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Lezioni americane — #3 : dal Midwest a Toronto, passando per il Quebec in rivolta

 

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

“Un investimento in conoscenza ripaga con gli interessi”: la frase di Benjamin Franklin è scolpita sul muro dell’università di Chicago. É cinicamente ironica per i milioni di studenti costretti a indebitarsi, per cui l’investimento nel presente e gli interessi del futuro collassano nell’impoverimento e nella precarietà permanente. Non a caso qui come altrove giovani e studenti sono stati una parte centrale dell’occupazione, da fine settembre a dicembre, di uno spazio nel cuore del distretto finanziario. La mobilitazione a Chicago era già cominciata dall’estate prima con la coalizione di “Stand Up! Chicago” e poi con la formazione della rete “Take Back Chicago”, che raccoglie attivisti, collettivi, organizzazioni di comunità e sindacati (tra cui spicca la potente Seiu, la union dei lavoratori dei servizi). Gli obiettivi iniziali erano concentrati sulla contestazione al vertice del G8, costretto a fuggire preventivamente nella fortificata Camp David, e al prossimo incontro della Nato che si terrà a maggio. Ben presto comunque i temi si sono allargati, in sintonia con la rapidissima diffusione del movimento Occupy.

Non sono mancate, ci racconta un compagno da tempo impegnato nella costruzione di esperienze di autoformazione, tensioni che corrono principalmente sulla linea della razza. E tuttavia, le differenze non hanno portato alla divisione ma alla moltiplicazione delle iniziative: così è nato “Occupy the Barrio” da parte dei migranti latinos (con o senza documenti) e “Occupy the Hood” nei quartieri popolati dagli afroamericani, impegnati soprattutto nelle importanti lotte contro gli sgomberi delle case, tema centrale del movimento nel suo complesso. “Si sta producendo un vocabolario comune”, osserva un attivista. Più volte si è tentato di occupare il grande parco che affaccia sul lago Michigan, luogo storico del Sessantotto, in cui Obama ha tenuto a caldo il suo primo discorso da neo-presidente degli Stati Uniti. In ogni occasione la polizia ha respinto violentemente i manifestanti, a protezione di un simbolo che la pacificazione obamiana tenta di risignificare, come se le lotte del passato culminassero nell’elezione del presidente nero.

Ma la storia ha preso un’altra strada, e a Madison, capitale del vicino Wisconsin, già se ne erano accorti nell’inverno dello scorso anno. “Fare come a piazza Tahrir” era uno degli slogan dell’insorgenza contro i tagli del governatore repubblicano Walker e le politiche di austerity. Capitol, il campidoglio del Wisconsin, era stato occupato per settimane, seguendo l’indicazione dei movimenti del Nord Africa e anticipando la pratica di Occupy. Oggi striscioni e cartelli “Recall Walker” continuano a campeggiare ovunque, dalle autostrade alle vetrine dei bar, benché a partire da settembre l’occupazione della piazza sia stata meno intensa che in altre città americane. Ma ciò che era successo a Madison si è diffuso e nella non lontana Milwaukee la mobilitazione, ci dicono, è grande come ben poche volte era successo in passato: anche la città di “happy days” fa oggi i conti con l’esaurimento del ceto medio e del suo sogno americano.

Non diverso è il clima che si respira a Minneapolis. Pure sulle sponde del Mississippi le iniziative contro gli sgomberi delle case sono uno dei punti centrali del programma di movimento. Ed è su questo terreno che si sta cercando una relazione con la più grande comunità inurbata di nativi americani nel paese, da sempre sospettosi e diffidenti nei confronti dell’attivismo bianco. All’università il radicato intervento, portato avanti da collaudati gruppi militanti, risente oggi della recente sconfitta nel referendum per avere un sindacato dei graduate students. Lo United Auto Workers ha investito alcuni milioni di dollari nella campagna che è andata avanti per due anni, ma la sconfitta – spiegano alcune compagne che ne sono state protagoniste – è anche dovuta agli errori commessi dal sindacato quando ha soffocato l’autonoma organizzazione dei precari. Al contempo, ci si interroga sulla contraddittoria percezione degli studenti: come se, all’esaurirsi del ruolo dell’università in quanto ascensore della mobilità sociale non corrispondesse una traduzione politica in termini di conflitto. Quanto può durare, si chiedono?

Questa è la domanda che ci accompagna attraversando il confine, sorvolando i grandi spazi abbandonati della deindustrializzata Detroit e arrivando a Toronto per il meeting nordamericano di edu-factory. L’incontro è in continuità con il meeting del febbraio 2011 a Parigi e uguale è l’obiettivo: costruire processi di organizzazione sul piano transnazionale. Sono almeno duecento gli attivisti presenti, proveniente non solo da Canada e Stati Uniti, ma anche dal Messico e dall’Europa, e tutti impegnati nelle “lotte dentro e oltre l’università neoliberale”. In prima fila un bus arrivato dal Quebec, ormai da vari mesi percorso dalla rivolta contro l’aumento delle tasse: “l’università – fino a poco tempo fa gratuita – è sull’orlo della bancarotta e vogliono far pagare la crisi agli studenti, aumentando ulteriormente le tasse che già ora coprono il 75% del budget dell’azienda accademica”. Le lotte non riguardano solo gli studenti, stanno ricevendo un sostegno e una partecipazione di massa: “nei giorni scorsi” spiega un militante della coalizione radicale CLASSE (Coalition large de l’Association pour une solidarité syndicale étudiante), “l’amministrazione ha proposto una mediazione al ribasso che è stata immediatamente rifiutata; si è formata spontaneamente una grande manifestazione per le strade di Montreal, e il bello è che noi non l’abbiamo organizzata, non ne sapevamo nulla”.

“Quelle promesse sono diventate vuote”, è l’emblematico titolo dell’intervento di un’attivista impegnata nella campagna Occupy Student Debt. Con buona pace di Banjamin Franklin e del sogno americano, la bolla formativa è scoppiata: non solo per gli studenti delle humanities, ma sempre più anche per le illusioni di aspiranti medici, ingegneri o avvocati. Però, siccome la finanziarizzazione non è una cospirazione ma un processo materiale, il problema è come individuare i propri nemici, come incarnare quell’altrimenti sfuggente 1%. “L’amministrazione dell’università, privata o pubblica che sia, è la nostra immediata controparte”: su questo a partire dall’analisi delle lotte, sono tutti d’accordo.

Fino a qualche anno fa era molto forte l’anti-intellettualismo tra gli attivisti americani, e sicuramente non è scomparso. Ma, raccontano gli attivisti, ora studenti e lavoratori dell’università non sono più percepiti come gli appartenenti a un mondo privilegiato. Qualche settimana fa a Montreal hanno fatto un corteo insieme ai lavoratori dell’aeroporto contro le politiche del ministero dei trasporti: non si tratta semplicemente di solidarietà, ma di sentirsi parte di una situazione comune. Così, quando dal corteo del sabato pomeriggio guidato dagli studenti del Quebec e che raccoglie il sostegno di molti automobilisti e passanti per le vie centrali di Toronto si alza forte “Solidarity Forever”, la famosa canzone degli Iww, non vi è nostalgia o utopie di palingenesi rispetto alla propria condizione sociale. È la rivendicazione di una storia comune, di cui i giovani lavoratori, cognitivi e precari, si sentono interamente parte. Poche ore prima una studentessa della Repubblica Ceca, parlando delle lotte contro la “legge finanziaria dell’università”, aveva mostrato lo striscione di un recente corteo a Praga: “1968-1989-2012”. È  il desiderio di libertà a fare la storia.

Ora tutti sono pronti per la May Day. Il movimento Occupy l’ha convocata anche a Toronto, ma ovviamente l’attenzione è concentrata sulla manifestazione di Montreal, dove lo sciopero è già generalizzato ed è, appunto, quello dell’università. “La polizia, in Canada e negli Stati Uniti, è ‘nervosa’ e aggressiva come raramente lo era stata nel recente passato”, ci dice una compagna. Poi, dopo una breve pausa, aggiunge: “Hanno una gran paura”.

 

 

 

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