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Il 21 gennaio, il monte dei paschi e il suicidio

 

di IRMA LA DOLCE

Premessa

Sentite cosa scriveva nel 2011 l’avv. Mussari a proposito della crisi dei derivati e del possibile superamento: occorre, come forse si diceva in un passato che appare ai più remoto, cambiare questo modello di sviluppo su scala globale, occorre che la gente ritrovi molte cose, dalla propensione al risparmio al senso di una vita più sostenibile e più equa sino ad un maggior impegno nella produzione e nel lavoro…. occorre, in altri termini riconquistare una nuova forma di Razionalità, fatta di valori etici forti in un mondo enormemente più complesso, ma che sia in grado di recuperare gli individui soprattutto i più giovani tra noi, nel loro agire singolo e collettivo, ad una consapevolezza di fare parte di un genere e non solo di un’esistenza individuale che si consuma in uno spazio temporale in cui tutto è sempre qui ed ora, senza alcun futuro (Mussari, Monti, Micoli, gli strumenti della crisi: i derivati finanziari, pg. 20, e pensare che ora riferisce di non sapere nulla sui derivati, non che scriverci su un libro sia significativo di qualcosa…).

Molto più sincero un dirigente del partito conservatore britannico che, qualche mese prima, definva la city un “bene comune”.

*****

A proposito della crisi che sta investendo MPS, un dato, tra i mille che giungono dai mezzi informazione, balza agli occhi: nessuno che si chieda, seriamente perlomeno e senza indossare divise ed elmetti nelle due declinazioni, del liberalismo barbone e dello statalismo beneduciano, se la crisi sussista, quale natura riveli, con che esiti per i mercati ma soprattutto per le moltitudini.

L’argomento più “sensibile” sulla crisi che sta investendo MPS lo dava probabilmente la Stampa di lunedì 28 gennaio, laddove si descriveva il “monte” quale formidabile strumento di welfare.

Gli altri occhiali sono infatti inadatti a chiarire un dissesto finanziario contestabile da una performance positiva da inizio anno (+ 15,86%, perlomeno prima delle esternazioni di Berlusconi sulla restituzione dell’IMU e l’introduzione di un condono “tombale”).

Le banche italiane (gli indici di bilancio sono assai simili per tutte le aziende di credito nostrane) non soffrono alcun complesso di inferiorità rispetto alle sorelle europee o statunitensi, non registrano difficoltà nell’operare all’interno dei mercati globalizzati (e la complessa vicenda Prelios -che banca non è- ne dà conto), sono unicamente più “banche” (nel senso che tenterò di precisare di seguito).

Il sistema bancario italiano è ancorato all’idea di impresa dedita alla raccolta del credito. In questo senso, il denaro è ancora “reale”, come reale è il denaro depositato presso gli sportelli e quello erogato alle imprese.

L’attività creditizia, in senso proprio, sconta un difetto fondamentale per il capitalismo finanziario completamente autonomizzato e virtuale (nei gesti, non nelle sofferenze che impone), non riesce ad affrancarsi dal concreto spiegarsi degli eventi.

A ben vedere l’origine dell’attività bancaria “tradizionale” che nelle funzioni è da rinvenirsi nelle codificazioni di commercio, nell’assetto attuale nasce con in grembo la prole finanziaria che l’ucciderà. Tutto procede dal processo di despecializzazione delle banche che prende il via con la l. 218/90 di riforma della banca pubblica, prosegue con la L. 175/91 che ha dato sistemazione alla materia del credito fondiario (ed edilizio e alle opere pubbliche) e culmina nel D.Lgs. 481/92 di attuazione della II direttiva bancaria di coordinamento bancario [con la precisazione che la banca despecializzata (cumulo di attività creditizia, recessiva, e finanziaria, strabordante) ha gli stessi natali dell’uomo impresa indebitata)].

Il problema che affligge l’impresa banca tradizionale è lo stesso di ogni imprenditore che, ad esempio tratta con lo stato o con un collega, in tale caso riceve in controprestazione “farlocco” ma, quando va dal panettiere deve pagare moneta sonante (la moneta che circola nelle borse, nei fondi pensione, nelle banche, che appare nei bilanci delle imprese non è affatto la stessa moneta che abbiamo in tasca o che riceviamo in salario….la moneta va concepita quale appropriazione capitalistica della virtualità, come potere sui possibili, l’economia contemporanea come pare sempre più chiaro è un’economia dei possibili, Lazzarato, il governo delle disuguaglianze, pg. 37).

La banca tradizionale non è poi così differente dall’uomo impresa indebitato; opera faticosamente per raccattare qualche euro a pensionati e vedove da rimettere in circolo a sostegno della cd economia reale, che si regge, non dimentichiamolo, soltanto sulle banche (e questo vale tanto per la FIAT quanto per il verduraio di Cornaredo).

Anche i trucchi agiti dalla banca tradizionale sono patetici: occorre tenere a bilancio un credito “marcio” al valore nominale ma se ne vuole comunque disporre in base al “reale” valore? si tratterà di divaricare le tempistiche degli eventi, non importa se lo si fa attraverso un usufrutto, un cds, una leggina; è dal 2000, perlomeno, che gli imprenditori (anche il pizzicagnolo di Trani, l’oste di Premosello) fingono di vendere ad un certo prezzo -ritenuto difendibile da istanze di creditori, fisco e curatori- e contestualmente pongono in essere una serie di negozi che -formalmente fermo il prezzo- sostanzialmente ne consentono l’adeguamento (alla realtà, ovvero ai bisogni del momento) in barba a società di revisione e, quanto più conta, creditori.

Suona offensiva l’enfasi che pone oggi il sole sul fatto che nell’affare MPS al mercato appare che Jp Morgan è un socio non solo formale ma anche sostanziale… peccato che non è così: Jp Morgan rimane socio soltanto formale perché entra con un prestito -con contratto di usufrutto e swap- che lo sgravano dai rischi che derivano invece dall’essere socio effettivo.

Ma il giornale di confindustria (rigorosamente minuscola) non sa che ogni suo iscritto, fa lo stesso quando chiede un fido alla banca e porta la fideiussione della donna vantandone inesistenti ricchezze? (come noto, tutte le nonne degli imprenditori di Brescia sono miliardarie).

Ma allora cosa è la banca tradizionale?

Appunto, un formidabile strumento di welfare (a sostegno dell’impresa).

Le banche esistono e sono così gestite (e non si potrebbe, forse, fare altrimenti) per fare esistere l’industria (quella pesante cara ai lama-camusso di tutte le epoche, quella leggera e “liquida” che vive nei sogni della CGIA di Mestre).

Se si leggessero i bilanci delle imprese con la lente severa con cui si affonda oggi (non ieri, magari non domani) la lama nel ventre molle del sistema bancario, ogni impresa dovrebbe portare i libri in tribunale, e il primo creditore ammesso sarebbe proprio la banca tradizionale.

La privatizzazione del sistema bancario, che procede timida nei tardi 80 e si spiega nel decennio successivo, volge sì all’incipiente finanziarizzazione ma evidenzia un carattere peculiare: mascherare la fine della produzione industriale, fungendo da enorme cassa integrazione per imprenditori decotti.

I vantaggi sono evidenti: -) le imprese sono tenute in piedi dai risparmi degli italiani (un po’ come i giovani precari attraverso il welfare familiare); -) si perpetua il mito di Stakanov e di Taylor ma in chiave securitizzata.

Non è un caso che le prime cartolarizzazioni fossero “vere”: si cedeva, acquistava, lottava per rimbosare gli obbligazionisti (in consonanza con il vecchio credito fondiario), poi i termini e i tempi si dilatarono e le operazioni (sempre sugli stessi crediti, magari ora inesistenti) si susseguirono vorticose agendo sul nulla.

La banca tradizionale non ripudia Frank Capra, solo ora che aiuta Mr Potter, non George Bailey.

Ma quello che più conta (e meno risalta dai commenti) è che l’impresa che dissangua la banca non esiste, risplende però nel cielo del capitale finanziario a) come giustificazione; b) come veicolo fantasmatico per valorizzare (sempre a favore del capitale finanziario) affetti, cooperazione, ricordi, territorio.

Mi spiego:

-) se esiste l’industria, esistono i fornitori e i consumatori, esistono i committenti e i lavoratori, esiste la TAV per trasportare merci inesistenti in paesi con i nomi che ricordano più le operette che gli atlanti geografici (Macedonia, Azerbaijan, principato di Seborga, paese dei campanelli);

-) se esiste la produzione, il lavoro immateriale della moltitudine precaria viene direttamente ricondotto all’esistente, recintato, deviato, privatizzato;

-) se esiste la fabbrica esiste l’operaio, la tuta blu diventa sogno di uguaglianza (mortifera; a Taranto la farsa dell’industrializzazione democristiana si ripete in tragedia tecnico-montiana);

Concludendo: se esiste l’impresa rivive Menennio Agrippa e ancora una volta i Gracchi resteranno gioielli di mamma e nulla di più.

[E poi non dimentichiamo: MPS offre lavoro a una moltitudine di persone altrimenti “a spasso”, sponsorizza basket e calcio, aiuta le vecchiette ad attraversare: chi altro sa fare tanto? Marchionne? Cordero di Montezemolo? pessimo barolo pessimo imprenditore].

Il paradosso è che l’impresa che non esiste è il paradigma che informa la vita di ogni essere umano (troppo umano?).

L’impresa è uno schema vuoto che riempie l’esistenza del precario indebitato.

La cattura della vita attraverso il lavoro precario procede dal debito, debito che si assume, si badi, attraverso l’evocazione del proprio credito. Solo chi ha credito può vivere a debito.

Ma anche il credito è sogno come la vita di Calderon.

Il credito si pone quale spartiacque tra la vita e la morte del precario: si affanna in mille attività, creative, manuali, stages, tirocini, concorsi, predispone curricula, si affila, abbellisce, maschera per potere accedere al credito.

Il credito non esiste, si crea e anche il precario si crea.

Di qui l’impresisazione del precario perché solo uno strumento volto alla creazione di valore e quindi alla misurazione può avere e concedere credito, ma anche una grande contraddizione in capo al capitale finanziario. Il precario crea la propria vita commisurandola all’impresa ma non ci “riesce”, ogni atto, appunto perché precario e soggettivo, trascende l’impresa. La forma impresa non può contenere la vita precaria che dilaga, tracima dentro e contro il capitale, dentro e contro la finanza.

E’ l’inadeguatezza la forza precaria.

Ma l’impresa è, come detto simulacro, non contiene alcun elemento che non sia il precario indebitato che la realizza.

Dall’altra parte la finanza che è mero scambio di informazioni, creazione di moneta dal nulla è l’unico artificioso parametro

La finanza è il mandante dell’omicidio della banca tradizionale (la banca è attuale quanto le ciminiere di Taranto e Cornigliano).

Anche la corsa della politica alle poltrone nei consigli di amministrazione delle banche è cosa vecchia, sa tanto di anni 80, di Milano da bere, come Gualtiero Marchesi (e poi un minimo di preparazione occorreva poi averla, non è affare per batman).

La politica si abbevera ormai direttamente alla fonte.

Si realizza il capolavoro della finanza-mafiosa, alla EXPO’ per intenderci.

Si attinge da un lato allo stato [dribblando il credit crunch di banche ingessate da erogazioni a imprese decotte (e lo sono tutte, si ribadisce)], dall’altro alla vita sbranata.

Il capitale sempre cannibale mangia se stesso e vomita precari indebitati e deprivati della loro esistenza.

Il suicidio precario è oggi come l’eroina nei settanta.

Se la vita è messa a valore, diretta immediatamente all’espropriazione, la morte è una buona soluzione.

Cessa il flusso di produzione di vita a favore del capitale.

E’ l’estremo attualizzato del sabotaggio.

Anche questo passo però non risolve il problema (se non per i coraggiosi che lo fanno).

Se è mortifero guardare all’indietro come la CGIL e rivendicare un futuro tutto lavoro e tumore, uscire dall’impresa con la cancellazione dal “registro” dei viventi è ingeneroso verso se stessi.

Forse sarebbe il caso, proseguendo nel parallelo, di superare il “registro” dell’uomo-impresa-indebitata.

Si tratterebbe di spingere a fondo il riconoscimento dell’uomo in impresa incommensurabile, tale da rendere insopportabile per il capitale la creazione di comune da parte della singolarità, esautorando ogni tentativo di valorizzazione della produzione.

Se, secondo i neoliberisti le differenze di reddito, di status, di formazione avrebbero il potere di trasformare il comportamento passivo del consumatore delle indennizzazioni in un comportamento attivo di imprenditore in partecipazione per la produzione del proprio capitale. Se esse farebbero di questo individuo un produttore, un imprenditore che accetta il gioco concorrenziale con gli altri e si adopera ad ottimizzare i suoi investimenti…. Allora, la capitalizzazione è (…) una delle tecniche che devono contribuire a trasformare il lavoro in capitale umano, che deve assicurare esso stesso la formazione la crescita l’accumulazione e il miglioramento di sé come capitale, attraverso la gestione delle sue relazione le sue scelte, le sue condotte…. la capitalizzazione deve contribuire a fare di lui una sorta di impresa permanente e multipla, ciò che si chiede agli individui non è di assicurare la produttività del lavoro, ma la redditività di un capitale (del proprio capitale, inseparabile dalla propria persona) (Lazzarato, op. cit. pg. 33).

Il processo di impresisazione implica quindi la capitalizzazione del soggetto.

Il termine capitalizzazione richiama quindi, l’edificazione (come quella del socialismo) di un impresa umana, ma non solo, riferisce anche e soprattutto la richiesta (moltitudinaria) di aumento del proprio (delle singolarità) capitale (“sociale”) tale da consentire la sopravvivenza e l’implementazione dell’uomo impresa ma anche la sua irriducibilità alla legge del valore.

Non è un caso che: -) le imprese italiane (anche le banche) sono spesso criticate per la loro scarsa capitalizzazione; -) quando una società è in perdita, si impone per legge la ri-capitalizzazione; -) una buona capitalizzazione consente un più agevole accesso al credito.

Lo stesso può dirsi per il precario-impresa-indebitata che. assicurando la redditività del proprio capitale (umano), si “capitalizza” diventa impresa virtuosa (strumentale al procedere dell’accumulazione) al contempo socializzandosi.

Capitalizzarsi significa modulare le proprie scelte, relazioni, condotte (la vita, insomma) al modello di impresa (proprietaria) così accessibile al capitale.

Attraverso il riconoscimento reciproco di impresa si rivitalizza il principio di concorrenza e attraverso questo il senso di proprietà del “proprio” capitale [per inciso, porre la concorrenza quale principio organizzativo del capitale in vece dello scambio pone una lapide sul diritto (civile, che fondava sull’esistenza del sinallagma il corretto formarsi della volontà dei privati, socialista che contrastava il diritto borghese quale mero scambio tra possessori di merci)].

Occorre, forse, procedere dal riconoscersi reciproco di imprese da parte delle singolarità, attraverso il rifiuto della concorrenza (come l’operaio rifiutò il lavoro) e il dispiegarsi del comune prodotto dalle stesse singolarità nel processo di capitalizzazione di sé stesse.

Due sono le istanze “comuni” (proprio perché non di oggetti/beni come tali MAI comuni e comunque facilmente espropriabili dallo stato o dal padrone, per utilizzare un gergo demodè) una rendita incondizionata garantita e il diritto all’accesso al credito indipendentemente dal merito creditizio (che nel precario è in re ipsa, come dicono quelli che hanno studiato, perché il precario produce vita a mezzo di vita -di merda).

Ciò non è possibile nei ristretti confini nazionali, ma se appare più credibile nei riguardi dell’Europa (che può almeno battere moneta a babbo), è tanto più possibile quale rivendicazione da muovere alla finanza globale, che sola può “consentire” tale approdo.

E qui torniamo alla partenza del discorso.

Ma alle moltitudini (ben più interessate a ritirare l’orologio al banco dei pegni) cosa importa del Monte (dei Paschi)?

Nulla, se si pensa alla sorte del terzo gruppo bancario italiano e dei suoi dirigenti.

Tutto se si pensa a quanta vita è stata “bruciata” dai soloni della “finanza rossa” [questo per il caso, patetico, di MPS, ma potrebbe dirsi altrettanto della vecchia banca padana, del bianco Banco Ambrosiano (le cui sorti ritornano anche nell’affare MPS)….].

E non si dica che le fluttuazioni di borsa bruciano milioni di capitale; attraverso i ribassi si espropria la vita delle singolarità, elidendo la “capitalizzazione” della minima impresa-precaria.

Veniamo poi al secondo tema, ad investire cioè con i movimenti, la questione della moneta. A tutti è chiaro che, se la moneta è mezzo di conto e di scambio difficilmente eliminabile, gli va tuttavia tolta la possibilità di essere strumento di strutturazione della divisione sociale del lavoro e di accumulazione del potere padronale contro i produttori. Alla Banca centrale va contestata l’indipendenza – la Banca va assoggettata alle necessità della “produzione dell’uomo per l’uomo” e sotto posta ad un disegno strategico di riconfigurazione comune degli assetti sociali biopolitici. Il problema non è tanto quello di separare le “banche di deposito” da quelle “di investimento”, quanto quello di dirigere risparmio ed investimento verso equilibri che garantiscano la produzione dell’uomo per l’uomo. Questa è battaglia politica che i movimenti più maturi hanno già ingaggiato. Essa consiste – questa volta senza resipiscenze ideologiche e senza indugi – nel contestare e sabotare la governance monetaria del biopotere, cioè nell’introdurre, ad ogni occasione possibile, claims e rotture dal basso. Bisogna cominciare a chiedersi che cosa sia una “moneta del comune” e sviluppare l’ipotesi che essa debba garantire riproduzione e la quantità di reddito necessario per ogni cittadino ed il sostegno alle forme di cooperazione che costituiscono la moltitudine produttiva (Toni Negri Dalla fine delle sinistre nazionali ai movimenti sovversivi per l’Europa).

Allora occorre che il precario-impresa-indebitata imponga “rotture dal basso” avviando l’individuazione di istanze comuni (per il comune degli uomini) dal proprio essere tale, rifiutando una capitalizzazione di sé stesso coattiva e diretta dalla governance monetaria del biopotere.

E questo orizzonte sembra meno lontano se si pensa al 21 gennaio di tanti anni fa.

Ecco il X dei punti su cui si formò il PCdI: per effetto di questa trasformazione economica e delle conseguenti trasformazioni di tutte le attività della vita sociale, eliminandosi la divisione della società in classi andrà anche eliminandosi la necessità dello Stato politico, il cui ingranaggio si ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione delle attività umane (ripeto attività umane con buona pace delle contorsioni neo costituzionaliste sui “beni” comuni, già risibili in un diritto dello scambio, neppure immaginabili nello schema concorrenziale).

[ma anche cfr. le tesi VII e X in crisi dell’economia globale, nulla sarà come prima: dieci tesi sull’economia globale, pg. 209 ss, a cura di Fumagalli e Mezzadra).

Mescolare pop e politica, mi chiede a cosa serve
Io gli offro imbarazzo e le mie solite scuse
Mentre sto guardando giù nel corridoio,
Fuori, dove mi sta aspettando il furgone
Sto cercando il Grande Balzo in Avanti
Si organizzano pésche di beneficienza, sono stati imbucati opuscoli
Anche dopo l’ora di chiusura ci sono ancora riunioni da ospitare
Puoi fare attività assieme agli attivisti
Oppure dormire assieme a chi dorme
Mentre stai aspettando il Grande Balzo in Avanti
Un balzo in avanti, due balzi all’indietro,
Per la politica mi liquideranno?
Ecco che arriva il futuro e tu non puoi sfuggirgli,
Se hai una lista nera, io ci voglio essere dentro
È una terribile e lunga discesa giù per il rock ‘n roll
Da Tops of the Pops al sussidio di disoccupazione
E se nessuno qui lo capisce,
Fatevi da voi la vostra rivoluzione e senza intermediari
In un mondo perfetto tutti dovremmo cantare intonati
Ma questa è la realtà, e allora datemi un po’ di spazio
E allora lotta con noi finché puoi
La Rivoluzione dista solo una t-shirt
Aspettando il Grande Balzo in Avanti

(Billy Bragg, the great leap forward)

 

 

 

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