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Germania: “non integrazione ma democrazia”

 

di PAOLO CUTTITTA

Mentre l’Italia segue distrattamente il percorso dell’accordo di integrazione, in Germania un documento del KritNet critica il dibattito sviluppatosi attorno al libro di un economista.

In Italia slitta, per il momento, l’entrata in vigore dell’accordo di integrazione. Potrebbe essere l’occasione per evidenziare il carattere intimamente razzista di tale strumento e del concetto stesso di integrazione affermatosi, in questi anni, in Italia come altrove. L’accordo di integrazione non soltanto subordina la regolarità del soggiorno dei migranti all’accettazione di un’interpretazione della storia d’Italia assolutamente arbitraria per ciò che riguarda il ruolo delle diverse religioni (chi chiede il rilascio o il prolungamento del permesso di soggiorno è costretto ad aderire esplicitamente a una “carta dei valori” che individua le radici del nostro paese nella sua supposta “tradizione ebraico-cristiana”), ma si spinge (secondo il regolamento predisposto dal governo per il “permesso a punti”) fino a discriminare coloro i quali adottano particolari condotte culturali benché conformi alla legge – come il non avere fissa dimora – e coloro i quali non hanno i mezzi o le capacità per conseguire titoli di studio in Italia. A simili forme di discriminazione – dirette specificamente verso determinate categorie di stranieri – se ne aggiungono altre più generiche, come quella che nega a tutti gli immigrati la presunzione di innocenza fino all’ultimo grado di giudizio.

E tuttavia sono rimaste rare e disarticolate, finora, le reazioni da parte della politica, dell’associazionismo, dell’università e dei mezzi di informazione nei confronti del lungo processo di costruzione di questo meccanismo così perverso e di più che dubbia legittimità costituzionale. Solo poche e isolate voci critiche si levarono nel 2007, quando l’allora ministro dell’interno Amato varò la carta dei valori, e nel 2009, al momento dell’istituzione dell’accordo di integrazione. Reazioni sparute anche adesso, nei mesi successivi all’approvazione da parte del governo Berlusconi, nel maggio 2010, del regolamento sull’accordo di integrazione. La sua entrata in vigore è stata momentaneamente scongiurata dal recente intervento della Conferenza unificata delle Regioni e degli Enti locali, le cui obiezioni, peraltro, si riferiscono non tanto alla natura razzista del regolamento (benché alcuni tratti discriminatori vengano comunque messi in evidenza) quanto ai risvolti pratici dello stesso, come il fatto che non sono previsti fondi per coprire i costi che la sua attuazione implicherebbe.

In Germania, in questi stessi mesi, il dibattito sull’integrazione è stato invece terreno di più vivaci confronti. Ad accendere la discussione è stato il socialdemocratico Thilo Sarrazin, economista, membro del direttivo della Banca centrale di Germania e già ministro delle finanze del Land di Berlino. Il suo libro Deutschland schafft sich ab (“La Germania si fa a pezzi”), pubblicato a fine agosto 2010, sostiene che la Germania è diretta verso un inarrestabile declino economico e culturale: la causa sarebbe un’immigrazione non adeguatamente selezionata all’origine e l’incapacità di imporre i necessari correttivi alle politiche demografiche e di integrazione.

Il problema principale, secondo l’autore, sarebbe rappresentato dagli immigrati musulmani (in Germania solo i turchi sono oltre due milioni): dalle loro scarse capacità di integrazione, dal loro ruolo parassitario nella società tedesca, dagli alti tassi di fecondità che li contraddistinguono. In confronto sia ai tedeschi, sia ad altre categorie di immigrati, i musulmani si riprodurrebbero a ritmi serrati, avrebbero livelli di istruzione più bassi e i loro figli andrebbero peggio a scuola (a quest’ultimo proposito Sarrazin si spinge fino ad ambigue formulazioni sull’eventualità che il rendimento fallimentare degli scolari turchi possa spiegarsi anche con “fattori ereditari”). I musulmani, inoltre, sarebbero meno produttivi e peserebbero di più sul sistema sociale. Infine, essi non avrebbero voglia di integrarsi e tenderebbero alla creazione di “società parallele” chiuse in se stesse. Stando così le cose, se non si prendessero adeguate contromisure (per esempio incoraggiando le coppie più intelligenti a fare più figli), la Germania sarebbe diretta verso un inarrestabile declino, di cui essa stessa sarebbe in ultima analisi responsabile.

In particolare ha destato scandalo – nel paese che settant’anni fa, nel nome del razzismo e dell’eugenetica uccise milioni di persone – il riferimento ai fattori ereditari, ribadito in un’intervista nella quale l’autore afferma che tutti gli ebrei avrebbero in comune “un gene particolare”. Per queste imprudenti affermazioni Sarrazin – che pure ha poi precisato di non essere razzista – è stato costretto a lasciare il prestigioso incarico alla Bundesbank. Tuttavia le sue tesi – al netto dei riferimenti alla genetica – hanno riscosso un immenso successo popolare: esse rappresentano, del resto, la perfetta espressione del razzismo culturalista di cui sembrano essere ormai imbevute le nostre società. L’atteggiamento prevalente tra i tedeschi, infatti, ha finito con l’essere di simpatia nei confronti di chi “ha il coraggio di dire quello che tutti pensano”. E così, mentre il libro raggiungeva il milione di copie vendute, la cancelliera Merkel si affrettava a sposarne le tesi, dichiarando fallito il modello multiculturale tedesco e indesiderati gli immigrati che pesano sul sistema sociale.

Forti del supporto popolare, i sostenitori di Sarrazin lo difendono a spada tratta, di fronte a ogni accenno di critica, nel nome della libertà di espressione e contro ogni forma di censura. La maggior parte delle critiche, peraltro, ha contestato le tesi espresse nel libro e i dati statistici citati dall’autore a sostegno delle stesse limitandosi a contrapporvi altri dati statistici che dimostrerebbero il contrario. Qualcuno, per esempio, ha fatto notare che gli iraniani (musulmani anche loro, evidentemente!) hanno livelli di istruzione superiori alla media, e i loro figli un rendimento scolastico soddisfacente.

Ma ha senso discutere su questo piano, utilizzando le stesse categorie analitiche, giocando a chi dispone delle statistiche più pertinenti o più affidabili sui “turchi” o sui “musulmani”? Ha senso parlare di quanto costino o di quanto rendano alla società un immigrato o un gruppo di immigrati individuati secondo l’appartenenza nazionale o religiosa? Il Netzwerk kritische Migrations- und Grenzregimeforschung (“Rete per la ricerca critica su migrazioni e regime di frontiera”, in breve KritNet) – una libera aggregazione di persone provenienti dagli ambienti della ricerca, dell’arte, dell’attivismo politico e dell’associazionismo, creata nel 2008 – rifiuta questa retorica dell’integrazione, e afferma il proprio dissenso con un testo polemico, intitolato “Non integrazione ma democrazia” (Demokratie statt Integration).

Il documento, pubblicato in prima pagina dal quotidiano die Tageszeitung l’1 ottobre scorso, ha raccolto migliaia di adesioni nel giro di pochi giorni, e ha ispirato, nella vicina Austria, un’analoga iniziativa, portata avanti da un nutrito gruppo di intellettuali (tra cui il premio Nobel Elfriede Jelinek) e concretizzatasi nell’appello “Basta esclusione!” (Ausschluss basta!).

Proponiamo qui di seguito la traduzione italiana del testo del KritNet (l’originale tedesco e le traduzioni inglese e turca sono disponibili sul sito http://kritnet.org

La Bundesbank si è liberata di Thilo Sarrazin. Ma con ciò la vicenda è tutt’altro che archiviata. Preoccupanti appaiono infatti non solo le tesi populistiche dell’ex consigliere della Banca centrale di Germania ma anche e soprattutto la credibilità che a esse viene riconosciuta. È stupefacente constatare quanti politici, accademici e opinionisti siano d’accordo su un fatto: il biologismo di Sarrazin sarà pur di dubbio gusto (particolarmente in Germania!), ma quest’uomo, in fin dei conti, ha ragione. Non sono in pochi a celebrare l’ex ministro delle finanze del Land di Berlino come colui che – con la sua lungimirante capacità di prevedere il futuro della Germania – ha finalmente rotto un tabù. Ci viene da chiedere: quale tabù? L’uso dell’immigrazione a fini populistico-scandalistici è ormai un classico. Ma il tentativo di mostrare cosa i migranti siano o facciano “veramente”, opponendo fatti scientifici alle infamità proclamate da Sarrazin e altri, non ha senso.

Il dibattito non può essere portato sul piano dell’oggettività, perché non c’è nulla di giusto in questo dibattito. Respingiamo ogni posizione che pretenda di sottoporre i rapporti sociali a scrupolosi calcoli basati sull’analisi costi-benefici, dichiarando poveri e migranti popolazione in esubero. Tutto questo, poi, accade proprio nel contesto di una crisi globale della quale è fin troppo chiaro chi sta pagando le conseguenze.

Chiariamo allora ciò che è già evidente. Viviamo in una società d’immigrazione. Questo significa che se vogliamo parlare di rapporti sociali e convivenza dobbiamo smetterla di parlare di integrazione. Integrazione significa imporre – a persone che lavorano, fanno figli, invecchiano e muoiono in questo paese – un codice di comportamento ancor prima che a questo paese essi possano appartenere con pari diritti. Ma la democrazia non è il circolo del tennis. Democrazia significa che tutti hanno il diritto di stabilire – da sé e insieme agli altri – come intendono vivere gli uni con gli altri. La retorica dell’integrazione è nemica della democrazia.

Di recente è accaduto che i migranti venissero accusati di tenere in particolare spregio i diritti delle donne. Tuttavia il tono isterico assunto dall’attuale dibattito dimostra piuttosto, ancora una volta, che ai critici delle migrazioni non importa la parità dei diritti: delle donne si parla infatti e unicamente come di fattrici, capaci di riprodursi in modo più o meno prolifico. Ciò che serve, invece, è attivare strumenti giuridici e politici che mettano i migranti in condizione di determinare in modo autonomo la loro vita – e ciò comporta anche una riforma del diritto dell’immigrazione.

Quando vediamo certi personaggi di alto profilo pubblico, certe auto-proclamate colonne della società, arrogarsi il diritto – verrebbe da dire “naturale” – di sindacare sulla legittimità o illegittimità della presenza di altre persone ci sembra di scorgere una nuova miscela di neoliberalismo e razzismo. Finora a essere considerati responsabili delle condizioni di vita delle minoranze migranti erano lingua, cultura e costumi religiosi. Adesso tocca al patrimonio genetico. Finora si era sostenuto che anche gli immigrati – con un po’ d’impegno, etica del lavoro e capacità di adattamento – si sarebbero potuti assicurare un posto nella società. Adesso interi gruppi, oltre a vedersi negata l’opportunità di intraprendere un simile percorso, vengono considerati sostanzialmente incapaci di seguirlo. Non è solo il razzismo insito nelle affermazioni di Sarrazin e dei suoi sodali a risultare inaccettabile, ma anche la visione della società che ne consegue e secondo la quale le gerarchie vigenti sarebbero immutabili; privi di senso sarebbero pertanto i conflitti, i confronti e le lotte per una vita migliore: la stessa politica, insomma.

Sono decisioni politiche ad avere provocato l’impoverimento e il declassamento sociale di porzioni crescenti della popolazione. Parliamo di come questa Germania abbia negato per decenni agli immigrati i loro diritti politici e sociali. Parliamo di come l’accesso dei migranti all’istruzione, a una casa, a un lavoro, alle istituzioni pubbliche, ai circoli privati o alle squadre di calcio sia stato sistematicamente ostacolato. Il problema non sono né i poveri né i migranti. Il problema è una politica che produce povertà e razzismo. Il problema è una società che si definisce anche attraverso l’esclusione.

Salta agli occhi il gran numero di persone che si affretta a difendere Sarrazin appellandosi alla libertà di opinione, quasi che egli avesse incontrato qualche problema a rendere pubbliche le sue idee. La critica a Sarrazin viene dipinta come attacco alla libertà di espressione, in modo da trasformare l’aggressore in vittima: anche questo, del resto, è un tipo di messa in scena ben collaudato. Chi fa proprie le opinioni politico-demografiche di Sarrazin contribuisce alla divisione della nostra società.

Perché parlare di integrazione può avere senso solo se si parte da un presupposto: che ci siamo dentro tutti!

 

 

 

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