Lotte di classe e ricomposizione politica nella crisi


  12 / 01 / 2011

di SANDRO MEZZADRA e TONI NEGRI

Nell’autunno dell’anno in cui la crisi economica globale ha investito con particolare violenza l’Europa, ponendo in discussione non soltanto le ultime vestigia di un “modello sociale” centrato su politiche di Welfare ma la stessa tenuta dell’integrazione monetaria, le lotte hanno fatto segnare un salto di qualità. La continuità delle pratiche quotidiane di resistenza, delle mille vertenze e della micro-conflittualità permanente è stata felicemente interrotta da eventi e rivolte di grande portata simbolica, che possono complessivamente riqualificare il significato politico di quella stessa resistenza: il movimento di sciopero sociale contro la riforma delle pensioni in Francia, i moti di Londra contro l’aumento delle tasse universitarie, la mobilitazione degli studenti greci e la lotta contro la “riforma” Gelmini in Italia hanno rotto ogni simulacro di pacificazione sociale nella crisi. Ognuno di questi momenti ha avuto caratteristiche sue proprie, e tuttavia ciascuno di essi ha saputo coagulare soggetti e interessi eterogenei, palesando una omogeneità di comportamenti, rivendicazioni e linguaggi che prefigura – almeno potenzialmente – un ciclo di lotte su una scala continentale (mentre quanto sta accadendo in questi giorni in Tunisia e in Algeria ci obbliga immediatamente a decentrare e ad allargare questa scala).

Sarà necessario tornare al più presto sulla dimensione europea delle lotte. Qui ci limitiamo ad avanzare qualche riflessione su quello che ci sembra essere il problema essenziale proposto dallo sviluppo stesso delle lotte. Dobbiamo esserne consapevoli: il tema posto dalla durata, dalla circolazione e dall’accelerazione della lotta di classe nella crisi – una lotta che finora solo i padroni hanno gestito con tutta consapevolezza – è per la moltitudine dei lavoratori e delle lavoratrici del braccio e della mente quello della ricomposizione politica. “Ci rubano il futuro”, è lo slogan echeggiato da Londra a Tunisi: questo futuro dobbiamo cominciare a conquistarlo appropriandoci del presente e costruendo un orizzonte politico di radicale alternativa.

Il tema si pone, del tutto concretamente, almeno secondo due temporalità. La prima è quella (del presente) che coinvolge gli strati più esposti della forza-lavoro cognitiva e industriale sul tema del salario, delle garanzie e dei “diritti” (la compenetrazione tra questi aspetti è ben esemplificata in Italia dallo scontro in atto su Mirafiori, mentre lo straordinario movimento di lotta dei migranti che si è sviluppato tra ottobre e novembre attorno all’occupazione di una gru a Brescia ne ha mostrato altri essenziali aspetti). Questo è un attacco che declassa ed impoverisce i proletari, in particolare le fasce giovanili. Da 35 anni, cioè dalla metà degli anni ’70, quando si estende la disoccupazione di massa in seguito alla crisi del “fordismo”, i giovani sono diventati – come dicono i sociologi – una pura variabile di aggiustamento del mercato del lavoro, secondo modalità che hanno caratteri peculiari in Italia e in altri Paesi dell’Europa meridionale ma sono ben lungi da limitarsi a essi.  Disoccupazione percentuale massiccia dei giovani, precarizzazione, sviluppo di sacche di lavoro quasi o interamente gratuito (stages, internships, lavoro con esonero delle assicurazioni sociali), nuova povertà, abbassamento dei salari e dei livelli di vita, impossibilità d’indipendenza personale, assenza di politiche per la sanità, la casa, ecc. – insomma, come hanno ben compreso i manifestanti d’autunno, assenza totale di un orizzonte futuro leggibile: queste sono le condizioni che si sono create per i giovani e che riguardano a medesimo titolo lavoratori e lavoratrici industriali e forza-lavoro intellettuale – ormai del tutto intercambiabili sotto questo profilo.

La seconda temporalità (della durata) è quella che ormai unisce, in maniera indissolubile, i giovani e le vecchie generazioni e le mette ugualmente in pericolo attraverso la caduta generalizzata dei diritti sociali e la regressione dei sistemi sociali di Welfare. Trionfa un capitalismo della rendita che ha invaso la società bloccando ogni mobilità e risucchiando nel baratro della miseria i vecchi con i giovani. Il declassamento dei giovani (ormai più poveri dei loro parenti e con minori prospettive: al presente ed in prospettiva pochissimi giovani possono pensare che saranno più agiati dei loro genitori) trascina anche i più anziani nella triste prospettiva di un sostegno prolungato ai figli, mentre le filiere del lavoro di cura – svolto in misura preponderante da donne migranti – riorganizzano su scala transnazionale l’assistenza agli anziani, forgiando nuovi modelli di subordinazione e sfruttamento in base al genere e alla provenienza geografica.

A fronte di questa situazione, se la resistenza non diviene generale, non sarà efficace. I giovani sono certo i più attivi. Le lotte hanno già mostrato gradi di ricomposizione molto avanzati. In Francia, in Gran Bretagna, in Grecia, in Italia le lotte giovanili hanno, in questa fase del ciclo della lotta di classe, anticipato la ricomposizione sociale. I caratteri di questa resistenza sono infatti esemplificati da una serie di importanti comportamenti che, lungi dall’essere semplice risposta alle “strategie da shock” neoliberali, alludono a una resistenza generalizzata, intergenerazionale, che si oppone ai colpi portati contro la moltitudine proletarizzata, con mobilitazioni puntuali.

Menzioniamo alcuni di questi caratteri:

1)   In primo luogo, come si è detto, il protagonismo degli studenti medi e universitari, in Gran Bretagna contro l’aumento delle tasse; in Italia contro la “riforma” Gelmini ed ora a fianco dei metalmeccanici contro il piano Marchionne; in Francia impegnati nella lotta sulle pensioni. Questo protagonismo rivela grande maturità e radicalità, frutto accumulato di tutte le mobilitazioni di questi ultimi anni e della reciproca fecondazione delle esperienze vissute su vari terreni formativi e professionali.

2)   In secondo luogo, la mobilità interprofessionale – in rottura con le corporazioni e le divisioni sindacali. Quest’unità si è rivelata essenzialmente in Grecia. In Francia la mobilità territoriale dei gruppi in lotta ha rivelato, nell’autunno 2010, una formidabile originalità: il blocco della produzione e della circolazione delle merci sul territorio è divenuto un mezzo di lotta interprofessionale nel senso che queste azioni di blocco (delle autostrade, delle stazioni, degli aeroporti, dei depositi di carburante ecc.) non erano semplicemente fatte dai soli lavoratori del settore interessato ma erano modi di azione studiati in funzione del loro impatto politico ed organizzati su base interprofessionale (per esempio i picchetti alle porte delle raffinerie). In Italia, su questo terreno, vanno considerate l’adesione e la simpatia mostrata alle lotte studentesche dai quartieri periferici metropolitani e più in generale il grande consenso di cui il movimento contro la legge Gelmini ha continuato a godere anche dopo gli scontri del 14 dicembre a Roma.

3)   Fondamentale infine è la centralità del tema del “comune” e della sua riappropriazione: esso sta imponendosi all’interno delle rivendicazioni, degli obiettivi e dei linguaggi di tutti i movimenti, emergendo sempre più chiaramente come orizzonte della loro ricomposizione. La questione posta in questo caso è quella di come smantellare i privilegi della rendita finanziaria ed immobiliare che ormai condizionano in maniera totale la vita e la produzione. Sia i movimenti sociali, sia le lotte sul Welfare, sia quelle sindacali pongono questa tema come centrale. Il fatto che lo Stato, da quello americano a tutti gli altri, abbia prima di tutto speso il denaro pubblico per rifinanziare le banche, rappresenta lo scandalo maggiore del nuovo secolo e il maggiore insulto al comune.

Le nostre società sono in una condizione strana, le difficoltà si accumulano ed il capitalismo non appare più in grado di parlarne né di agire su di esse. A suo tempo abbiamo chiarito l’impossibilità di un New Deal che aggredisse e risolvesse la crisi attuale, altre volte abbiamo ricordato quanto fosse singolare la condizione in cui viviamo: “come prima della rivoluzione francese, non c’era politicamente altro che l’ancién régime, poi, dopo il vuoto presente, non potrà che esserci altro che un’assemblea costituente di tutti i ceti – che vuol dire con l’estrema maggioranza dei poveri. È questo salto che i movimenti devono governare”. Qui si può aggiungere, per rendere l’argomento più evidente, che, come dicono i sociologi, in questo periodo si concentrano i tre grandi handicap caratteristici dei blocchi del periodo prerivoluzionario: “un debito massiccio del consumo e dello stato che impedisce l’elaborazione di ambiziose politiche pubbliche d’investimento; le frustrazioni sociali legate all’accumulazione di promesse non soddisfabili; una governance del Paese destabilizzata da maggioranze sempre più difficili da trovare, in un contesto nel quale nessuna autorità è più accettata”. Quando il capitale e la sua organizzazione sociale e politica stanno male, dobbiamo picchiare contro di esso. Non c’è un interesse generale da difendere, c’è un interesse comune da costruire e da imporre, ed il comune è contro l’appropriazione capitalista del lavoro, della ricchezza e del sapere.

In questa situazione, una domanda circola insistentemente all’interno dei movimenti e delle moltitudini in lotta in tutta Europa: che cosa significa oggi sciopero generale? Significa ricomposizione della lotta, non solo su obiettivi particolari, quali possono essere quelli dei metalmeccanici, dei migranti, dei ricercatori precari ecc.: questi si muovono in maniera sacrosanta e le loro rivendicazioni vanno assunte in primo piano. Ma lo sciopero generale deve andar oltre questo livello di essenziale espressione rivendicativa e conflittuale dell’eterogeneità costitutiva del lavoro vivo contemporaneo. Non può essere solo sindacale: deve essere politico, deve incidere sulla dimensione immediatamente sociale del lavoro e della cooperazione in cui quell’eterogeneità è impiantata. E neppure lo sciopero generale potrà suscitare l’illusione di un grande evento che muta il corso della storia: la sua stessa temporalità non può ormai che essere quella di un movimento, capace di estendere progressivamente la propria forza sull’intero arco della produzione sociale e di bloccare realmente i circuiti della valorizzazione, di mettere fuori uso i dispositivi dell’appropriazione capitalistica della ricchezza comune. Una  cosa rimane comunque certa: lo sciopero generale deve determinare una ricomposizione politica per la trasformazione della società e quindi produrre effetti costituenti, avere la forza di fissare obiettivi comuni. Non abbiamo risposte semplici alle domande e ai problemi che questa affermazione inevitabilmente suscita: sappiamo però che questo è il terreno su cui devono misurarsi la sperimentazione e l’azione nei prossimi mesi.

Potrà il sindacalismo (quella parte di esso che rifiuta di convertirsi in una cinghia di trasmissione del comando capitalistico in fabbrica e nella società) confluire sul programma del comune? Noi siamo convinti, per quel che riguarda l’Italia, che la Fiom si muova ormai su questo terreno. Non è facile tuttavia. Per noi è chiaro che su questo terreno non si possono perdere, per dirla con una battuta, né il sindacato né il comune. E tuttavia, il problema così posto resta difficile. Infatti, che l’università sia un comune immediatamente riappropriabile è più che evidente (anche se imporre e organizzare politicamente questa evidenza è ben più complesso). Ma che cosa vuol dire che la fabbrica è un comune? Nulla, se l’affermazione è presa in termini ideologici. Nessuno crede più all’autogestione, anzi questa è ritornata ad essere una parola d’ordine del sindacalismo “giallo”. E tuttavia, che la fabbrica sia un comune, non può che significare altro che essa deve essere riappropriata dalla moltitudine. Anche per la fabbrica il comune è un programma di appropriazione: e questo programma non può prescindere da decisioni cruciali su come e che cosa produrre. Esso prevede alcune condizioni fondamentali ed in particolare l’invenzione di nuovi istituti e di nuove pratiche democratiche che riconducano le banche e tutti gli strumenti della finanza ad essere un servizio pubblico ed ogni allocazione finanziaria ad essere comunemente decisa. Grandi problemi, ne siamo ben consapevoli, che occorre tuttavia cominciare ad affrontare a viso aperto.

Lo sciopero generale dovrà dunque (se non vuole aver la testa mozzata) proporre istituiti della democrazia e della riappropriazione sociale. Abbiamo sempre pensato che ormai la produzione si realizzi essenzialmente sui territori metropolitani, su una scala compiutamente sociale. È dunque su questo terreno che vanno organizzate Camere del Lavoro (e del non lavoro, dei disoccupati, dei precari) di operai, di migranti e di studenti – un istituto capace di lottare sulla questione della redistribuzione del tempo di lavoro a livello sociale, a sostegno dell’autoformazione permanente e per la costruzione di una nuova governance della moltitudine. Già negli anni ’70 si sono sviluppati esempi di questa gestione democratica del territorio (dai comitati operai ai consigli di fabbrica, dai comitati per la casa a quelli nelle scuole ecc.): erano i movimenti operai e proletari che pianificavano le lotte per la conquista del Welfare a livello sociale. Oggi, è essenzialmente contro il capitale finanziario e contro i ceti della rendita finanziaria ed immobiliare che si tratta di agire, lottando ad esempio contro il ricatto del debito che si vorrebbe generalizzare come forma di controllo sulla vita e sulla cooperazione. Questo fronte è metropolitano e sociale. Lo sciopero generale dovrà lasciare, sul terreno metropolitano, dei punti di forza, degli istituti che sappiano costruire un’alternativa politica al liberismo.


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