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Lezioni americane — #1 : Occupy May Day

 

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

Il Wall Street Journal non ha bisogno di tanti giri di parole per inquadrare la posta in palio della riforma del mercato del lavoro in Italia: abbiamo festeggiato il governo Monti pensando che potesse aprire una nuova epoca, simile a quella del thatcherismo in Inghilterra, e adesso non vorremmo essere costretti a ricrederci osservando le pastoie in cui il progetto è invischiato. Insomma, anche le mediazioni sociali più soft e accomodanti vanno tolte dai piedi. Ecco cosa significa quella credibilità dell’Italia invocata dalla sinistra. Il ringraziamento della comunità internazionale per essersi sbarazzati di Berlusconi è sinistro, non di sinistra.

Ma il Wall Street Journal non può spendere troppo tempo ad angustiarsi di quello che succede tra i piigs europei, perché è innanzitutto della credibilità dell’ambiente di cui è espressione che si deve preoccupare. Chi pensava di ridurre il movimento Occupy a opinione pubblica, ovvero al temporaneo malcontento di una società civile angosciata, ha fatto male i suoi conti. “Risveglio di primavera” recita, non a caso, lo striscione che sabato 14 aprile apre la partecipata assemblea di Occupy Wall Street (Ows) a Central Park per l’organizzazione della May Day. Ma, in realtà, Ows non è mai andato in letargo: dopo l’autunno, è continuato ininterrotto il lavorio delle commissioni (su formazione, casa, comunicazione, assistenza sanitaria, carceri, ecc.), nei quartieri e nei borroughs (da Occupy Brooklyn fino a Occupy Queens e Occupy Staten Island). “In questi mesi ci è mancato un luogo ricompositivo”, ripetono molti attivisti: lo sciopero generale del primo maggio è allora una grande scommessa e uno spazio per riunificare le differenti esperienze nate da Ows, dagli scioperi dell’affitto alle lotte contro la speculazione edilizia e gli sgomberi delle case, alle occupazioni dell’università e la campagna contro il debito studentesco.

Alle 3 del pomeriggio, con grande puntualità, il corteo che marcia al ruolo di trombe e tamburi verso il luogo dell’assemblea è composto da persone di diverse età, ragazzi e ragazze alle prime esperienze politiche e militanti che si rimettono in gioco. É una composizione transgenerazionale, nel senso che è per tutti un’occasione per vivere la giovane freschezza del movimento. Quando viene chiesto l’ormai celebre mic check, si materializza qualcosa di più di un semplice microfono umano che serve per aggirare il divieto di utilizzare un microfono meccanico. Il mic check sembra, infatti, innanzitutto una sorta di rito collettivo, immerso nelle tradizioni dei movimenti americani e, al contempo, espressione di una nuova soggettività immediatamente globale. Vedendolo all’opera, appaiono ancora più caricaturali i tentativi di duplicazione che si sono qua e là visti in Italia lo scorso autunno. Perché l’intelligenza collettiva prodotta nella rete è basata su un comune che assume forme differenti, così come le pratiche di lotta non sono merce da esportazione: vanno studiate, contestualizzate e tradotte, solo così possono circolare e riprodursi, ovvero organizzarsi.

In questo modo, l’onda lunga dello sciopero dei latinos il primo maggio del 2006 è arrivata fino a Ows e oggi i cartelli fissano e generalizzano lo stesso obiettivo: “May Day 2012: a day without the 99%. No work, no shopping, no housework, no school”. L’indicazione dei lavoratori e della lavoratrici migranti è ora diventata la pratica del “99%”. Quanta forza abbia questa pur vaga identificazione “statistica” lo si può facilmente vedere: è una forza di inclusione nelle lotte e di vocazione maggioritaria. Qualche attivista ne mette in evidenza le ambivalenze e gli aspetti problematici, il rischio di sciogliersi in un’indistinta società civile che perde di vista coloro che, dentro il “99%”, sono al servizio dell’“1%”. “Nella nostra occupazione – andata avanti fino a gennaio – qualcuno diceva che non dovevamo creare problemi durante le manifestazioni perché anche i poliziotti fanno parte del 99%”, racconta un’attivista di Pittsburgh. La ex città dell’acciaio è la nostra prima tappa fuori da New York. Il clima che ci accoglie è particolare: da un paio di mesi un allarme bomba sta creando panico e militarizzazione, quasi quotidianamente gli studenti vengono fatti uscire dai dormitori nel cuore della notte, gli accessi alle strutture dell’università sono attentamente sorvegliati. Nella “Cathedral of Learning”, imponente palazzo di 42 piani nel cuore del campus, non si entra senza documenti di identità, lunghe file e scrupolose perquisizioni. Sembra è  l’immagine di un’università in crisi e che si percepisce sotto assedio.

Gode invece di una relativa salute economica la Carnegie Mellon University, grazie ai cospicui finanziamenti del complesso industriale militare. Da lì, dentro edifici senza finestre per custodire i segreti della ricerca e della conoscenza, pare che vengano i famigerati droni. Da lì, sicuramente, vengono l’altrettanto famigerato Richard Florida e i suoi progetti di città creativa, entrati in crisi insieme alle promesse di progresso ed espansione del capitalismo cognitivo. Ed è difficile dire quale dei due prodotti della Carnegie Mellon abbia fatto più danni. Così a Homestead e dai tre fiumi di Pittsburgh non sbarcano più gli agenti della Pinkerton per reprimere le rivolte operaie, ma grandi mall e gli agenti della creative class che devono catturare la produzione del comune.

La seconda tappa è Portland, nel Maine, città nota per essere una delle capitali della pesca dell’aragosta e ora piccolo centro del lavoro cognitivo. In questo stato dimenticato, il cui governatore è un aggressivo rappresentante del Tea Party, ci sono una ventina di Occupy, tra loro coordinati. É straordinario osservare questa diffusione territoriale del movimento, che non si è esaurita nell’evento dell’occupazione della piazza centrale della città: quando a Portland è finita (prima di Natale), diverse esperienze si sono sedimentate e radicate. Ne è un esempio Occupy University of Southern Maine,  impegnato in una battaglia contro il suo presidente e l’azienda universitaria (formalmente pubblica, ma ben poco cambia come sottolineano i numerosi attivisti). Durante l’autunno, molti partecipanti all’occupazione hanno fatto la spola tra Portland e New York, ma hanno scelto di non trasferirsi a Zuccotti Park: “Avremmo fatto i turisti, invece è stato importante creare un movimento di occupazione nel Maine perché è un segno tangibile della volontà di andare oltre l’evento simbolico”.

Ora l’appuntamento è, per tutti e ovunque, quello della May Day, tappa decisiva per saggiare la tenuta e il carattere ricompositivo di Occupy. Di sicuro, un primo importante risultato è già stato ottenuto: dopo Oakland, lo “sciopero generale del 99%” direttamente convocato e praticato dal movimento è all’ordine del giorno negli Stati Uniti. Se il movimento contro la globalizzazione capitalistica inseguiva i vertici degli organismi internazionali, Occupy riesce a dettare un’agenda politica autonoma. E tutti, a partire dai sindacati, si devono misurare su questo terreno. Nel frattempo, un paio di settimane fa a New York, militanti della union dei lavoratori dei trasporti hanno aperto per un’intera giornata i cancelli di varie stazioni della metropolitana: oggi il 99% non deve pagare i due dollari e mezzo del biglietto e viaggia gratis, recitava un volantino che sembrava avere i crismi dell’ufficialità e con la beffarda firma dall’azienda dei trasporti. Ecco una lezione che i sindacati italiani, pavidi e arroccati, dovrebbero imparare in fretta.

 

 

 

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