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Movimenti per procura. Napoli arancione: dai beni comuni alla “rivoluzione civile”

Posted By Anna On January 12, 2013 @ 10:42 am In Articoli,Italiano | Comments Disabled

di GISO AMENDOLA e FRANCESCO FESTA

Le carte sono ormai scoperte e il tavolo deborda di pezzi forti. Le imminenti elezioni sono un “fatto sociale totale” per cui le posizioni vanno spese. Da un John Belushi d’essai, di Animal House, “When the going gets tough, the toughs get going!”

Tuttavia, sono un fatto durante il quale si rende palpabile una tendenza divenuta ormai tipica della classe politica italiana, una tendenza in crescita proporzionalmente all’acuirsi della crisi delle forme della Politica. Qualche riflessione si impone, dunque. Anche perché il fenomeno va persuadendo ormai da qualche anno, direttamente o meno, la mission di quel che resta dei partiti della “sinistra radicale”, ma anche di alcuni pezzi di movimento, o almeno di alcune compagne e compagni: con un certo difetto di strabismo, essi intravedono nel campo della magistratura tanto la cifra del loro impegno quanto la via d’uscita giudiziaria e populistica dalla crisi delle forme istituzionali.

I nomi la cui candidatura si ipotizzava da un po’ di settimane sono stati confermati a buon gioco dell’arena elettorale, quella in cui la strana dimensione che è l’“opinione pubblica” sarà immersa in un immenso battage pubblicitario. Il giudice Ingroia, con un simbolo e un nome men che meno rivoluzionari, cavalca il cavallo di battaglia di un suo prodromo, nonché “collega” Luigi De Magistris. Del resto l’ha fortemente voluto a capo della formazione arancione, con l’auspicio di ripercorrere i suoi fasti. Al grido alquanto populistico più che rivoluzionario di “scassamm’”, De Magistris ha tentato la scalata a sindaco di Napoli, affiancato dal partito di Di Pietro e da un movimento colorato di arancione, come dire, poco meno che rosso. Come non pensare a quel passo de L’anti-Edipo, in cui Deleuze e Guattari, nel mostrare le contraddizioni tra pratiche culturali e formazioni politiche, dislocando e spezzando le catene affettive esistenti per costruire una “comunità affettiva”, sottolineano provocatoriamente quanto “Hitler face[sse] arrapare i fascisti. Le bandiere, le nazioni, gli eserciti, le banche fanno arrapare parecchia gente. Una macchina rivoluzionaria non è nulla se non ha una potenza nel produrre discontinuità e mobilitare flussi [d’affetto] almeno pari a quello delle macchine coercitive.”[1]

Effettivamente, De Magistris scassò gli assetti sia del centrodestra, sia del centrosinistra, presentandosi come outsider, figura neutrale e indipendente, poiché proveniente dalla magistratura e, quindi, sopra le parti, senza peccato e ricolmo di verità. Il centrosinistra presentava anch’esso un uomo delle istituzioni a carattere securitario, un ex Prefetto di Napoli, tanto per restare in tema; nonostante ciò, gli scandali delle primarie e i retaggi del bassolinismo giocarono un brutto scherzo. Vale la pena ricordare che all’ancora giustizialista si aggrappò anche Sinistra e Libertà presentando alle primarie napoletane l’ex magistrato Libero Mancuso. Il centrodestra, da par suo, offriva il volto dell’imprenditoria locale, con tanto di fallimenti e pessime gestioni imprenditoriali, facendosi forte anche del sostegno classico della destra cittadina, con alcuni esponenti della criminalità locale e vecchi e nuovi volti neofascisti.

La partita venne vinta da De Magistris, con una coalizione di volti nuovi che preoccupò non poco l’“opinione pubblica”. Oltremodo preoccupava la larga presenza di esponenti di movimento, che raccoglieva l’onda lunga del referendum in difesa dell’acqua pubblica, delle lotte contro la privatizzazione dei beni comuni, delle mobilitazioni contro le discariche e gli inceneritori. D’altro canto, per parte delle soggettività di movimento che lo sostennero, l’agenda arancione era densa di impegni o “promesse” (ricostituzione di un’azienda municipale per la gestione delle risorse idriche; piano alternativo di raccolta dei rifiuti da estendere nel primo anno ai diversi quartieri; definizione di un piano per il lavoro, assunto in incontri pubblici con le liste dei movimenti dei disoccupati; rientro del credito nei confronti delle cooperative e degli operatori sociali del terzo settore pubblico).

Quanto andiamo osservando sull’amministrazione di De Magistris, a metà del suo mandato, proietta lo sguardo sul campo di forze che si va configurando a livello nazionale proprio sull’esempio del caso napoletano. E proprio da qui, occorre muovere l’analisi per diverse ragioni: anzitutto per complicare il piano del discorso di compagne e compagni che in queste ore vanno maturando posizioni di scelta elettorale quasi inevitabile, come se volessero, mutatis mutandis, riprodurre il sostegno al nuovo fuoriclasse arancione; poi, perché analizzare quanto verificatosi nel cosiddetto “laboratorio Napoli” ci consente di sciogliere alcuni equivoci che si presentano sullo sfondo; e, infine, per decostruire o almeno per dare il giusto peso a concetti che in queste settimane vanno circolando ad uso e consumo di quella strana costruzione qual è l’“opinione pubblica”.

Non è più un’eccezione, la rappresentanza nelle forme di una personalizzazione estrema dei candidati politici, ossia la concentrazione di interessi in un protagonista indiscusso, indipendente e neutrale, sulla cui base pare reggersi un surplus di desideri rimossi, anzi, è la regola della classe politica. Non si sottraggono, però, le varie formazioni della sinistra, tantomeno alcune di movimento. Una tendenza inaugurata, forse, proprio da De Magistris, che proiettando su di sé tutto l’appeal di rivoluzionario postmoderno ha costruito il suo personaggio e così la sua campagna elettorale. Eppure tale tendenza, assai pericolosa, va sottoposta a critica in maniera singolare, se non complessiva, decostruendo la metafora della figura idealtipica, fondata sulla dialettica tra il grado di successo in campo sociale, giuridico, politico, culturale ed economico e la notorietà in campo elettorale. Parallelamente proprio in tema di rappresentanza, Gramsci si domandava quali dovessero essere i termini della scelta:

“Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca?”[2]

Torniamo ancora un attimo alla vicenda De Magistris. La luna di miele finì presto. Già dopo quattro mesi, sono tornati i presidi a oltranza dinanzi al palazzo municipale. Avvicendati o sovrapposti, fasce diverse di subalterni, precari e “poveri” hanno riproposto una pratica di riappropriazione dello spazio pubblico e allo stesso tempo di partecipazione diretta tipicamente napoletane, il che è anche la cifra del rivoluzionario “abbiamo scassato”, reversibilmente interpretabile con il gattopardesco, “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.”

Ne sanno qualcosa i disoccupati, gli occupanti di immobili pubblici in dismissione, gli operatori del terzo settore e i migranti autorganizzati, qual è stata la partecipazione con cui si sono cimentati. Dal solito campo giustizialista, viene richiamato il magistrato Narducci a ricoprire l’Assessorato alla sicurezza, ideale per soddisfare l’ansia populistica della benedetta “opinione pubblica”, espressione di quella borghesia-proprietaria; per deficit di compenso, vengono reclutati volti noti ai movimenti metropolitani e nazionali per dare consistenza istituzionale alle idee di democrazia e partecipazione, quali surrogati delle mobilitazioni sui commons. Come se non bastasse, nel luglio 2012, viene assoldato anche l’ex Prefetto e vicecapo della Polizia, nonché senatore UDC, Achille Serra: voluto decisamente da De Magistris, viene nominato responsabile dell’Autorità garante anticorruzione e trasparenza per “rafforzare l’attività interna dell’amministrazione e verificare i luoghi dove si può annidare il malaffare prevenendolo.”[3]

Che i servizi pubblici e i beni comuni possano trovare nei dispositivi istituzionali dei possibili alleati è un principio che, nell’immanenza delle pratiche di governamentalità, diventa soltanto una prospettiva ideale. Così come immaginarvi un ponte d’amorosi intenti tra movimenti e istituzioni pubblico-private resta fumo negli occhi emesso da chi, per interessi precipui, ne promette una possibile collaborazione.

Il campo delle istituzioni pubbliche e, in generale, della “legalità costituzionale”, con buona pace dell’incensatore Benigni, non è affatto costellato di misure di equità, partecipazione e giustizia. Beninteso, sono terreni mobili, con modificazioni continue, fratture e tentativi di ricomposizione, dove i termini neoliberali sono valvole di chiusura e di apertura della partecipazione a seconda degli interessi privati. In altri termini: le istituzioni pubbliche vengono continuamente striate da dispositivi economici e giuridici, che si muovono secondo assetti privatistici, da cui il pubblico vi è totalmente espunto; altrimenti che senso avrebbero dispositivi come “pareggio di bilancio”, “fiscal compact”, “spending review” che dettano gerarchicamente le modalità di governance ad ogni livello del pubblico (dalla Costituzione ai comuni e alle regioni, dagli ospedali all’università)?

Il nostro non è un parlare ex cathedra. Care compagne e cari compagni, queste osservazioni sono dedotte da quanto fatto dall’amministrazione arancione in un anno e mezzo dal suo insediamento. Il modello arancione, oggi, viene considerato un esempio da estendere a livello nazionale e da consolidare nelle elezioni politiche. Quanto veniamo dicendo può essere enucleato in due esempi. La gestione dell’affaire Romeo Gestione Spa e la delibera sul bene comune riconosciuto all’ex Asilo Filangieri, “coerente con una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 43” della Costituzione del ‘48. Nel primo caso: seppur inquisita per inefficienza amministrativa, la Romeo Gestione Spa ha gestito la vendita del patrimonio immobiliare fino a qualche mese fa; revocato l’incarico, l’amministrazione é ancora in trattativa con la società a capitale finanziario per la gestione e riqualificazione della zona portuale e turistica e se pezzi della sinistra sono contrari resta il fatto che il comune ha bisogno di quei soldi; se la cosa andrà in porto una parte importante della città vedrà l’interesse di una società che proprio in quel pezzo di territorio è già proprietaria di un lussuoso albergo. Il secondo esempio è quello relativo alla delibera che riconosce l’ex Asilo Filangieri come Bene comune affidandone la gestione ad una comunità di lavoratori dell’immateriale che ne vivono i locali da nove mesi, facendolo diventare un luogo di produzione e sperimentazione di pratiche di co-working artistiche e culturali e sottraendolo al rischio di farlo diventare il simbolo dell’ennesimo fallimento clientelare della politica (il Forum delle Culture 2013); in effetti la delibera dell’amministrazione riconosce lo spazio dell’ex Asilo Filangieri come Bene Comune, ma con ampi margini di contraddittorietà (scrive la comunità di lavoratori dell’immateriale: “in realtà [la delibera] nega un agire comune e vincola l’uso dello spazio ad un rapporto di richiesta e concessione, confermando una retorica dei Beni Comuni priva di legittimità sociale”), mentre il patrimonio, ovvero la nuda proprietà, è sottoposta al regime dell’Assessorato al patrimonio, per l’appunto, che ne reclama l’amministrazione con intimazioni di sgomberi e denunce da parte del Comune stesso. Qui è evidente la contraddizione tra l’idealità di intenti e la gestione governamentale sulla soglia pubblico-privata. Ed è evidente, come i fatti di questi giorni raccontano, tra apposizioni di sigilli e mobilitazioni ampie e partecipate in difesa di quello spazio e di quell’esperimento, che queste pratiche di riappropriazione da parte dei lavoratori dell’immateriale non possono contare su nessun produttivo intrecciarsi tra logiche dell’istituzione e logiche dell’organizzazione autonoma. Solo l’espansione e la connessione con il precariato diffuso nella metropoli, con i “poveri”, rende forti e difendibili queste esperienze, che invece proprio la logica della “concessione”, l’unica logica che le amministrazioni, al di là anche delle intenzioni personali di chi le incarna, vogliono e possono praticare, tende a rinchiudere nell’angusto spazio di luoghi magari “alternativi”, ma in sostanza complementari, delle “politiche culturali”. Gli “arancioni” hanno sempre retoricamente mostrato appoggio e partecipazione alle iniziative di occupazione e riappropriazione di spazi da parte dei collettivi degli operatori della cultura, dello spettacolo, e dell’immateriale: ma sempre a patto che si trattenessero nei confini della rappresentazione di una virtuosa “alterità” culturale. Se lo spazio, o il collettivo, o il soviet dell’immateriale, rischia di apparire, anche solo potenzialmente, come un dispositivo di ricomposizione del lavoro vivo della metropoli, se rischia di fuoriuscire, anche magari solo per forza simbolica, dai giochi delle politiche culturali e di connettersi alle lotte del precariato sul reddito e sul welfare, sulla casa e sui servizi, allora l’arancione diventa improvvisamente freddo e riappare, piena, la vocazione regolamentatrice e normalizzante che abita il cuore legalitario del suo civismo.

Tentiamo di rileggere questa matassa di discorsi e pratiche tramite alcune riflessioni redatte da Gramsci in tempi non troppo lontani, nel tentativo di confutare il mito fondativo dei magistrati quali intellettuali e attori del pubblico, indipendenti e autonomi dalle forze e dalle strutture sociali. In una nota su come distinguere gli intellettuali dagli altri membri della società, Gramsci commenta:

“L’errore metodico più diffuso mi pare quello di aver cercato questo criterio di distinzione nell’intrinseco delle attività intellettuali e non invece nell’insieme del sistema di rapporti in cui le attività intellettuali e quindi i gruppi che le impersonano vengono a trovarsi nel complesso generale dei rapporti sociali.”[4]

A questa ampia prospettiva vi ricorre per dimostrare che gli intellettuali occupano di fatto una posizione funzionale rispetto ai gruppi o alle classi sociali fondamentali e, all’oggi, ai fattori ansiogeni del campo di forze sociali. Chi si ostina a difenderne l’autonomia, la neutralità corroborata dal fatto che esisterebbero disfunzioni del corretto funzionamento dei meccanismi di governo oppure della forma stato, per cui occorre individuare figure super partes, non considera come un dato immanente, e men che meno come processo in nuce, la radicale crisi delle forme istituzionali. D’altra parte, la funzione dell’intellettuale gramsciano è principalmente organizzativa e connettiva: non solo fornire “omogeneità e consapevolezza della propria funzione” in campo economico, sociale e politico, ma contribuire anche a costruire l’egemonia nella “società civile” esercitando una “direzione morale e intellettuale” sui gruppi subordinati, rappresentando tra l’altro gli interessi e le tensioni ansiogene, come interessi universali di ognuno e monopolizzando le conoscenze tecniche necessarie per la produzione e la riproduzione permanente della “società politica”.

Non a caso adoperiamo la categoria di “società civile” siccome viene abusata nel lessico arancione. Con Gramsci, la “società civile” è quell’insieme di relazioni private, sottoposte quindi al comando privato, e dispiegate nell’azione sociale ed economica. Con tale definizione dunque vi si esprimono anzitutto gli interessi economico-sociali. E non è un terreno neutro o liscio, ma saldamente striato dalle relazioni private. Differentemente la “società politica” è il campo di azione dello Stato, in cui le relazioni sono incentrate sul comando giuridico. Tra la “società civile” e la “società politica”, il punto di contatto è l’“opinione pubblica”:

“Il diritto è l’aspetto repressivo e negativo di tutta l’attività positiva di incivilimento svolta dallo Stato. Nella concezione del diritto dovrebbero essere incorporate anche le attività premiatrici di individui, di gruppi ecc. Si premia l’attività lodevole e meritoria, come si punisce l’attività criminale (e si punisce in modi originali, facendo intervenire l’opinione pubblica, come sanzionatrice).”[5]

Se l’“opinione pubblica” funge da “sanzionatrice”, sarebbe il caso di ritornare un attimo sulla figura del magistrato e ciò che dietro di esso si cela, il populismo giustizialista. E’ proprio la dimensione ansiogena che alimenta il dispositivo discorsivo giustizialista come antidoto della corruzione e della crisi della rappresentanza elettorale. Il partito arancione finisce per abbracciare i giudici, e per sconfinare e confondersi con una sorta di partito dei giudici, non per qualche errore contingente di tattica politica, come lascia credere la delusione improvvisa di alcuni intellettuali nei confronti del taglio assunto dalla “Lista Ingroia”: ma perché l’”arancionismo” stesso, per la retorica del civismo democratico che lo connota sin dal suo inizio, produce nient’altro che un “discorso di verità” che espelle qualsiasi riferimento a concrete pratiche sociali, autolegittimandosi in nome di uno statuto “oggettivo”. Così il discorso diviene moralmente integro poiché è vero: quindi “incorrotto”. L’abbraccio tra il Giudice e il Buon Cittadino è iscritto già dall’inizio, dalla scelta di collocarsi sul piano della società civile non come campo striato e conflittuale, ma come Tribunale dell’Opinione Pubblica, scranno del Giudizio in nome del buon senso civico.

Capovolgendo i termini, ne dedurremmo un’altra narrazione. Domandiamoci se la corruzione non sia fisiologica dei meccanismi di governance contemporanea. La cooperazione sociale, non più contenuta all’interno della tradizionale distinzione pubblico/privato, viene continuamente gestita, governata, gerarchizzata all’interno di dispositivi di cooptazione, inclusione differenziata, inclusione condizionale, e a volte di puro e semplice ricatto. In questo, senso, la corruzione non “capita”, contingentemente, ai meccanismi di governance: è il prodotto della crisi dei dispositivi rappresentativi quando questa crisi si dà nel contemporaneo blocco di processi costituenti.  La fonte del giustizialismo è proprio quell’ansia dell’opinione pubblica “sanzionatrice”: l’ansia della borghesia proprietaria che si muove contro la corruzione e contro la cattiva gestione della res publica. In questo caso, il magistrato incarna proprio quella figura gramsciana di “intellettuale organico” ad una “società civile” rappresentata come sfera omogenea, dotato della consapevolezza richiesta per riparare “tecnicamente” ai guasti delle istituzioni rappresentative, sempre concepiti come contingenti e superabili. Sulla crisi strutturale di queste istituzioni, ovviamente si tace: e non si potrebbe che tacere, perché già l’evocazione della società civile mostra a sufficienza come si ritenga di giocare esclusivamente all’interno delle architetture “costituzionali” classiche, o meglio, all’interno del loro lungo deperimento. C’è, da un lato, l’insieme dei rapporti privati, rappresentabile come “società civile”, dall’altro la sfera politico-istituzionale: può incepparsi il meccanismo, prodursi una corruzione nel sistema della rappresentanza, mai della rappresentanza, e allora interverrà il magistrato, suturando con le sue integerrime virtù le disfunzioni etiche che, come un bubbone, vanno crescendo.

Il magistrato, alla pari dei tecnici o dei professori, appare come una figura edipica. Poniamoci allora, con Deleuze e Guattari una domanda sulle forze sotterranee che ne reggono l’esistenza: “Ma cos’è un vero desiderio, se la repressione stessa è desiderata?”[6] Come evitare che la corruzione fisiologica e strutturale divenga essa stessa continuamente il terreno della riproduzione di figure della Cura e del Giudizio, che si autoalimenti il circolo di produzione di risentimento e giustizialismi?

I movimenti, in questi ultimi anni, hanno prodotto resistenze, riappropriazioni, sperimentazioni di forme di vita. Ma, spesso, hanno creduto che il loro spazio di forza, il loro potenziale veicolo di allargamento e diffusione, fosse occupare l’opinione pubblica, diventare produttori di opinione. E, invece, proprio lì li attendeva la neutralizzazione, se non la cattura. Il caso napoletano ci sembra emblematico proprio perché rappresenta questa cattura. Il movimento dei beni comuni aveva posto con decisione la questione della proprietà: il suo punto di forza era radicarsi nella fortissima materialità della lotte contro il saccheggio, le recinzioni, le appropriazioni. La sua espansione era, ed è a tutt’oggi, nella capacità di generalizzazione attraverso tutte le lotte contro l’appropriazione della ricchezza della cooperazione sociale: le lotte contro la rendita finanziaria, per il reddito di base incondizionato, per la riappropriazione dal basso del welfare e dei servizi. Dai beni comuni al comune, quella la sua direzione di rafforzamento e di crescita.  L’“arancionismo” ha trattenuto invece la forza di quel movimento, dislocandola su tutt’altro piano. L’ha tradotta appunto in opinione pubblica, l’ha diluita, utilizzando il solvente dell’antiberlusconismo, in un generico civismo. Gli arancioni derivavano dalla materialità antiproprietaria delle lotte sui beni comuni, ma la tradirono nella ricerca del Buon Governo cittadino (come se esistesse mai un possibile buon governo della città che si stabilisca nel compromesso con la rendita immobiliare e con le logiche proprietarie). Non sorprende che, a quel punto, tutto si sia ridotto ai recinti dell’elogio prima della legalità costituzionale, e poi della legalità tout court della “rivoluzione civile”. L’illusione di una perfetta, liscia, continuità tra lotte per i beni comuni, conquiste “arancioni” delle città, antiberlusconismo costituzionale e legalitario ha intrappolato buona parte dei movimenti, spostandoli dalla produzione di soggettività alla costruzione di opinione pubblica.

Le esperienze recenti dei movimenti, specie se viste dalla Napoli capitale della retorica arancione e benecomunista, ci indicano allora qual è il dispositivo di cattura che va spezzato: che è proprio quello, classico, dell’autorappresentazione come società civile, prima, e come produzione di opinione pubblica poi. In questo raccontarsi come opinione, sta già tutto il rischio di curvatura risentita, livorosa e autoritario-giustizialista: se sei opinione pubblica, allora sei Giudizio, e, prima o poi, cercherai il tuo Giudice. La produzione di soggettività, invece, vive nella lotta, nella creazione, nell’invenzione: e la fa finita con il Giudizio. Vuole farla finita con il giudizio di Dio, figuriamoci se ricade nell’amore per il giudizio di qualche Procura della Repubblica.

 



[1] G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, introduzione A. Fontana, Torino 1975, p. 333.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino, 1977, III, p. 1752.

[3]www.ilmattino.it/napoli/citta/comune_napoli_achille_serra_a_capo_dell_039_autorit_garante_anticorruzione/notizie/207253.shtml

[4] Ivi, p. 1516.

[5] Ivi, p. 1616.

[6] G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 130

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.
Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?

Fabrizio De André, Sogno numero due

Era quindi pronto a partecipare al gioco, era anzi onorato d’assumer la parte vacante d’un imputato.
Bravo, gracchiò il pubblico ministero e applaudì, bravo, quelle sì che erano parole virili, quello era coraggio.
Il commesso viaggiatore di tessuti s’informò, curioso, del reato che gli avrebbero imputato.
E’ una questione irrilevante, rispose il pubblico ministero pulendosi il monocolo, un reato lo si trova sempre.
Risero tutti.

Friedrich Dürrenmatt, La panne


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