva e compositiva si declina in norma di gestione della frammentazione e della individualizzazione sociale. L’amministrazione non tende più a ricondurre i frammenti in un alveo compositivo ma il governo della amministrazione giuridica lascia il posto al governo delle ineguaglianze soggettive. Foucault parlerà in questo senso del passaggio dal governo alla governamentalità, dove la mediazione giuridica tende ad essere progressivamente sostituita da una moltiplicazione degli status giuridici. È la fine della unitarietà della tradizionale mediazione giuridica. La prospettiva che si apre è allora quella della crisi della modernità giuridica e dei suoi dispositivi centralizzati, primo tra tutti la Costituzione. Il problema che pone Amendola è allora quello di chiedersi come fare a governare la contingenza del presente senza cadere in tentazioni nostalgiche rivolte verso il recupero di un anacronistico e gerarchico centro giuridico. Il problema è capire come progettare nella dinamica dei frantumi una nuova dimensione del noi che non può però più essere dato come presupposto. Il successo attuale di formule giuridiche ibride, come ad esempio la class action, possono forse, ci dice Amendola, indicarci la via per generare nuove coalizioni degli attuali frantumi post-identitari.

Sergio Bologna inaugurando l’ultima sessione dei lavori ha sottolineato il bisogno di una nuova narrazione del lavorare alla cui base si ponga però una precisa e dettagliata ricostruzione degli eventi storici che si sono verificati negli scorsi decenni. In questo senso si deve partire, precisa Bologna, dalla svolta epocale avvenuta all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso. In effetti la Costituzione, che non è mai stata formalmente abrogata o alterata nei suoi principi fondamentali, è stata però nei fatti esautorata, almeno in alcuni dei suoi principi, ad esempio il lavoro come fondamento dell’ordine repubblicano, nel periodo 1992/1993, quando è avvenuto un vero e proprio cambio di regime. E’ cambiata in quel momento, con le privatizzazioni, la costituzione materiale del Paese e sono cambiati radicalmente i sistemi di relazione industriale. E’ cambiata la borghesia capitalista, è cambiato il ruolo del sindacato, il lavoro non è più il centro dell’ordinamento repubblicano. A partire da questo momento è incominciato, sottolinea ancora Bologna, il progressivo degrado del lavoro dipendente e contemporaneamente è iniziata la frammentazione del mondo del lavoro. L’organizzazione del lavoro post-fordista ha reso inoltre tecnicamente impraticabile tutta una serie di attività di conflitto e di negoziazione tipiche del periodo precedente. Per lo stesso motivo, afferma Bologna, diffiderei da un eccesso di operaismo di ritorno. Ma se la situazione e i rapporti tra capitale e lavoro sono radicalmente cambiati, che fare allora? Come andare oltre la frammentazione dilagante, oltre la gravissima e umiliante situazione in cui versa il lavoro contemporaneo? L’unica possibilità secondo Bologna è quella di immaginare delle sedi di nuova unità. In tal senso l’Università e la sua capacità di resistenza deve e può diventare una delle sedi pubbliche prioritarie di composizione e rilancio del conflitto sociale.

Le relazioni del convegno sono concluse dall’intervento di Vando Borghi. Quest’ultimo, riprendendo l’invito di Sergio Bologna ad andare oltre una autoreferenziale e  sterile discussione sui problemi del lavoro, ci invita a ragionare su come la ricerca sociale può alimentare terreni di conflitto e critica sociale. Borghi richiamando il lavoro di Boltanski sottolinea come in primo luogo sia utile comprendere come la questione della critica giochi un ruolo ambivalente nella riorganizzazione dei processi di accumulazione capitalistici. Nel ripetersi violento e continuo dell’accumulazione originaria dentro la società capitalistica contemporanea è possibile infatti evidenziare il modo in cui la critica al modello di sviluppo attuale viene in un certo modo addomesticata e metabolizzata. Se allora un terreno della critica è possibile dobbiamo, secondo Borghi, cercare di sedimentare un linguaggio comune delle resistenze che permetta di connettere assieme l’eterogeneità delle esperienze critiche che esistono oggi nel panorama contemporaneo. Tale terreno comune può darsi però, insiste Borghi, solo sul piano di una costruzione dal basso, in modo post-egemonico e induttivo, dove ogni pregiudizio di parte deve essere in un certo senso sospeso. Come diceva Walter Benjamin di fronte alla necessità di ripensare l’attività critica nell’Europa del nazismo incombente, occorre anche oggi come allora organizzare il pessimismo. Borghi in conclusione, cosciente comunque delle difficoltà che questa strategia organizzativa possa comportare, ha sostenuto che il verbo chiave, possa essere oggi quello della federazione delle diverse e parziali fonti di resistenza, da mobilitare attraverso un ventaglio plurale e complesso di metodologie di lotta verso l’azione critica.

Consapevoli dell’impossibilità di presentare la ricchezza di questo seminario nelle poche note sopra riportate concludiamo informando che, molto probabilmente, entro la primavera del prossimo anno, saranno pubblicati gli atti di questa densa ma a mio parere molto feconda giornata di studio.

 

 

 

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