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Una rottura italiana: produzione vs. sviluppo

 

di TONI NEGRI

In primo luogo, qual è il grado di immanenza del lavoro alle tecnologie capitaliste? Quali sono le trasformazioni che dall’interno della fabbrica la forza-lavoro impone alle macchine?

E poi: quale l’efficacia dell’attività umana nella strutturazione sociale? E vice versa: quale inerenza del comando capitalistico (e delle sue strumentazioni tecnologiche) alla vita sociale? Infine, quali trasformazioni i movimenti sociali impongono alle strutture ed alle istituzioni del comando capitalista?Biopolitica/biopotere: quanto è ampia ed efficace la capacità di resistenza?

Sono convinto che questi siano stati i punti centrali attorno ai quali si è venuta formando in Italia una originale filosofia politica nel quadro tormentato del dibattito marxista eterodosso ma con profondi agganci allo sviluppo delle scuole fenomenologiche italiane negli anni sessanta.

Nel libro Radical Thought in Italy. A Potential Politics, pubblicato da Michael Hardt e Paolo Virno nel 1996 (comprendente saggi composti tra gli anni ottanta e novanta) ritengo essere già state indicate alcune piste di ricerca. In quel periodo, e successivamente, i temi sopra definitii (originalmente concepiti nel rapporto fra movimenti di classe e trasformazioni tecnologiche) vennero incrociandosi e nutrendosi del contatto con la letteratura filosofica poststrutturalista, soprattutto – ma non solo – francese. Attraverso questa ibridazione tematica, i problemi sopra nucleati sono divenuti centrali nel dibattito postindustriale, postmoderno e globalista.

Vorrei tuttavia ancor più stringere il terreno del discorso chiedendomi: che cosa significò davvero “rifiuto del lavoro”, quella parola d’ordine che gli operaisti italiani lanciarono e praticarono nelle lotte operaie sociali a partire dagli anni sessanta?

Mi si permetta, a questo scopo, di riflettere su alcuni concetti che, pur non riferendosi immediatamente a quella fondamentale questione (il significato e senso del rifiuto del lavoro), ci saranno utili per approssimare la questione. Vorrei qui argomentare su alcune ipotesi, rilevanti per il nostro problema, sviluppate a partire da Empire e credo, soprattutto, maturate in Commonwealth. E cioè sulle forme nelle quali l’ontologia dell’operare umano, meglio, la potenza produttiva (così come essa è assunta nelle scienze sociali e politiche) viene prendendo forma e conseguentemente è dominata (intendo, assoggettata e sfruttata, disciplinata e controllata) oppure si mette nelle condizioni di rivoltarsi, di liberarsi e (come dicevano i Padri Fondatori) di perseguire la felicità.

Attività e lavoro sono i termini con i quali in genere si qualifica lo svolgersi di questa potenza ontologica. Qui sono intesi come “attività generica” e “lavoro valorizzante”. Sono infatti questi termini quelli che la filosofia, l’etica ed il diritto della modernità hanno assunto alla base dell’economia politica e di ogni progetto di gestione della produzione sociale per l’a-venire. Nel postmoderno poi – argomentavamo in Empire – lavoro valorizzante (ossia il lavoro materiale industriale) ed attività generica (cioè l’attività produttiva intellettuale e/o cognitiva, immateriale, scientifica, linguistica, affettiva, ecc.) tendevano ad identificarsi sotto l’egemonia dell’attività generica. Nel postindustriale e nel postmoderno, infatti, la “sussunzione reale” della società nel capitale, ovvero l’assoggettamento del bios al potere, ormai completatasi, operava in modo tale che le divisioni canoniche del pensiero (e dell’operare) moderno (natura e cultura, lavoro e tecnica, fabbriche e società eccetera) non fossero più date. Al contrario che la forza produttiva fosse considerata investire omogeneamente il contesto naturale e sociale. Di qui l’egemonia del “lavoro immateriale” o dell’attività generica, in quanto diretti non a singole produzioni ma alla cooperazione per la produzione del comune. Intendiamoci bene: “lavoro immateriale” era concetto utile ma era solo indicativamente corretto. Esso interpretava l’urgenza di sbarazzarsi dell’essenzialismo proprio degli antichi discorsi sulla natura come sul lavoro, del naturalismo come del laburismo. Così si era comunque ridotto il lavoro ad attività generica e la produzione – nel momento stesso nel quale investiva la totalità dell’esistenza naturale e sociale – in prima istanza – risultava priva di ogni normativa prestabilita e/o di ogni misura oggettiva e/o di ogni telos che non fosse soggettivamente costruito.

Perché? Perché la legge economica, la regola organizzativa, la norma etico-politica, quali Ricardo e Marx le avevano definite, nella loro critica dell’economia politica, erano venute meno, quando il rapporto temporale fra lavoro necessario, pluslavoro e plusvalore fosse ormai irriducibile a misura; quando il lavoro intellettuale e scientifico, il sapere e la comunicazione, insomma, gli elementi immateriali fossero divenuti, rispetto a quelli materiali, sempre più centrali ed indispensabili nella valorizzazione delle merci e quindi sfuggenti alla disciplina dell’organizzazione del lavoro; dove infine la circolazione dei fattori produttivi diventasse parte integrante del ciclo di produzione e riproduzione delle merci e distruggesse l’unità spaziale, anche se importante per la realizzazione della “legge del valore”:. Ma questo, appunto, solo in prima istanza.

Prima di ragionare di una seconda istanza, notiamo che qui comunque si apre, dal punto di vista capitalista, il discorso sulla “forma”, quando appunto, come s’è visto, la conversione della produzione dal lavoro valorizzante all’egemonia dell’attività generica sembra escludere ogni misura della produzione. Voglio dire che il capitalismo ha, con grande tempestività, saputo adeguarsi a questa nuova situazione. Esso ha costruito nuove forme di accumulazione simmetriche ai nuovi processi di produzione sociale e cognitiva del valore. Esso ha introdotto nuove scale di valorizzazione e di misura del tutto astratte, monetarie e finanziarie. Ad esempio, al valore industriale (profitto) tende a sostituire le regole e le misure della rendita. La rendita “energetica”, così come quella “immobiliare” e quelle “finanziarie”, configurano il nuovo universo globalizzato dell’attività umana generica. L’ordine è così ristabilito. Nella totale soggezione a valori astrattamente precostituiti, a referenze normative immobilizzate, a privilegi che si possono ormai riconoscere neofeudali e a diseguaglianze sociali insieme abissali e assurde, si mette – per così dire – nuovamente in forma lo sviluppo. Naturalmente ciò avviene fra crisi e crisi, perché – come abbiamo prima sottolineato – ormai ogni valore è inaccessibile, e le temporalità incessantemente interrotte, e solo la violenza incarna il potere, meglio, la permanenza e la ricomposizione continua, la governance degli assetti globali del biopotere.

Eccoci a questo punto – per inciso – dinanzi a quelle che vorrebbero essere alternative alla crisi della misura dello sviluppo – e cioè ad ipotesi culturali e politiche che, incapaci di ragionare in termini di energia, di potenza o di forma, assumono come modello il ricalco della crisi ed il suo piatto rovesciamento. Allo sviluppo capitalista oppongono quindi la decrescita (ossia l’indebolimento del rapporto cultura-natura), o ancora, detto meglio, alla storicità del rapporto produttivo e politico oppongono la natura – come se fosse possibile disinvestirla, cioè liberare la natura da quell’investimento massiccio che essa ha subito e spesso autonomamente riprodotto; come se fosse dunque possibile disarticolare il mondo vissuto da quelle pratiche sociali che hanno trasformato la natura stessa e che l’hanno vista positivamente reagire – fra le quali, non ultime, le nuove figure della sessualità, gli effetti del femminismo, il godimento di un corretto apparato del welfare, i nuovi usi legati ai progressi della medicina e delle biotecnologie ecc. Comunque, nelle zone frontaliere fra il sociale ed il naturale, nelle regioni nelle quali più evidentemente il mondo vissuto si articola al mondo naturale, ben altrimenti che attraverso le insulse politiche della decrescita ed i dispositivi dell’estremismo ecologico si potrà reagire. Infatti, l’ipotesi di un “ritorno alla natura” non è alternativa, bensì conseguente, simmetrica a quella capitalista di una sua “domesticazione” integrale.

Il discorso, qui come altrove, ritorna allora alla produzione – cioè a come riusciremo ad inventare valori e ad organizzare forze che permettano di separare, di sradicare non la natura dalla produzione ma la produzione dallo sviluppo capitalista, liberandoci nel contempo da ogni parassitaria utopia della decrescita. La produzione contro lo sviluppo, e quindi, ad un tempo, la forza-lavoro contro il lavoro industriale valorizzante e contro l’attività sociale generica.

Quand’ero giovane ci provai a capire che cosa significava lottare contro il lavoro. Significava rifiutare e tentare di rompere quell’unità organica, quel “sinolo” che nello sfruttamento, nello sviluppo capitalistico, univa (contraddittoriamente ma efficacemente) il lavoro vivo ed il lavoro morto, la fatica di essere sfruttati ed il capitale. Per lottare contro il capitale bisognava dunque anche lottare contro il lavoro, contro l’industria; e cioè dentro e contro quella massa che viveva nella alienazione; contro quelle corporazioni che si nutrivano e si inorgoglivano contrattando la misura dello sfruttamento; contro i socialisti che volevano sostituirsi ai capitalisti e volevano chiamare pubblici quei stessi beni che i padroni possedevano privatamente; e contro lo Stato che garantiva e glorificava la soggezione delle masse (e qualche volta esemplificava in maniera estrema e purificante tale soggezione, massacrando quella forza-lavoro in guerre patriottiche, mostruose e crudeli). Se quella battaglia che la classe operaia allora lottò contro il lavoro, sia stata vinta o perduta, davvero non lo so: so tuttavia che dal termine del “secolo breve” (lo si collochi nel ‘68 o ‘89), al lavoro industriale come macchina di valorizzazione il capitale sostituì l’attività sociale generica – ed il mercato all’industria, il popolo alla classe, l’individuo alla corporazione, la società globale allo Stato. Dati i rapporti di forza, non poteva fare altrimenti.

Molto era cambiato – e quasi nulla. Quasi nulla quando le cose fossero guardate dal punto di vista dello sfruttamento. Certo, agli operai dalle mani callose erano seguiti gli informatici, ai lavoratori a vita i precari, e mille altre sorti di gente che faticava e si spostava nei continenti per faticare ancor più e ancor meglio ecc., ecc.. ed ai socialisti erano seguiti gli ecologisti. Ma si era sempre lì dentro, anche se alla busta paga si era sostituita la carta bancaria, ed al salario il debito. Certo, la mobilità e la flessibilità dell’attività lavorativa generica mostravano qualche vantaggio rispetto alla mostruosa monotonia e ripetizione nelle galere del fordismo ecc ecc. Quasi nulla tuttavia era cambiato, anche se molto si era allo stesso tempo trasformato. Si avvertiva in particolare che la schiavitù dello sfruttamento non colpiva tanto le individualità quanto la cooperazione, non si abbatteva sulla privatezza ma sulla moltitudine delle singolarità, non viveva nell’orario giornaliero ma nella durata ed estensione della vita, non nella solitudine ma nel comune. Ora era la vita, la vita comune che era subordinata alla moneta dei banchieri ed alla finanza degli Stati. La teorica “sussunzione reale” della società dentro il capitale, era ora divenuta – praticamente e storicamente – biopotere.

Quale terribile miseria – quella vecchia classe operaia ora subordinata alla nuova figura del comando, quella vecchia classe operaia che ormai si chiama povertà! Eppure quale terribile forza qui ora emerge! Tanto più in questa condizione, la povertà non ha altra strada che quella di distruggere la propria miseria, di andarsene dal capitale, di fare esodo, da quella comune macchina di oppressione .

Ma che cos’è questo “comune”? Eccoci alla seconda istanza del nostro ragionamento. Sappiamo che comuni sono l’acqua, l’aria, il mare e, secondo la Bibbia, anche la terra. Nulla di ciò tuttavia ci appartiene più. Il processo di accumulazione del capitale si è fin dall’inizio progressivamente appropriato di queste ricchezze naturali. Ma noi siamo piuttosto interessati al comune prodotto dall’uomo poiché esso, come il comune naturale, è stato sì riassorbito nelle/dalle strutture organizzative del capitalismo, ma esso si rappresenta come un vivente comune umano espropriato. Lo stesso milieu nel quale viviamo e ci riproduciamo, è stato infatti espropriato dal capitale. Il capitalismo è oggi capitalismo del comune. Lo abbiamo già detto: capitalismo cognitivo, finanza globale, la vita organizzata e sfruttata come tale – è questa la nuova figura del comune. Il tutto mascherato da arcaici titoli di proprietà privata o pubblica, il tutto sussunto in ogni caso nel capitale. Quello che il capitale non è riuscito (e mai riuscirà ad appropriare) è tuttavia l’energia della forza-lavoro, meglio di quella forza produttiva che oggi si chiama forza invenzione, di quella moltitudine di singolarità che produce il comune. Il comune non è infatti solo l’insieme della ricchezza prodotta ma anche la forza produttiva per eccellenza. Si può senz’altro affermare che oggi non si da produzione senza che del comune, il comune la costruisca.

Torniamo allora a noi. Se il modo in cui è messa in forma la potenza della produzione comune, o nel quale si mostra l’energia comune che oggi costituisce la storicità concreta, ci dispensa dal cominciare con una distinzione a priori fra l’ordine umano (bios) ed un eventuale ordine naturale (zoè), questa condizione non ci toglie alla necessità di riconoscere nella nostra esistenza singolare la forma del comune e neppure, quindi, ci toglie all’esperienza (che può anche essere l’urgenza) di dare figura e forza politica a questo comune. Sarà il rapporto costitutivo che si propone nel nome della moltitudine, il nuovo nome della democrazia? È probabile. A tutti noi verificarlo.

Ma si potrà verificare solo attraverso una rivoluzione sociale. Democratica, laddove i nomi di rivoluzione e di democrazia siano compatibili. Ogni progetto di democrazia può oggi solo fondarsi sulla costruzione di nuovi diritti di riappropriazione e/o di proprietà sociale di beni comuni. Ed aggiungiamo che la forma di questa riappropriazione non potrà che rifiutare la concentrazione di potere, a favore della sua diffusione; non potrà che respingere ogni forma gerarchica (e/o competitiva), istituzionalizzando il comune come contenuto di un governo partecipato con spirito cooperativo, capace di promuovere ed assorbire sempre nuove comunità di produttori. Democrazia dei produttori, dunque, contro il lavoro valorizzante e l’attività generica, egualmente sfruttati, contro lo sviluppo (e la decrescita).

Ora ritorniamo a noi – cioè al rifiuto del lavoro, intendendolo come matrice filosofica. È nel decennio fra 1956 e il 1966 che si realizza nell’ambito del marxismo italiano (ma non solo) una vera rivoluzione copernicana contro il Diamat, che andava d’altronde dissolvendosi dopo il ventesimo congresso del PCUS. Dopo il ‘56 si dà un vero e proprio mutamento di paradigma del pensiero rivoluzionario. Conquista l’egemonia una nuova antropologia (espressa dalla esperienza militante e dalla sociologia di fabbrica) che non è più semplicemente quella dell’uomo faber, del uomo produttivo nell’industria ed in generale nel rapporto con le macchine (non è più semplicemente questo, anche se  è sempre un pensiero rivolto contro ogni tanatologia, più o meno heideggeriana).

Lo voglio ricordare in termini biografici. Il nostro problema, in quei anni, fu quello di reinventare l’antropologia del lavoro. Il rifiuto del lavoro non era infatti un atto volontarista ma un’operazione che avveniva all’interno del sistema delle macchine; non era un’operazione culturale per la trasformazione della natura ma una costituzione natural-culturale nuova; non era semplicemente un atto politico ma un atto costitutivo di altra umanità. Vorrei qui invitare ad una ricerca che riattraversi (come in parte noi avevamo fatto) la sociologia e le filosofie antropologiche del primo novecento. Noi avevamo trovato, ad esempio, una forte sollecitazione nell’antropologia fenomenologica di Maurice Merleau-Ponty il cui pensiero incitava ad ibridare pratiche fenomenologiche ed analisi marxista. C’era un nuovo umanesimo, dopo la morte dell’uomo, che veniva qui costituendosi, un umanesimo comunista. Lo nota, ad esempio, polemicamente, Habermas quando ricorda che in Marleau-Ponty è fondamentale l’idea “di un soggetto capace di parlare e di agire che costituisce già un organismo socializzato, un rapporto già integrato prima di riferirsi in maniera oggettivante a qualcosa che esiste nel mondo”. È il realismo di una trasformazione sociale, non alienata, del soggetto lavoratore-trasformatore. In Italia, Enzo Paci, Giuseppe Semerari, Enzo Melandri ed altri insistono su questa “iperdialettica” fenomenologica. Era, come abbiamo detto, un nuovo umanesimo dopo la morte dell’uomo. Alla diagnosi heideggeriana e ad ogni pessimismo catastrofico o escatologico nella considerazione del rapporto fra tecnica e costituzione umana, si opponeva dunque una concezione che assumendo come indistruttibile il rapporto cultura-natura, uomo-macchina, operaio socializzato-struttura biopolitica proponeva un’antropologia liberatrice, una nuova praxis dentro questo rapporto.

I saggi di Panzieri e Tronti, ed ancor di più le potenti aurorali ricerche di Alquati nei primi “Quaderni Rossi”, definiscono appunto il rifiuto del lavoro, percorrendo la produzione operaia (le sue forme e i suoi cicli) contro lo sviluppo capitalista (le sue forme e i suoi cicli). Questa esperienza ci permette di rilanciare la ricerca sull’ontologia dell’operare, sul rapporto tra fenomenologia critica e pratica di intervento militante e rivoluzionario. Naturalmente questi temi riaprono anche il problema del rapporto fra sapere vero ed etica della trasformazione, ecc.

(Relazione presentata il 24 settembre 2010 alla conferenza Commonalities.)

 

 

 

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