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Merito e formazione : riflessioni e spunti di dibattito verso l’autunno che viene

 

di NICCOLO’ CUPPINI

Profumo… di austerity

Nelle ultime settimane il ministro Profumo ha rilasciato alcune dichiarazioni in merito alle misure che vorrebbe applicare a partire dall’autunno nelle scuole e nelle università. Nell’ormai rituale mettere mano di ogni governo al sistema formativo, in un clima di riforma permanente, è bene considerare a mente fredda le proposte del banchiere come spunto per riprendere un ragionamento collettivo sul mondo della formazione, da un punto di vista dei movimenti.

Utile in forma preliminare sottolineare come le esternazioni in questione non facciano altro che inserirsi in un filone discorsivo ormai ampiamente consolidato, a tratti estremizzandone i termini. Il “merito” è il baricentro attorno al quale ruotano le indicazioni fornite, e viene utilizzato da un lato come paravento per celare una sostanziale vuotezza delle proposte, e dall’altro come potenziale ariete per eventualmente proporre un ulteriore inasprimento delle misure contenute nel ddl Gelmini. Per completare il quadro va aggiunto che alcune settimane fa la ministra Fornero aveva esortato le famiglie italiane a non investire più nell’acquisto di case, bensì nella formazione dei propri figli. Possiamo, a partire da questo, sottolineare di sfuggita due elementi: l’organicità e la contiguità fra le proposte di ristrutturazione del mondo del lavoro con quello della formazione; l’univocità del modello sociale che hanno in mente i “tecnici”. Il loro immaginario condiviso, d’altro canto, è indissolubilmente legato alla matrice antropologica neoliberale dell’individualismo proprietario, che li conduce a riproporre come un disco rotto il modello dell’indebitamento per acquisire skill, chissà da indirizzare dove in un mercato del lavoro bloccato. Pare che la bolla pronta ad esplodere del debito studentesco statunitense non sia un monito sufficiente.

Tralasciando l’imbarazzo nel quale il Pd si è trovato a tentare di replicare al ministro, giocando in un campo che gli stessi democratici hanno ampiamente contribuito a mettere in forma; senza nemmeno sprecare parole per commentare le stucchevoli proposte sull’elezione del “secchione dell’anno”, che rimandano in forma tragicomica al cliché del bocconiano occhialuto primo della classe; cerchiamo di ampliare il ragionamento per tentare di cogliere alcuni nodi e punti interessanti per aprire un dibattito strutturante uno sguardo orientato ad una prospettiva di conflitto.

Cenni sulla meritocrazia

La politica, diceva Koselleck, è in primo luogo lotta per l’appropriazione dei concetti. Come spesso accade, questi nascono con un determinato segno che col passare del tempo viene trasfigurato. Succede per i movimenti, in grado di controcircuitare uno stigma etichettatorio in elemento di appartenenza e rivendicazione politica, ma succede anche nel mondo delle élite. Alla “meritocrazia” è esattamente toccata questa sorte. E’ risaputo che la parola venne coniata nel 1958 da Michael Young col suo romanzo “The Rise of Meritocracy 1870-2033”. Young era un sociologo ed attivista del partito laburista, e si confrontò con l’allora molto in voga filone della letteratura distopica. Il romanzo di cui stiamo parlando immagina, nel corso di un secolo e mezzo, l’affermarsi di un regime basato su un mondo dell’istruzione sottoposto ad una rigida selezione, basata sulla misurazione e classificazione dell’intelligenza e delle capacità sin dall’infanzia. Si afferma dunque una società estremamente gerarchica affidata ad una sorta di “aristocrazia dell’ingegno”. Le tensioni create dalla nuova e sempre più dura stratificazione sociale conducono, al termine del romanzo, ad una rivolta delle classi inferiori. Nel libro a tratti “profetico” dunque la meritocrazia è proposta come concetto intrinsecamente negativo. Non a caso, poco prima di morire, Young polemizzò con Tony Blair sostenendo che egli utilizzasse il suo lavoro in maniera impropria, trasfigurandolo, essendo “The Rise of Meritocracy” un testo esplicitamente contro la meritocrazia. D’altronde uno dei più alacri sostenitori della seconda fase della globalizzazione neoliberale, quel Blair che si è fatto promotore della congiunzione fra liberismo e socialdemocrazia, è indubbiamente uno degli esempi più eclatanti della subalternità culturale della sinistra all’ideologia liberale, da almeno trent’anni a questa parte. Diciamo questo perché crediamo non sia una forzatura ma vada anzi sottolineato il nesso fra liberalismo e meritocrazia. Si può infatti ricondurre a John Locke la sistematizzazione di un’ideologia meritocratica, nel suo sforzo atto a produrre una legittimazione della stratificazione sociale basata sul merito piuttosto che sulla nascita. Tuttavia se nel clima culturale a cavallo fra Sei e Settecento il “merito” era un’arma politica per la borghesia contro la società cetuale, oggi questo concetto non può che proporsi entro coordinate che lo legano ad una necessità di obbedienza e doverosità. Esso infatti implica e presuppone necessariamente un soggetto gerarchicamente superiore titolato a legittimare in maniera discrezionale la produzione singolare. Meritocrazia è oggi un concetto immediatamente posto nell’arena dello scontro sociale, un dispositivo di organizzazione del discorso, uno strumento di governance, una retorica demagogica che pone dei discrimini precisi e impone di scegliere una parte in cui stare. Per questo è necessario collocarsi in maniera chiara contro la meritocrazia.

Concludiamo questi appena abbozzati sguardi storico-teoretici accennando ad un altro percorso che aiuta a comprendere ed inquadrare la funzionalità sistemica del merito. Ci si riferisce all’atteggiamento teorico luhmanniano, uno dei pilastri delle teorie della governance. Attraverso il suo pensiero potremmo dire che scuole ed università, ridotte ed intese dal comando capitalistico come sottosistemi funzionali autopoietici, utilizzano il merito come strumento interno per produrre una regolazione funzionalmente gerarchizzante. E’ tuttavia bene aggiungere, a dispetto di quanto direbbe Luhmann, che in questo momento non si sta giocando una partita tesa all’esclusione dall’ambiente formativo, quanto un inasprimento delle logiche di inclusione differenziale. Come ci ricordano spesso i movimenti, indietro non si torna. Assumere la battaglia attuale attorno al nodo della formazione nei termini di una difesa dell’università di massa conquistata negli anni Sessanta significa giocare con le regole imposte dalla governance, ma su questo torneremo in seguito.

Ad ogni modo non è intenzione di questo testo proporre una genealogia concettuale della meritocrazia. Ci interessa maggiormente confrontarci con l’uso e la significazione che viene imposta nel dibattito politico odierno. E’ da alcuni anni che l’intero arco istituzionale ha individuato nella meritocrazia la panacea di tutti i mali e l’unica ricetta possibile per migliorare un sistema formativo che, al contempo, viene strategicamente dismesso e dequalificato, servito dai governi sul piatto della bilancia come una delle maggiori contropartite alle élite globali per negoziare la nuova posizione internazionale dell’Italia. Ovvero consentire a pochi di poter continuare ad accumulare rendite e profitti. Tuttavia è possibile sostenere che l’ideologia meritocratica si sia insinuata con forza nei meccanismi governamentali dell’università ormai da più di un decennio, a partire dall’introduzione del 3+2, ossia da quando l’idea della misurabilità del sapere e della sua consequenziale neutralità è divenuta strumento di organizzazione della produzione.

Perché tuttavia concentrarsi sul mondo della formazione, in un anno in cui sono stati assenti momenti molari di lotta?

Baricentralità della formazione

Per rispondere a questa domanda è bene fare un breve passo indietro per inquadrare la questione in termini più generali. La crisi dei nostri giorni rende sempre più complicata un’innovazione nello sviluppo sistemico. I diffusi apparati di cattura del capitale hanno difficoltà a sussumere ed integrare i movimenti prodotti dal lavoro vivo nella sua costitutiva dinamica di rifiuto. Come conseguenza il dominio è sempre più basato sulla svalorizzazione della merce capacità-umana. Questo processo non è ovviamente liscio né unidirezionale, trovando di continuo resistenze ed alterità irriducibili alla colonizzazione capitalistica dell’umano ed alla sua traduzione in merce. Da questa prospettiva è possibile leggere i movimenti che hanno agito nel mondo della formazione taylorizzata e direzionata verso l’uniformazione e l’indebitamento formativo. Se il Bologna Process aveva come mission, o meglio come promessa, quella di arricchire e ripotenziare quella che Alquati avrebbe definito capacità-umana-attiva-vivente, la traduzione italiana del piano europeo ha standardizzato il ciclo formativo nei tagli e nella dequalificazione. E’ venuta concretizzandosi un’omogeneizzazione formativa verso il basso, che prospetta lo scaricamento dei costi della formazione dalla spesa pubblica al singolo studente, indebitato con le banche. Questo lo scenario attuale dal punto di vista del polo formativo del dominio. Tuttavia la formazione è un campo di tensione che include un altro polo, quello del conflitto. Da un lato formazione come potenziamento delle capacità umane finalizzate ad un’applicazione per i processi di accumulazione capitalistica; dall’altro formazione come arricchimento soggettivo in una prospettiva liberogena. Da una parte il potenziamento selettivo di alcune unità capitalizzabili per il capitalista collettivo e la distruzione violenta di saperi, memorie, ricchezze, tecniche soggettive; dall’altra parte l’autonomia del sapere e del lavoro vivo, gli spazi ed i tempi endogeni di riproduzione di classe, la loro ricerca di potenza trasformativa. Dunque, sempre seguendo Alquati, la formazione sistemica è portatrice di un saldo negativo fra potenziamento ed impoverimento della capacità-attiva-umana-vivente, ma è proprio in questo scarto che la formazione si può contro-circuitare e contro-usare. E’ a questo livello che l’ambivalenza può essere agita soggettivamente configurando la formazione come ambiente di politicizzazione, come potenziale arricchimento delle capacità che nascono dalla lotta e dal rifiuto della distruzione di capacità. E’ dentro queste coordinate che si intuisce la strategicità dell’inchiesta militante nelle scuole e nelle università. E proprio a partire da questa è possibile affermare, utilizzando una metafora geologica, che la crisi ha profondamente scavato nei modelli antropologici proposti come figure egemoniche. L’idealtipo del consumatore indebitato, reso disponibile alla precarietà esistenziale e con un’identità sociale dai confini rigidi, è stato incrinato dalle lotte degli ultimi anni. Laddove l’università non è più vista come motore di ascesa sociale viene incrinata la figura tipica della soggettività pronta a capitalizzare le proprie energie, macchinizzarle e distruggere o svalutare le proprie capacità, in un processo di sostituzione agito in primo luogo da un segmento che è stato qualitativamente centrale per le lotte. Stiamo parlando di quelle e quei giovani “precari di seconda generazione”, ovvero i figli di genitori già compiutamente precarizzati, i quali iniziano a non avere più la famiglia come argine all’erosione delle possibilità di vita e come erogatore di welfare. La riforma Gelmini è stata, fra l’altro, un tentativo di ridefinizione del comando, che in tendenza ha sempre più difficoltà a mettere in forma, controllare e catturare il sapere vivo. Ha prodotto un’aziendalizzazione che in potenza disarticola la funzione dell’università come regolatore sociale, ma che più prosaicamente tenta di livellare il sistema formativo entro l’ormai definita policentricità e la long life learning. In questo scenario la composizione tecnica che attraversa l’istituzione formativa dai bordi sempre più sfrangiati ha accumulato e conquistato spazi, talvolta difficilmente visibili, di formazione autonoma che prefigurano a livello molecolare traiettorie di soggettivazione antagonista. Gli elementi di una soggettività disposta al conflitto che individua nelle università e nelle scuole uno strumento per la territorializzazione e la diffusione delle lotte si danno in nuce, in cerca tuttavia di forme efficaci di espressione che all’attuale non si sono ancora compiutamente manifestate. Questi elementi sono deducibili a partire da quella frattura antropologica cui si è fatto riferimento in precedenza, in particolare nel rifiuto sempre più diffuso a riprodursi come forza lavoro precaria disciplinata. Prima di addentrarci in alcuni cenni più specifici sui movimenti che, a partire da queste caratteristiche, sono riusciti a emergere negli ultimi anni, è importante inserire una considerazione sui saperi. In particolare di fronte ad un governo che dietro alla tecnicità si pone come emblema dell’ipostatizzazione sulla neutralità dei saperi. E’ centrale infatti non perdere le ricchezze che i movimenti hanno espresso come punto di vista. E questi ci dicono che il sapere è un campo di battaglia, che foucaultianamente il sapere è fatto per prendere posizione, è sempre situato. Proprio per questo bisogna anche rifuggire dai discorsi che pongono i saperi come bene comune. Queste retoriche devono essere attaccate perché di fatto ripropongono in maniera speculare il discorso sulla neutralità dei saperi, eludendo il fatto che il sapere è una merce, una delle più importanti per il mercato contemporaneo. Certo, come diceva Marx, una merce per nulla ovvia bensì imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e capricci teologici. Una merce che può essere fredda e depositarsi come sapere morto oppure calda, che attraversa i corpi e diviene strumento sovversivo, come la grande diffusione di saperi di parte in Val Susa mostra in forma esemplare. Va inoltre detto chiaramente: se l’università è in crisi lo è anche perché è il modello di produzione della merce sapere ad essere in crisi. La sua suddivisione in discipline, la sua parcellizzazione, sono uno dei maggiori vettori di crisi che vanno agiti.

Movimenti studenteschi e precari

Abbiamo già detto di come una progressiva e vertiginosa fase di precarizzazione abbia generato una composizione politica che negli ultimi anni è stata una delle punte più avanzate della conflittualità sociale. Dal No Moratti del 2005, passando per l’Onda del 2008 ed il sommovimento No Gelmini del 2010, possiamo affermare che i tentativi di applicazione del nuovo paradigma governamentale di produzione e riproduzione del sapere e di una forza-lavoro in formazione che progressivamente è sempre più stata messa direttamente al lavoro sono stati costantemente agiti dai movimenti come spazi di rifiuto, lotta e riappropriazione.

In tanti hanno parlato di ciclo di movimento riguardo alla mobilitazione contro la riforma Gelmini, ma crediamo sia più corretto affinare nuove figure temporali per leggere questi processi. In particolare proponiamo di guardare più che alle parabole, con picchi e graduali salite e discese, ai tratti di verticalità ed ai salti che si sono espressi in particolare nell’autunno 2010. Una “vocazione insurrezionale” che nei nostri territori abbiamo visto esplodere nel fuoco della conoscenza del 14 Dicembre, che ha in parte anticipato ed in parte si è inserita in quell’imperiosa accelerazione antagonista su scala planetaria del 2011, dalle insurrezioni arabe alle acampadas, da #Occupy al Cile e al Quebec di questi giorni.

E’ ormai assodato anche presso i sociologi mainstream come queste mobilitazioni abbiano avuto tratti comuni riguardo alla composizione: innescati dalla rabbia e dalla determinazione di un precariato cognitivo impoverito e senza futuro, in molti casi sono riusciti a generalizzarsi connettendosi con altri segmenti sociali di ceto medio in via di proletarizzazione, legando curve e forme di lotta e autorganizzazione attorno al tema dei “beni comuni”.

Tenendo l’ambito transnazionale, seppur decisivo, come sfondo, torniamo sull’Italia. Inutile negare che l’ideologia meritocratica ed i suoi risvolti popolustici e demagogici abbiamo informato anche i movimenti studenteschi e precari. Dentro le assemblee dell’Onda queste istanze erano vive e non a caso sono tornate a materializzarsi nel Popolo Viola ed in alcune istanze grilline. Una genealogia non lineare, sottoposta a continue tensioni e strappi, che difatti ha visto decisamente superate queste retoriche nell’autunno 2010. Tuttavia è necessario essere chiari. La composizione sociale alla quale guardare, quella disposta a mettersi in gioco, è attraversata tutt’ora da alcune istanze giustizialiste e meritocratiche. Tuttavia queste non si configurano come discorso organico, come strutturazione ideologica definita, ma sono più legate ad una assenza di prospettive conflittuale.

E’ dunque a questa composizione che bisogna guardare, tentando di curvare i termini del discorso in uno scenario che punti il mirino contro il sistema che produce corruzione, riappropriandosi del tema della lotta alla corruzione come hanno insegnato i movimenti arabi e declinandolo in un programma minimo che (ri)parta da quel “Que se vayan todos” che echeggiava nelle piazze argentine più di dieci anni or sono. Non regalare e relegare al risentimento ed alle illusioni del merito come via di fuga individuale, vuol dire anche rifiutare dentro i movimenti quelle posizioni, emerse a tratti nelle mobilitazioni dei lavoratori della conoscenza e dello spettacolo, che introiettano la logica del merito richiedendo alle istituzioni misure compensatorie di fronte a quella che viene vista come una ingiusta esclusione. Bisogna anche riappropriarsi di concetti quali giustizia ed eguaglianza.

Verso l’autunno che viene

Dopo un inverno piuttosto glaciale ed una primavera rigida per ciò che concerne il termometro dei movimenti, è bene guardare alle prossime stagioni di lotta iniziando ad ipotizzare alcuni luoghi dove orientare l’inchiesta ed il fare conricercante, partendo da alcune assunzioni che è possibile trarre con uno sguardo interno alle composizioni sociali che si sono espresse in termini conflittuali nelle ultime stagioni. Partiamo da questo secondo punto elencando tre elementi cardinali: la transnazionalità, il rapporto con la rappresentanza e la questione pubblico-privato.

Riguardo al primo dei termini le lotte degli ultimi due hanno hanno indicato inequivocabilmente che le soggettività studentesche sono portatrici di una capacità di apertura di spazi politici accoglienti ed in grado di condurre ad una generalizzazione delle istanze di lotta. Dalle università e dalle scuole tunisine ed egiziane, a quelle inglesi, fino ad arrivare al movimento statunitense, questa dinamica è stata patrimonio comune. Ciò detto è necessario considerare che la transnazionalità è innervata nella composizione sociale ma è al contempo una posta in palio, e dunque va costantemente praticata alla ricerca di pratiche distanti da ritualismi e riproposizioni spesso stantie di modelli che appartengono ad altre fasi di movimento. Uno dei fattori che probabilmente in Italia è mancato è l’apertura delle sedi del sindacato ai movimenti (elemento decisivo soprattutto in Tunisia e negli Usa), che tuttavia va immaginato su un terreno trainante da parte dei movimenti e non, come spesso è accaduto, di subalternità.

Sul secondo elemento: la crisi della rappresentanza e delle istituzioni liberali continua inesorabilmente ad approfondirsi. Il “non ci rappresenta nessuno” echeggiato nelle piazze è stato spesso un elemento assunto appieno dai soggetti in lotta: speriamo di non assistere nuovamente in futuro al porsi come cinghia di trasmissione e compatibilità di pezzi di composizione politica nella svendita del portato conflittuale, come purtroppo si è assistito con la stretta di mano a Napolitano post-14 Dicembre. Un chiaro posizionamento dentro e contro l’università deve essere in grado di coniugare le energie e le tensioni destituenti presenti nelle soggettività in lotta con un programma costituente che alluda, prefiguri e costruisca pratiche di formazione endogena e forme di istituzionalità autonoma come unico oltre possibile e realistico difronte alla miseria del presente. Ultimo nodo del ragionamento è quello attinente al rapporto fra pubblico e privato. Se nei momenti di bassa marea riemergono discorsi che da un lato si indignano contro l’invasione dei privati e dall’altro difendono il pubblico (ossia gli elementi di corporativismo e baronato, de facto riportando una logica meritocratica come unica exit strategy), uno dei punti più alti raggiunti dalle mobilitazioni è sicuramente stato quello di guardare a questi due piani come due facce della stessa medaglia. L’intreccio fra pubblico e privato è da molti anni ormai un terreno indissolubile per la riproduzione sistemica. La forma-impresa un contenitore che si applica a tutte le configurazioni sociali e l’imprenditorialità un dispositivo totalizzante, dalle organizzazioni sociali sino agli individui. Detto questo non bisogna nascondersi una ancora insufficiente capacità immaginativa ed operativa rispetto ai percorsi di costruzione di autonomia, di comune, il che non significa cercare improbabili scorciatoie che svicolino questo nodo, assolutamente strategico.

Torniamo ora, per concludere, ad alcune ipotesi sulla tendenza che è possibile proporre a partire dall’inchiesta che abbiamo sviluppato a Bologna durante quest’anno accademico. In prima battuta affermiamo che nella dismissione, nella dequalificazione e ristrutturazione della formazione, nei tagli al welfare, si aprono spazi importanti di lotta e vertenzialità autonoma da curvare verso i punti di rottura ed incompatibilità, creando soggettivazione e forme permanenti di organizzazione. Connesso a questo, senza cadere in letture deterministiche o sciocchi teleologismi, esiste un tessuto soggettivo in cerca di percorsi di partecipazione collettiva che vede nell’università un passaggio difficilmente eludibile anche di fronte ad una disoccupazione giovanile dilagante, seppur nelle crescenti difficoltà legate alla stratificazione generale rispetto al debito ed al tendenziale esaurimento del welfare familista, cui si è fatto riferimento in precedenza. Andranno verificati i comportamenti che i “precari di seconda generazione” metteranno in pratica al loro accesso in massa alle aule universitarie. Le spinte alla fuga ed alla migrazione (che coinvolge progressivamente pezzi sempre più consistenti di precariato giovanile, che non si limitano più alla “fuga dei cervelli”) possono essere inserite in una grammatica ed un progetto di secessione offensiva che dal rifiuto dei sacrifici e dell’austerità si allarghi ad una più generale lotta al debito.

In questo scenario uno dei punti da cui partire è dunque attaccare il merito partendo da una didattica sempre più vuota, contestando come fanno negli Stati Uniti i docenti neoliberali e, perché no, riprendendo il tema della valutazione reclamando il 30 garantito. Infine, verso l’autunno: le misure di Profumo possono essere un nuovo casus belli agito dai movimenti? E’ il momento di iniziare a scommetterci.

 

 

 

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