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Nominare il nuovo conflitto sociale argentino

 

Intervista a NEKA JARA e ALBERTO SPAGNOLO – di MAURA BRIGHENTI

In questi giorni il taller Hacer Ciudad de la Cazona de Flores di Buenos Aires sta articolando una proposta politica di incontro rivolta alle organizzazioni e ai movimenti sociali intorno all’emergenza di un “nuovo conflitto sociale”. La necessità di un incontro – che vuole essere, al tempo stesso, un momento di analisi, di costruzione di rete e di nuove pratiche e strumenti di lotta – nasce dall’elaborazione seguita a tre eventi particolarmente cruenti: l’incendio della casa di Neka e Alberto nel quartiere di Florencio Varela, nel conurbano sud di Buenos Aires, per mano di una banda di narcotrafficanti e con l’appoggio della polizia[1]; l’assassinio di tre ragazzi del Frente Popular Diego Santillán a Rosario, attribuito a una banda di narcotrafficanti[2]; le reiterate aggressioni a militanti del Movimiento Campesino di Santiago del Estero (MOCASE – Via Campesina) da parte di bande legate all’agro-negocio che ha portato all’assassinio di almeno due contadini nell’ultimo anno: Cristian Ferreyra e Miguel Galván. Gli impresari legati alla produzione e al commercio della soia offrono denaro alle famiglie perché “liberino” i terreni e assoldano giovani delle stesse comunità perché minaccino, colpiscano e uccidano chi resiste alla spoliazione della terra. La loro azione criminale e l’impunità di mandanti ed esecutori è assicurata dalla copertura di polizia, giudici e potere politico locale[3]. Pur inserendosi in contesti diversi, queste situazioni di conflitto mostrano un inquietante tratto comune. Emergono come il volto oscuro, e reso invisibile, dell’attuale modello di accumulazione post-sviluppista e neoestrattivista e della complessa ristrutturazione delle mappe di potere e di controllo sociale da esso generata.

Ne parliamo con Neka e Alberto con cui ho condiviso l’entusiasmo di partecipare a un’assemblea dedicata al “nuovo conflitto sociale” con i compagni del Mocase presso l’Universidad Campesina de Ojo de Agua (Santiago del Estero, 10 novembre), da cui questo dialogo trae origine.

Fondatori nella seconda metà degli anni Novanta del Movimiento de Trabajadores Desocupados di Solano (Mtd), dopo vari anni di lavoro territoriale nella zona sud del conurbano di Buenos Aires, Neka e Alberto sono diventati uno dei riferimenti del movimento autonomo argentino. Hanno fatto parte della Coordinadora de Desocupados Aníbal Verón, poi abbandonata in seguito a una profonda riflessione tanto sul significato di “lavoro” e di “disoccupazione” quanto sulla fase politica. A metà degli anni duemila si rende evidente ai loro occhi che un’esperienza come l’Mtd (forma di organizzazione che ritengono sia stata fondamentale alla creazione di un nuovo spazio di lotta) abbia ormai compiuto il suo corso, per aprirsi a un altro tipo di esperienza: “abbiamo realizzato che il nostro problema non era il lavoro come relazione di sfruttamento […] il disoccupato non esiste, si tratta di pensare l’occupazione secondo un’altra logica”. Una lunga riflessione sul “lavoro autonomo”, in un contesto in cui pezzi consistenti dell’Mtd e della Coordinadora de desocupados sono stati “cooptati” all’interno del kirchnerismo, porta alla creazione, nel 2008, del Movimiento de los colectivos: una composizione eterogenea di soggettività e forme di lotta (dall’autogestione del lavoro alla produzione di alimenti biologici; dai centri culturali ai centri di salute) che “si articolano a partire da una relazione molto più autonoma”, senza uniformarsi in un movimento unico. La rete di contatti e di lotte che si è consolidata soprattutto a partire dall’insorgenza moltitudinaria del 2001 ha portato negli ultimi anni Neka e Alberto a essere anche parte integrante della Cazona de Flores, uno spazio autonomo all’interno della capitale.

La notte del 30 agosto rappresenta un momento cruciale nelle vostre esperienze di vita. Un disegno criminale ben orchestrato, e culminato con l’incendio che vi ha distrutto la casa e costretto ad allontanarvi da Florencio Varela, ha reso evidente a voi e all’intero quartiere la carica di brutale violenza che soggiace alla disputa per il controllo del territorio. Con il coraggio di sempre, e grazie alla rete di amici, compagni e organizzazioni sociali che vi si è stretta intorno, avete da subito denunciato l’accaduto, riuscendo in pochi giorni a ribaltare il disegno criminale orchestrato da una banda di narcotrafficanti e dai loro svariati complici. A distanza di alcuni mesi, come analizzate politicamente quello che vi è successo?

Si tratta della manifestazione di una situazione complessa che non stanno vivendo solo i quartieri del Conurbano della capitale ma che disgraziatamente si diffonde in molti altri luoghi. Attraverso la complicità politica, giudiziaria e poliziesca la rete criminale che gestisce il narcotraffico si è estesa, e continua a estendersi.

Non abbiamo mai cercato uno scontro diretto con i narcos. E del resto non abbiamo mai lottato contro la droga. Siamo convinti che il tema della droga vada affrontato seriamente, che merita un dibattito profondo e che non vada messo tutto sullo stesso piano. Ci è successo quello che ci è successo per le attività che sviluppiamo nel quartiere. In questi anni abbiamo lavorato con i ragazzi cercando di genere ambiti (dalle arti marziali, al folklore e ad altri laboratori) in cui rafforzare una dinamica di gruppo attraverso cui essi possano risignificare le loro vite. Quelli dove viviamo e lavoriamo sono luoghi duri, dove il neoliberalismo ha colpito duramente la vita delle famiglie. Bombardati da una società del consumo che ti convince permanentemente dell’esigenza di avere più cose, i ragazzi vivono una forte pressione al “denaro facile”. Ed è qui che entriamo in collisione con il traffico del paco[4]. Non lo chiamiamo droga, perché il paco è un veleno che si è esteso a tutti i quartieri: prima ti rendono consumatore, facendo arrivare il paco fin dentro alle scuole, poi comincia il reclutamento. A Pico de Oro, nella zona dove vivevamo, c’è stato un momento in cui c’erano più di cento ragazzi “soldati”: andavano in bicicletta, si occupavano della vigilanza, della distribuzione, ecc. E famiglie che davano copertura alla rete: case in cui si nascondevano le armi, altre dove si nascondevano le sostanze, ecc. Perché tutto funziona in rete, non ci sono luoghi dove si concentra l’attività, si tratta di una produzione e un traffico diffusi. Questa rete estesa ci ha portato allo scontro diretto, proprio per la pratica di lavoro che stavamo facendo con i ragazzi. All’interno di un quartiere complicato, l’offrire ai ragazzi altre cose che hanno a che vedere con la vita ci ha portato a entrare in antagonismo con i narcos: stavamo disputando non solo un territorio, ma la stessa vita dei pibes che, attraverso un sistema di referenze, forme di conversazione, il contatto con i movimenti si stavano costruendo un’altra proiezione di vita. Molti pibes hanno cominciato ad abbandonare le reti narcos per entrare a far parte dei gruppi che stavano organizzando in quartiere. Quando un narco ha iniziato a vendere davanti alla nostra casa, sono cominciati i problemi, le pressioni, le minacce, fino al momento in cui si è concretizzata una manovra orchestrata in modo intelligente: una denuncia gravissima di abuso nei nostri confronti[5], mentre la polizia, complice, stava già attuando per “liberare” la zona perché la banda potesse agire indisturbata, inscenando un escrache[6] davanti alla nostra casa. Nei giorni successivi abbiamo constatato che gli artefici della manovra erano cinque pers1one legate al narcotraffico: ora una è in prigione, una è latitante e le altre tre rimangono in libertà. L’idea di quella manovra ben orchestrata era di distruggere le forme di vita che il movimento propone e porta avanti, per questo dovevano colpire noi in quel modo: un conto è morire sul campo di battaglia dello scontro politico, ben diverso è essere neutralizzato con la macchia di un abuso sessuale. Fortunatamente siamo riusciti a ribaltare la loro manovra criminale.

All’urgenza della denuncia politica, è seguita ben presto l’esigenza di analizzare più in generale la situazione. Un lavoro collettivo ancora agli esordi ma in cui da subito si esprime una duplice volontà politica: comprendere, nominare e rendere visibile il nuovo tipo di conflitto sociale che si sta dando nei quartieri del Conurbano bonarense come in molte altre aree del paese e al contempo costruire e consolidare una rete di organizzazioni e movimenti sociali attorno a questa questione. Partiamo dal primo punto: come si sta disegnando una nuova mappa di potere e di controllo sociale in un quartiere come Florencio Varela?

Oggi si stanno delineando delle relazioni di potere molto diverse da quelle che, per esempio, si davano fino a qualche anno fa con i punteros politici[7]. Le dinamiche di potere legate al traffico di droga, e nello specifico del paco (è sempre circolata la droga in questi quartieri ma con logiche molto distinte di vendita, consumo e relazioni sociali), hanno a che vedere con il controllo del territorio ed è per questo che ci hanno bruciato la casa e hanno voluto che ce ne andassimo. Anche con i punteros c’era una disputa territoriale, ma questa si dava in un ambito molto più politico. Ora la disputa è a partire dall’attività criminale, dall’illegale, e le pratiche messe in campo dalla rete narcos sono molto più complesse di quelle che ci portavano a scontrarci con i punteros, perché si tratta di un’organizzazione criminale protetta dal potere legale. Il potere giudiziario, il potere politico e la polizia prestano il loro fianco legale all’organizzazione e in questo modo si genera una struttura mafiosa complessa e difficile da delineare con precisione. Per questo stiamo parlando di un nuovo conflitto sociale, ha altre forme, altri metodi ed è molto più diffuso. È più difficile organizzarsi perché spesso non sai chi hai davanti: un giorno parli con un vicino e il giorno dopo scopri che nella sua casa nasconde il paco; nella casa di un altro vicino, il ragazzo fa da mulo. C’è un controllo del territorio molto più complesso ed esteso di quello che aveva il puntero fino a qualche anno fa e ciò ci porta a nuove sfide e a nuove domande. Bisogna pensare di nuovo a come lavorare nel quartiere perché quella sul territorio è una disputa importante, che non possiamo abbandonare.

In questi mesi avete cominciato a pensare a questo nuovo conflitto sociale come a qualcosa che è interno, appartiene alla logica neoestrattivista che sostiene l’attuale modello di accumulazione e valorizzazione capitalistica che si dà in Argentina come, più in generale, in America latina. In questo senso, possiamo dire che le complesse dinamiche legate al narcotraffico disarticolano l’organizzazione sociale dei quartieri, prodotta dei movimenti sociali e della creazione di reti di cooperazione sociale e comunitaria. Con una dinamica simile, l’agro-negocio disarticola una maniera di vivere e produrre, a partite da una lunga relazione con la terra, delle comunità indigene e contadine. In entrambi i casi, il neoestrattivismo incorpora una dinamica mortifica: disarticola, desertifica e uccide. Possiamo dire che è il riconoscimento di questa dinamica comune che vi ha spinti a incontrare i compagni del Mocase?

Certamente. Perché la dinamica che si sta implementando ha questo sfondo economico. La necessità di terra, di spazi territoriali che hanno le multinazionali e soprattutto i produttori di soia incorpora delle modalità di controinsorgenza che, seppure appaiono distinte, hanno una similitudine profonda. Stanno cercando di fare apparire lo scontro con i contadini che difendono le loro terre come un problema che non ha nulla a che vedere con l’impresa, né tantomeno con il potere politico. E questo è un rischio enorme perché rende molto più complicata la visibilizzazione sociale del conflitto. A Santiago del Estero ci hanno raccontato che ci sono bande, spesso costruite a partire da vincoli famigliari, che reclutano gente povera per cacciare i contadini dalle proprie terre. Solo dopo che la banda ha “liberato” un appezzamento di terra, l’impresa se ne impossessa e lo recinta. Lo scontro quindi non è direttamente con la polizia, con le forze di repressione. C’è una specie di terziarizzazione della controinsorgenza. Non è diverso da quello che avviene nel nostro caso. Quelli che hanno attuato contro di noi lo hanno fatto in modo sofisticato, facendolo apparire come un caso di cronaca poliziesca. Hanno tentato una spoliticizzazione del conflitto per rimanerne estranei. Quindi per noi la dinamica è molto simile e abbiamo la necessità di costruire articolazioni in modo permanente, non solo quando uccidono un compagno. Dobbiamo sviluppare un’intelligenza comune.

Avete più volte richiamato la spoliticizzazione del conflitto che una serie di poteri compiacenti cercano di mettere in campo. Se guardiamo alle prime rappresentazioni giornalistiche di questi conflitti emerge con tutta evidenza una diffusa e inquietante attitudine oscurantista, che mira a costruire un falso senso comune. Se il confitto che vi ha coinvolto è stato rappresentato al più come una zuffa tra bande di quartiere, l’assassinio, a distanza di meno di un anno, di due compagni del Mocase è stato dipinto ricorrendo al topos dell’abitudine al “coltello facile” che sarebbe tutt’ora in voga nelle lontane regioni agricole del nord del paese. Un occultamento del conflitto sociale, e delle sue dinamiche complesse, che rimanda a qualcosa di tipicamente tradizionale…

È un meccanismo grave per quello che oscura, perché ti rende invisibile e disarticola la reazione al conflitto come risposta politica. A Florencio Varela quando i narcos hanno cacciato cinque paraguaiani per impossessarsi della loro terra si è innestato un conflitto che i giornali hanno immediatamente descritto come un conflitto tra bande narcos contrapposte. In questo modo la polizia e i vertici dell’amministrazione locale hanno messo tutto a tacere, quando in realtà si tratta di bande narcos che colpiscono operai, lavoratori. È grave l’ingiustizia che si produce. Noi abbiamo potuto ribaltare questo stato di cose perché siamo conosciuti e abbiamo una rete di militanza da molti anni, mentre i paraguaiani, gente povera e priva di un tessuto di relazioni, non hanno potuto farlo. È un modo di eliminare sistematicamente chi si oppone, chi si vede come un avversario, un nemico. È grave perché ti lascia in una condizione di grande fragilità. I mezzi di comunicazione sono anch’essi complici, sono pochi quelli che cercano di svelare. A questo riguardo abbiamo uno svantaggio di anni e spesso i canali d’informazione alternativa non bastano a ribaltare la versione dei fatti che i giornali complici, in una maniera militante, confezionano. Basta pensare che a Florencio Varela addirittura il commissario di polizia ha un proprio giornale che confeziona la sua versione dei fatti, che è la versione dei narcos. Richiede molto lavoro decostruire tutto questo, quando circola molto denaro per comprare le volontà, quando sono implicati il potere politico, giudiziario, le forze armate e tutti coloro che si possono acquistare con il denaro. Siamo davanti a una sfida enorme e dobbiamo darci nuove strategie di difesa. Essere in grado di ripoliticizzare il conflitto. Lo abbiamo fatto sul Puente Pueyrredón dieci anni fa, quando hanno ucciso Dario e Maxi[8], e dobbiamo continuare a risignificare e nominare il conflitto che di volta in volta assume forme e modi differenti.

C’è un’altra rappresentazione connessa tanto con il narcotraffico che con l’agro-negocio. Quella di pensare lo spazio che si “conquista” per assicurare la produzione e la vendita del paco e per impiantare la soia come “zone liberate”. Sembra curioso, se si pensa alla disarticolazione sociale e affettiva che ne sono il prodotto….

Il riferimento alle zone liberate è molto evocativo. In realtà si tratta di zone di controllo più che di zone liberate. Le zone liberate sono quelle del Chapas, quelle create dai compagni. Queste sono zone di dominazione e di repressione. Sono zone di guerra, perché distruggono la comunità, il tessuto sociale e i tentativi di trasformazione della realtà. Soprattutto distruggono la vita dei giovani che sono la fonte di energia per la trasformazione. Si colpisce esattamente nei passaggi generazionali, per distruggere il ricambio. Perché la gioventù ha in sé una vitalità, una forza di cambiamento che a volte con gli anni si va perdendo, ed è quella che dà continuità alle lotte.

Se prima il potere colpiva in una maniera evidente, oggi usa strategie più sofisticate, ma il principio non cambia: si tratta sempre dell’accumulazione di denaro a spese dei settori sociali più bassi. Se pensiamo all’organizzazione narcos, il capo della banda sicuramente va a messa, ha una famiglia modello, è un buon padre… è un fantasma che non si conosce. Al contrario, il traffico di droga si rende visibile attraverso la figura del povero, del morocho, che diventano un pericolo sociale. Lo erano prima come piqueteros e ora il pericolo si potenzia: piquetero, consumatore e trafficante… categorie che il sistema di potere inventa per rendere sempre più labile ed estesa la frontiera sociale, per costruire una società del controllo sempre più ampia. La paura della gente è reale, non è inventata, è il frutto della disarticolazione sociale prodotta da questi nuovi conflitti ma, sulla paura, la complessa struttura del potere non costruisce nuova articolazione, ma puro controllo. Così si passa da una fase progressista a una fase di fascismo con consenso. È la gente a chiedere più rigore, telecamere, militari per la strada, e se fucilano dieci o venti pibes in una villa tanto meglio, sono venti pibes in meno!

Quindi per noi nominare il conflitto significa dire che c’è una giustizia elitaria: quando devono mostrare di lottare contro il narcotraffico non arrestano il capo della banda, ma il pibe di quartiere. Che c’è una questione razziale, elitaria dominante che gioca con la vita dei “nostri”. Noi sappiamo con non è il pibe, il nostro nemico. Il nemico è invisibile, un fantasma. Dobbiamo “cacciare i fantasmi”!

È già emerso, ma vorrei insistere su questo punto: tanto l’agro-negocio che il narcotraffico sono due modi di accumulazione e valorizzazione capitalistica che vanno oltre il confine tra legale e illegale. Le reti narcos svolgono un’attività illegale protetta dal potere legale, che coopera non solo per assicurare il traffico e spartirsi la rendita prodotta, ma anche per “pulire” il denaro sporco che è rinvestito e messo a valore in attività legali, prima tra tutte la speculazione edilizia. L’agro-negocio è un’attività formalmente legale che però, con lo stesso tipo di copertura politica, ricorre alle bande per “liberare” in modo criminale i terreni…

L’agro-negocio ha a che vedere con una fase che stiamo vivendo, che però ha alle spalle un lavoro di costruzione di anni. Vale a dire: il lato criminale dell’agro-negocio impatta quando una comunità ne soffre direttamente le conseguenze. Ma a livello generale, a livello sociale, nelle città per esempio, ciò appare come qualcosa d’invisibile e non si mette in discussione il modello. Un lavoro di costruzione di anni lo ha reso possibile. È nel nome dell’alimentazione, del progresso, della qualità della vita che l’agro-negocio si sviluppa. Ed è in nome di tutto questo che non si vede l’altro lato. Chi può vederlo è chi è ne è colpito direttamente. Non è diverso da quello che è successo a noi: intravedi la complessità della rete narcos quando ti bruciano la casa… È difficile pensare le conseguenze in assenza di uno scontro diretto. Crediamo che la ragione vada ricercata in un avanzamento capitalistico senza precedenti, un avanzamento così profondo e così sofisticato da rendere tutto questo possibile. A Santiago del Estero e a Florencio Varela sta succedendo qualcosa di molto simile, perché, come l’agro-negocio, il narcotraffico sostiene molto di quello che si costruisce economicamente e politicamente. Nel nostro tessuto locale emerge chiaramente come i narcos appoggino una campagna politica, come essi significhino soldi per la polizia, per i giudici… È un modello di accumulazione, e di morte, che si sostiene su una complessa trama di complicità di potere.

È un modello di potere che funziona a partire dalla disarticolazione delle reti e delle organizzazioni esistenti. Non è un buon momento per i movimenti sociali che, seppure continuino ad agire, non hanno oggi la capacità di rendersi visibili e di fare pressione che hanno avuto durante la crisi del 2001. Eppure per le cose che fanno rappresentano una minaccia e da qui nasce lo scontro. I compagni del Mocase, per esempio, non hanno la pretesa di occupare nuove terre, ma è la loro stessa presenza a minacciare l’estensione dell’agro-negocio.

È una situazione complessa e non abbiamo ancora tutte le parole per descriverla. Stiamo cercando di nominare un fenomeno che ci sconcerta e che molte volte ci lascia senza parole. I movimenti vivono una fase d’incertezza, non riescono ancora a vedere con precisione, e da qui l’importanza di costruire un’intelligenza collettiva, l’importanza di costruire rete, prima di tutto per salvarci la vita… Negli ultimi mesi si è data una ricchissima possibilità di scambio che dobbiamo consolidare. Dobbiamo apprendere dalle esperienze che molti collettivi stanno portando avanti, soprattutto in quelle parti dell’America latina, come il Messico e la Colombia, che da molto tempo conoscono e vivono questo tipo di violenza controinsorgente. Stringere contatto con loro significa per noi poter indagare, approfondire, nominare e creare nuove pratiche di lotta.

Un’altra sfida importante che abbiamo come movimenti sociali, non solo in America latina, è di pensare all’alimentazione, a come consumiamo e all’impatto che i nostri consumi hanno sulla riconfigurazione del potere e sulla disarticolazione sociale e territoriale. Dovremmo riflettere criticamente sull’alimentazione industrializzata, perché tutto ciò che si produce in questo modo, e che genera morte, da qualche parte si consuma. Le società globali sono a loro volta complici.

In questo senso dovremmo anche approfondire il dibattito sui diritti della terra e dell’ambiente che si è sviluppato più intensamente in paesi come la Bolivia.

Mi riallaccio a quest’ultimo tema. Tanto il narcotraffico come l’agro-negocio, seppure in forma distinta, ci pongono davanti alla questione complessa del consumo. Da una parte, attraverso i profitti dell’agro-negocio, il governo ha potuto estendere i consumi tra le classe popolari con i piani sociali. Dall’altra, si sta diffondendo una logica di consumo “sfrenato” che i narcos sfruttando per il loro affare e che, in modo diverso, sfruttano anche le multinazionali legate all’agro-negocio che consumano e devastano sempre più terra. Nel campo politico sembra che né il governo né le opposizioni che si sono manifestate negli ultimi cacerolazos e nello sciopero generale del 20 novembre abbiano qualcosa da dire su questo modello di accumulazione neoestrattivista e sul conflitto sociale che si genera. Come è possibile riprendere l’iniziativa su questo terreno?

Nonostante stiano cominciando alcune critiche da parte di settori dell’opposizione, ci sembra che non stia ancora emergendo un modello diverso dall’estrattivismo. È una sfida enorme per i movimenti perché richiede la decostruzione di una maniera di pensarsi in società. È la cosa più difficile: come uscire da questa idea di progresso? Tutti oggi parlano di progresso, nella campagna come nell’industria che si genera attraverso la soia, ecc. Effettivamente l’estrattivismo produce un’attivazione sociale, ma si tratta di un’attivazione in cui stiamo giocando con le nostre risorse, con le nostre vite per i prossimi dieci, quindici anni. È un tratto tipico dell’Argentina: avere un pensiero di breve periodo e giocare alla roulette russa!

Altrettanto evidente, in Argentina, è un diffuso desiderio di liberazione, di sfidare il potere, la dominazione. È qualcosa che resta sotterraneo, per esplodere nei momenti di crisi o quando si organizzava l’occupazione di terra per risolvere il problema abitativo[9]. Il punto è che quando la crisi passa, tutto si riaccomoda alla condizione precedente. In un momento sembra di assistere a una situazione rivoluzionaria, il famoso ¡qué se vayan todos!, la rottura con la rappresentanza politica, e un attimo dopo tutto si riaccomoda. Il 2001 mostra chiaramente questa dinamica: nel momento del tracollo economico, la classe media è uscita per le strade a maledire la rappresentanza politica ed è la stessa classe media che oggi chiede più sicurezza, più polizia per la strada. Sono come dei momenti ciclici che è necessario riuscire a leggere per poter andare oltre, reinventare, dare parole a ciò che viene dopo. Senza questa capacità di lettura non è possibile uscire dal ripiegamento, costruire nuove pratiche di lotta.

Che ruolo pensate possano avere i movimenti sociali oggi?

È una questione complessa. A essere complessa è la stessa definizione di movimenti sociali. Oggi non sappiamo bene di cosa parliamo quando diciamo “movimenti sociali”.

Se ad esempio guardiamo al nostro caso, siamo un insieme di collettivi che fanno diverse cose, diversi tipi d’intervento. Eppure se, fuori dai nostri contesti, ci definiamo un movimento sociale non diciamo qualcosa di comprensibile. Oggi il movimento sociale è l’Evita[10], che segue una logica ben diversa da quella con cui un movimento sociale si andava costruendo fino a qualche anno fa. È un’organizzazione completamente interna alla logica statale che sostiene la costruzione sociale prodotta dal kirchnerismo. Ci sono altri movimenti interni al kirchnerismo e quelli che sono rimasti estranei alla logica statale e governativa vivono una fase complicata, sono come disarmati. Fanno molte cose, hanno una capacità d’intervento a volte anche molto potente, ma non riescono a rendere il loro lavoro visibile all’esterno.

Quello intorno ai movimenti sociali è un dibattito che dobbiamo fare, è parte della sfida più generale: articolare, mappare e nominare quello che sta succedendo. Qui, come nel resto dell’America latina, i movimenti continuano a creare di fronte a situazioni che spesso ci lasciano senza la chiarezza necessaria. Una creazione che parte dall’intuizione e dal contatto con realtà che stanno vivendo in altri luoghi. Si tratta di un processo in cui stiamo cercando di trovare risposte, di cercare i modi attraverso cui far sì che l’estrattivismo non s’imponga una volta per tutte sul movimento contadino come sul movimento urbano. Sono molte le persone che passano la propria vita a difendersi dall’espansione dell’estrattivismo e da loro viene l’intelligenza, la creazione di moltissime pratiche di resistenza. È necessario metterle in comune, studiarle e ubicarle nei nostri contesti, svilupparle. È necessario creare istituzioni proprie, autonome. Non nutriamo molte speranze nel cambiamento delle istituzioni statali, che i giudici diventino etici, che la bonarense[11] si converta in una milizia popolare!…

Devono essere i movimenti a creare le condizioni perché ciò che sedimentiamo possa crescere protetto, perché ci siano compagni pronti a difenderlo. Dobbiamo creare strumenti di pressione verso le istituzioni, continuare a denunciare, e al contempo generare la nostra propria forza, le nostre proprie dinamiche per la preservazione della vita. Dobbiamo togliere alle strutture di potere tutto quello che in questi anni hanno imparato da noi – e che si nota! –, sottrarglielo, cambiare, inventare. È un lavoro di pura creazione.

 

Qui il documento con cui il Taller Hacer Ciudad de la Cazona de Flores invita alla “costruzione delle giornate sul nuovo conflitto sociale”.


[1] Rimandiamo alla lettera scritta di Neka Jara e pubblicata da Uninomade pochi giorni dopo l’accaduto: https://uninomade.org/un-nuevo-tipo-de-conflicto-social/

[2] Jeremías Trasante, Claudio Suárez y Adrián Rodríguez, tre giovani del Frente Popular Diego Santillán, sono stati assassinati in un campo di calcetto del Barrio Moreno (Rosario) la notte del 1 gennaio 2012.  Nei giorni successivi l’impegno dei famigliari e dei compagni ha ribaltato la versione della polizia (un conflitto tra bande narcos), rendendo evidente come in realtà si fosse trattato di un tragico errore di persone. A un anno di distanza, il FPDS di Rosario continua a lottare per lo smantellamento della rete legata all’impresa del narcotraffico e delle sue complicità istituzionali.

[3] Per un approfondimento: http://www.revistacrisis.com.ar/article136.html.

[4] Il paco, o pasta base della cocaina, è una sostanza a basso costo simile al crack realizzata con residui della cocaina, acido solforico, cherosene e spesso anche altri agenti molto dannosi come il cloroformio.

[5] Una donna, integrante della banda narcos, accusò Alberto di avere stuprato sua figlia di appena cinque anni (una falsa accusa tra l’altro già utilizzata in un precedente conflitto).

[6] L’escrache è una forma di manifestazione che comincia a essere praticata dall’organizzazione Hijos (figli dei desaparecidos) nel 1995, quando l’allora presidente Carlos Menem concede l’indulto per i reati commessi durante la dittatura militare (1976-1983): recandosi davanti alla casa o sul luogo di lavoro di un “carnefice” si svela la sua presenza ai vicini e si denuncia in questo modo il persistere dell’impunità per i colpevoli delle desapariciones. Negli anni successivi la pratica degli escrache si è diffusa per denunciare altri reati, non connessi con la dittatura militare, come l’omicidio, la tratta di donne ai fini della prostituzione, lo stupro.

[7] I cosiddetti “punteros” sono esponenti dei partiti politici che svolgono una funzione di mediazione tra il loro partito e il quartiere in cui militano, principalmente attraverso la gestione e la distribuzione delle risorse e dei benefici sociali che “scambiano” con l’adesione e la mobilizzazione a favore del partito, in una forma abbastanza classica di clientelismo politico.

[8] Il 26 giugno 2002 le principali organizzazioni di disoccupati del paese (Mtd) organizzarono una giornata di lotta per l’aumento dei salari e dei sussidi ai disoccupati, con il blocco dei principali ponti di accesso alla capitale. La repressione delle forze dell’ordine (polizia federale, polizia della provincia di Buenos Aires e gendarmeria) fu particolarmente brutale. Maximiliano Kosteki e Darío Santillán furono uccisi nei pressi del Puente Pueyrredón e altri 34 manifestanti riportarono ferite di armi da fuoco. Nel mezzo di un’enorme pressione politica e sociale, l’allora Presidente Eduardo Duhalde anticipò la data delle elezioni al 18 aprile dell’anno successivo e appoggiò la candidatura di Néstor Kirchner.

[9] Come ci spiega Neka il movimento organizzato di occupazione di terre a scopo abitativo inizia nel 1982, ancora nel pieno della dittatura militare, nella zona ovest di Quilimes (conurbano sud), la parte più povera del distretto, su spinta delle comunità ecclesiastiche di base. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta il movimento raggiunge il momento di più alta diffusione e visibilizzazione politica.

[10] Il Movimento EVITA – presente in buona parte del territorio argentino – nasce nel 2005 a partire dalla confluenza di storiche organizzazioni peroniste e di una parte del movimento piquetero che sostiene il kirchnerismo. L’EVITA si definisce come un “movimento nazionale, popolare e federale”, diretto a “organizzare la speranza, riscattare il valore dell’unità (superando la frammentazione del campo nazionale e popolare), ad accompagnare e amplificare le politiche del governo, a generare proposte di trasformazione”. Un movimento che funzioni come “un ponte di andata e ritorno tra lo stato-nazione e i suoi più umili”.

[11] Polizia della provincia di Buenos Aires.

 

 

 

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